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IL KOSOVO E I BALCANI NELLE MAGLIE DELL’IMPERIALISMO


Content:

Il Kosovo e i Balcani nelle maglie dell’imperialismo
Guerra e pace dell’imperialismo americano e dei suoi attuali alleati europei
La borghesia serba contro tutti
L’imperialismo italiano a caccia di territori di dominio
La sorte del Kosovo, e della Jugoslavia, è nelle mani degli imperialisti occidentali e dei loro interessi
Le soluzioni borghesi dei contrasti etnici, sociali o fra stati non portano che all’aggravamento dei contrasti
Dai bombardamenti aerei all’occupazione militare a terra
L’opposizione borghese alla guerra
E i proletari?
Notes
Source


Il Kosovo e i Balcani nelle maglie dell’imperialismo

Guerra e pace dell’imperialismo americano e dei suoi attuali alleati europei

24 marzo – 10 giugno 1999: 79 giorni di bombardamenti continui, sulle città serbe e kosovare, da parte delle forze aeree delle maggiori potenze imperialiste del mondo riunite nella Nato. Più di mille morti civili, diverse migliaia di militari serbi ammazzati (alcuni giornali parlano di 5000 soldati); distruzione sistematica di ponti, aeroporti, fabbriche, centrali elettriche, ospedali, caserme, depositi militari, palazzi delle televisioni ecc.; alcune città rase praticamente al suolo come Pristina; l’economia jugoslava distrutta e spinta nell’arretratezza di cinquant’anni fa. Alcuni giornali riportano un dato per la ricostruzione: oltre 50 miliardi di dollari, contro i 77 miliardi di dollari che è costata finora la guerra alla Serbia, cifra che la permanenza delle truppe Nato in Kosovo per molto tempo farà salire parecchio.

Questo è il portato dei civilissimi paesi occidentali che si sono arrogati il «diritto» di «ingerenza umanitaria» a suon di bombardamenti della Jugoslavia. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale non vi è stata alcuna «dichiarazione di guerra» formale da parte della Nato; e non vi è stata nemmeno la solita foglia di fico del «mandato ONU» ma solo la secca decisione di intervenire militarmente contro uno Stato che ha avuto l’ardire di non piegarsi ai disegni delle maggiori potenze mondiali, e degli Stati Uniti in particolare. Il pretesto? Fermare la sua opera «interna» di repressione sistematica e di pulizia etnica nei confronti della popolazione kosovara di origine albanese. Che sia un pretesto lo confermano le decine e decine di situazioni nel mondo in cui la pulizia etnica, insomma la cacciata armi alla mano di intere popolazioni di ceppo o di religione diversi, è stata ed è attuata normalmente: basta ricordare il modo in cui è stato fatto nascere lo Stato di Israele contro i palestinesi, l’ecatombe di armeni, la repressione sistematica dei curdi, per non parlare delle popolazioni indiane nell’America del Nord e dei neri, o delle popolazioni indios in America Latina, o dei pogrom di ebrei in Russia o l’antisemitismo della civilissima Europa, degli zingari in tutti i paesi.

La pulizia etnica è un portato storico delle società divise in classi che la società capitalistica – l’ultima società divisa in classi che la storia umana conosca – ha elevato all’ennesima potenza. Finché esisterà il capitalismo, finché le classi borghesi manterranno il potere nelle loro mani, il razzismo, la discriminazione razziale, la pulizia etnica a mano armata non spariranno mai. Perché spariscano, perché vengano eliminati per sempre dalla vita sociale umana ci vuole una forza sociale e di classe geneticamente antagonista alla borghesia e a tutte le classi possidenti, e questa forza è solo il proletariato che per dirigerla in modo storicamente e praticamente efficace, deve diventare classe per sé, classe rivoluzionaria, diretta dall’organo rivoluzionario per eccellenza, il partito politico di classe, il partito comunista rivoluzionario e, quindi, internazionale.

79 giorni di bombardamenti continui ai quali l’imperialismo italiano, assieme all’americano, britannico, tedesco, e francese, ha partecipato pienamente, volutamente e interessatamente mettendo a disposizione le proprie basi militari, la propria marina militare e la propria aviazione, provando così per la prima volta un vero e proprio intervento di guerra. Al consesso delle grandi potenze del mondo, l’Italia guidata da ex picisti, ex socialisti, ex democristiani, ex extraparlamentari di sinistra – guidata, in sostanza, da personale politico perfettamente riciclabile a seconda dei momenti storici e delle esigenze della patria borghese – può vantare il privilegio di essere considerata un «alleato affidabile», una forza importante che ha quindi «diritto» di ottenere un «riconoscimento» da parte degli altri potenti briganti imperialisti del mondo. Nel gioco imperialistico della spartizione del mondo, l’Italia rivendica una fettina di influenza – e di territorio politico ed economico – più ampia che in precedenza. Alla faccia dei kosovari albanesi e dei proletari di qua e di là dell’Adriatico!

Ogni intervento militare ha più spiegazioni. Vi sono le ragioni ideologiche, di propaganda, che servono per raccogliere consensi, per «compattare» la popolazione intorno allo sforzo militare; vi sono ragioni diplomatiche, di convenienza e di alleanza fra Stati, e vi sono ragioni economiche e politiche, oltre che militari.

Le motivazioni ideologiche che ogni borghesia dominante adduce a sostegno delle proprie ragioni e dei propri interessi sono sempre e soltanto una copertura, un inganno. Lo sono state quelle che difendevano la democrazia contro il totalitarismo ieri, quando la società umana sembrava divisa tra fascismo e antifascismo; come lo sono quelle che difendono oggi i diritti umani dei popoli contro la pulizia etnica, quando la propaganda borghese di ogni genere vuol far credere che la società umana sia divisa fra garanti dei diritti umani e aggressori di popolazioni indifese. Dove sta l’inganno?

L’inganno, in verità, è duplice: sia gli «aggressori» che gli «aggrediti» sostengono lo stesso impianto ideologico, si rifanno agli stessi accordi internazionali sanciti nella carta dell’ONU, difendono lo stesso principio della sovranità nazionale, sono interessati allo stesso titolo alla conservazione sociale capitalistica, dunque allo sfruttamento più intensivo possibile del lavoro salariato. La Jugoslavia post-titina, borghese quanto la Jugoslavia di Tito, rivendica il diritto di risolvere i propri problemi interni con i mezzi e i metodi che ritiene più opportuni: lo ha fatto e lo fa contro gli operai in sciopero, lo ha fatto e lo fa contro coloro che considera «terroristi» o «fiancheggiatori», come nel caso dei «ribelli» kosovaro-albanesi che siano o no membri del recentissimo UCK (sedicente esercito di liberazione del Kosovo). È questo un diritto che ogni borghesia dominante si arroga, naturalmente con la forza, e che mette in pratica innanzitutto all’interno del territorio che domina, all’interno del proprio Stato e di quei paesi che ha eventualmente conquistato con la guerra; è esattamente quello che ha fatto e fa Londra nei confronti dell’Irlanda e di quelli che erano i suoi domini coloniali, così come la Francia rispetto alla sue colonie, e la stessa Italia quando si era impossessata di Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Albania.

La borghesia serba contro tutti

La borghesia serba, oggi, nel tentativo di rafforzare il proprio dominio politico ed economico all’interno del territorio che controlla, in una parte del quale vivono popolazioni di origine diversa, come gli albanesi nel Kosovo, gli ungheresi nella Vojvodina, i montenegrini nel Montenegro, o di religione del tutto diversa come i musulmani del Sangiaccato, e nel tentativo di riconquistare il peso politico e diplomatico nell’area balcanica che aveva ai tempi di Tito e che ha progressivamente perso a causa delle separazioni (sostenute come si sa dagli imperialismi europei e soprattutto da quello germanico) di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia, è spinta inevitabilmente a compattare l’intera popolazione serba – dunque borghesi, contadini, proletari – accentuando alla massima potenza una delle armi più efficaci che possiede ogni borghesia: il nazionalismo. E come ogni nazionalismo, anche quello serbo aveva ed ha bisogno di attuarsi non solo attraverso campagne ideologiche e propagandistiche – come è avvenuto e avviene (ben sintetizzate dallo slogan: dove vive un serbo quella è Serbia, o incentrate nelle cosiddette origini storiche della Serbia proprio in Kosovo grazie alla ormai famosa battaglia di Kosovo del 1389 – che in realtà è stata una tremenda sconfitta – contro l’impero ottomano – ossia contro i turchi – lanciato alla conquista dell’Europa); esso ha bisogno di attuarsi attraverso fatti concreti e importanti, tendenzialmente definitivi. E uno di questi, per la borghesia serba guidata oggi da Milošević, doveva essere la sottomissione definitiva della popolazione albanese del Kosovo, storicamente ribelle e causa di continua instabilità; che è lo stesso obiettivo che si è posta ad esempio la borghesia turca (e con questa le borghesie iraniana, irachena e siriana) nei confronti della popolazione curda, non a caso trattata come un popolo di terroristi vista la facilità di presa popolare delle campagne ideologiche «contro il terrorismo». Nello stesso tempo, la borghesia serba intendeva regolare i conti con il proletariato che in diverse occasioni – come lo sciopero generale del marzo-aprile 1981, i duri scioperi dei minatori nel febbraio-marzo del 1989, i continui movimenti proletari di protesta contro la discriminazione salariale tra proletari albanesi e serbi dal 1990 in poi – l’aveva impegnata in lotte sociali mettendo in situazione critica l’intero apparato dominante. E non è come il nazionalismo, sostenuto in questo caso da giustificazioni razziali antialbanesi e, in seguito ai bombardamenti Nato, antioccidentali, per tentare di avviluppare il proletariato nella morsa del collaborazionismo interclassista.

Ma la borghesia serba, in questo tentativo di non indebolirsi oltre nell’area balcanica, si è andata a scontrare con le politiche di potenza dei più grandi imperialisti del mondo. Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Italia, ossia la struttura portante della Nato in Europa, e al loro fianco la Francia che è forza non inserita nella Nato (ancora per molto?) e dall’altra parte la Russia che è rimasta potenza nucleare di prima forza ma senza satelliti come ai tempi del Patto di Varsavia, hanno tra di loro certamente interessi contrastanti che prima o poi provocheranno urti molto forti; ma oggi nei riguardi dei Balcani – ossia di una zona di confine tra Occidente e Oriente europeo, strategica, e di grande rilevanza anche rispetto al controllo «dall’alto» del Medio Oriente petrolifero – appaiono in qualche modo cointeressate a dimensionare decisamente le aspirazioni della Serbia, e con esse quelle della Russia che continua a tentare di riguadagnare peso e posizioni strategiche sul versante europeo anche a scapito del «fratello slavo» serbo.

Ieri, con la Russia che stava a guardare anche perché non era nelle condizioni di far nulla di diverso, prima la Slovenia e la Macedonia, poi la Croazia e infine la Bosnia, attraverso guerre anche molto cruente, sono state messe dalle potenze imperialistiche europee e americana nelle condizioni di separarsi dalla Serbia «edificando» Stati indipendenti dalla vecchia Jugoslavia, venendo così accorpate nelle zone di influenza in particolare della Germania, degli Stati Uniti e dell’Italia; con l’immissione poi nell’Alleanza Atlantica di Polonia, Cechia e Ungheria, l’accorpamento di fatto nelle operazioni Nato dell’Albania (che ormai è un protettorato dell’Italia) e della Macedonia (che ormai è un protettorato degli USA), e con l’intervento militare della Nato contro la Serbia, il disegno di spartizione delle zone di influenza nell’area dei Balcani ha avuto una decisa accelerazione.

Oggi e domani nell’attuale Repubblica federale di Jugoslavia la prospettiva è segnata: le possibilità della borghesia serba non andranno oltre a quanto il concerto degli imperialismi più forti del mondo decideranno; e per quanto venga avviato un processo di «rinnovamento democratico» al suo interno, la dipendenza dai più forti paesi crescerà e, con essa, aumenterà pesantemente la pressione sul proletariato jugoslavo.

È almeno da dieci anni, ossia dal crollo dell’URSS, che il disegno degli imperialisti occidentali è in opera, ma perché si attuasse aveva bisogno, come sempre per i borghesi, di pretesti ideologici «sostenibili», che facessero presa sulle classi borghesi e piccoloborghesi, che paralizzassero ancor più il proletariato nella sua arretratezza politica e nelle sue difficoltà economiche e sociali, e aveva bisogno di una congiuntura politico-diplomatica nei rapporti interimperialistici in grado di giustificare un intervento militare come quello avvenuto contro la Jugoslavia. Così, mentre si autoproclamavano difensori dei «diritti umani» dei kosovari, le potenze imperialistiche occidentali si sono assunte il «diritto» di intervenire militarmente contro la Jugoslavia semplicemente perché quest’ultima non accettava le loro condizioni rese appositamente inaccettabili al noto incontro di Rambouillet. E, come ormai succede da quando il condominio russo-americano sul mondo è caduto con il crollo dell’URSS, non vi è iniziativa degli imperialisti europei che non sia provocata, spinta, influenzata, concordata più o meno segretamente, da Washington.

L’imperialismo italiano a caccia di territori di dominio

In tutta questa vicenda l’imperialismo italiano – che non nasconde mire di potenza verso la sponda orientale dell’Adriatico – ha tentato, ed è in parte riuscito, a dar più peso ai propri interessi politici e diplomatici; tutto ciò che avviene nell’area mediterranea, dell’Adriatico e dei Balcani in particolare, ha inevitabili ripercussioni sull’Italia, data la contiguità dei territori, e questo è un fatto che trova radici in tutto il lungo arco storico che ha visto lo sviluppo delle civiltà mediterranee nelle diverse epoche. L’Italia, da tempo meta di migrazioni massicce di diseredati e disperati dai Balcani, dunque, ha suoi interessi imperialistici distinti in quest’area, e perciò non può essere considerata una semplice portaerei dell’esercito a stelle e strisce. La lenta ma decisa occupazione militare di punti nevralgici dell’Albania col pretesto di controllare le emigrazioni clandestine verso l’Italia, la sempre più insistente penetrazione economica e finanziaria in Serbia (di cui il controllo della rete telefonica jugoslava da parte dell’italiana Telecom è la punta di diamante) sono i punti di forza degli interessi specifici dell’imperialismo italiano nell’area. Se a questo aggiungiamo i traffici strettamente connessi della mafia pugliese e della mafia albanese (droga, armi, prostituzione) si allarga il quadro strategico degli interessi italiani verso i Balcani. Questo non toglie che l’imperialismo italiano, nei confronti di quello statunitense, sia più debole e debba spesso accettarne i diktat.

Nello stadio imperialistico di sviluppo del capitalismo, come sottolineava Lenin, è inevitabile che gli stessi paesi forti e imperialisti cadano, per un periodo più o meno lungo, sotto l’influenza di paesi imperialistici più potenti; influenza che può essere spezzata, o resa ancor più pesante, dall’andamento delle guerre fra Stati imperialisti. L’imperialismo esprime due particolarità (sempre Lenin): «reazione politica su tutta la linea e intensificazione dell’oppressione nazionale, conseguenze del giogo dell’oligarchia finanziaria e dell’eliminazione della libera concorrenza»[1]. La reazione politica non dipende quindi dal governo che in un certo periodo è alla guida di un paese imperialista; può essere un governo repubblicano o democratico come negli USA, di centro destra o di centro sinistra come in Italia, cristiano sociale o socialdemocratico come in Germania, conservatore o laburista come in Gran Bretagna, socialista o gollista come in Francia, ma la sua politica sarà comunque e sostanzialmente reazionaria, poiché è la fase imperialista dello sviluppo capitalistico – e la conseguente difesa degli interessi nazionali del proprio imperialismo – a dettare la politica dei governi borghesi. E il fatto che l’oppressione nazionale non sia una politica legata esclusivamente al periodo del possesso fisico di colonie da parte dei paesi capitalisti più forti, è dimostrato dall’aumento a 360 gradi della dipendenza economica, e quindi politica e militare della maggior parte dei paesi del mondo da un pugno di paesi ricchi che dominano sull’intero pianeta. I vertici dei G7, e oggi spesso dei G8 (con la Russia) – ma un domani potrebbero essere dei G9 comprendendo anche la Cina – stanno a dimostrare, se mai ve n’era bisogno, che i destini del mondo sono governati da un pugno di paesi ricchi, gli imperialismi più forti che opprimono la stragrande maggioranza delle nazioni. E la prima oppressione è certamente economica, ma vi sono in più l’oppressione politica, militare, culturale, razziale, religiosa che su quella economica poggiano saldamente. Non c’è come mettere alla fame un popolo, un paese, per dominarlo!

L’Italia di sinistra, del governo D’Alema, non sfugge a questa legge dell’imperialismo, come non sfugge alcun governo borghese. La guerra, e dunque ogni azione ed intervento militare, non è che la continuazione della politica con altri mezzi – sosteneva con grande realismo il barone von Clausewitz. Ed è vero perciò anche il percorso inverso, e cioè che se la guerra è imperialista significa che la politica di cui è la continuazione è politica imperialista, dunque il governo e lo Stato che la emana è governo e Stato imperialista. D’Alema (ex rappresentante di un Pci che negli anni Cinquanta, solo ed esclusivamente per ragioni elettorali e di propaganda politica, aveva coniato lo slogan: fuori la Nato dall’Italia, fuori l’Italia dalla Nato – slogan che ridicolmente è stato ripreso da Rifondazione comunista – pensando così di prendere le distanze dalla soffocante America per andare ad abbracciare la «mitica» Russia staliniana), non fa che applicare con grande cura la politica imperialista del capitalismo italiano, fuori e dentro i confini nazionali. Da questo punto di vista è una marionetta quanto lo sono i suoi degni compari, da Tony Blair a Bill Clinton a Jospin, Chirac e Schröder, poiché le ragioni di fondo che hanno mosso questi paesi all’intervento di guerra contro la Serbia rispondono sia alle esigenze, prioritarie per ogni imperialismo, di opprimere ogni velleità di autonomia e indipendenza, e di concorrenza da parte di qualsiasi altro paese, sia alle esigenze di ognuno di loro di non rimanere emarginati dal gioco delle grandi potenze.

La Jugoslavia è alle porte dell’Europa e confina ad occidente, oltre che con l’Albania, attraverso il Montenegro e il suo pezzo di mare Adriatico con l’Italia; a sud con la Macedonia (sotto influenza americana), e quindi con Grecia e Turchia (paesi Nato); a nord con Ungheria (paese Nato), Croazia e Bosnia, sotto influenza tedesca; ad est con la Bulgaria, tesa più verso l’occidente europeo che a rinsaldare la vecchia «fratellanza slava» con la Serbia, e la Romania, ormai occidentalizzata. Ogni politica che la borghesia serba adotta in patria non può non avere un riflesso immediato al di fuori dei suoi confini, soprattutto in un periodo in cui la nuova spartizione delle zone di influenza fra i più grandi paesi imperialisti del mondo non è ancora avvenuta. Non è un caso che da quando è finito il «bipolarismo» America-Russia sul mondo ogni stormir di fronda a Mosca, a Bucarest, a Belgrado, a Scopje, a Zagabria, a Sarajevo o a Podgorica, a Budapest o a Varsavia, a Riga o a Kiev, a Baku o a Praga, viene ascoltato con apprensione a Roma, a Vienna, a Berlino, a Parigi, a Londra e a Washington, a Tokio e oggi anche a Pechino.

Finito il dominio di Mosca sui paesi dell’Europa dell’Est non poteva che scatenarsi la caccia da parte degli imperialismi occidentali ai territori lasciati in balia di se stessi. E il colpo migliore finora è riuscito alla Germania che con l’annessione della Germania del’Est ha sancito l’apertura di uno scontro interimperialistico di lunga durata relativamente alla nuova spartizione del mercato mondiale e, in particolare, dei paesi dominati in precedenza dall’imperialismo russo sia sul versante europeo che su quello balcanico e asiatico. Ridimensionato fortemente l’imperialismo russo, e caduti quindi gli equilibri nell’Europa dell’Est che avevano permesso ad esempio alla Jugoslavia di Tito di attuare una politica di relativa «equidistanza» fra America e Russia, ottenendo vantaggi da entrambe, la Jugoslavia era destinata, alla pari degli altri paesi dell’Est europeo, a diventare terreno di aperta caccia per gli imperialismi occidentali. E in questo scontro l’Italia fa la sua parte, con le missioni commerciali, con l’impianto di fabbriche, con delegazioni diplomatiche e militari e magari sotto l’effetto propagandistico delle visite di Giovanni Paolo II, papa casualmente slavo.

La sorte del Kosovo, e della Jugoslavia, è nelle mani degli imperialisti occidentali e dei loro interessi

Il capitale finanziario, che ormai dall’inizio del secolo domina incontrastato su tutto il mondo, detta costantemente le priorità ai governi borghesi di tutti i paesi; mutando i rapporti di forza economici e finanziari tra i vari paesi, mutano di conseguenza i rapporti di forza tra le potenze imperialiste. E mutano le alleanze «inter-imperialiste». Il disfacimento del Patto di Varsavia, conseguenza del disfacimento dell’URSS, ha innestato un continuo proiettarsi degli Stati dell’Europa dell’est verso il ricco Occidente imperialistico, passando così da una «colonizzazione» di tipo militare da parte della ex URSS ad una «colonizzazione finanziaria» da parte degli Stati Uniti, della Germania, dell’Italia, della Francia, della Gran Bretagna e soprattutto dei grandi monopoli internazionali che, come ormai tutti sanno, concentrano capitali provenienti da diversi paesi. E sono gli interessi di questi grandi monopoli, veri e propri punti di forza dell’imperialismo, che dettano legge, che spingono i rispettivi governi nazionali ad intraprendere azioni di ogni tipo, da quelle commerciali agli accordi economico-finanziari, da quelle diplomatiche a quelle militari, pur di assicurarsi, in una lotta senza esclusione di colpi, quelli che Lenin chiamava «territori economici», ossia territori in cui ogni più piccola risorsa esistente – dalle attività economiche alle risorse naturali, dal capitale alla forza lavoro locali – venga indirizzata soltanto nella direzione di ingrossare i loro profitti, o perlomeno di non danneggiarli.

I dieci anni di guerre in Jugoslavia non si potranno mai spiegare con le tesi che vorrebbero addossarne le colpe alle diverse pulizie etniche, al carattere barbaro delle popolazioni balcaniche, alle volontà dispotiche di piccoli dittatori locali, a contrasti religiosi e a odii razziali le cui origini si perderebbero nella notte dei tempi. Si possono invece spiegare seguendo i criteri di interpretazione del marxismo, che fanno sempre dipendere la politica borghese e imperialistica (dunque anche la sua continuazione logica, che è la guerra borghese e imperialistica) dagli interessi economici dei capitalismi più forti; e, nell’epoca dell’imperialismo, dagli interessi economici e di dominio dei trust, dei monopoli più forti del mondo. I bombardamenti a tappeto delle città, o quelli cosiddetti «intelligenti», la «pulizia etnica», i massacri, l’affamamento di intere popolazioni, la deportazione di massa, ogni tipo di violenza su donne, vecchi e bambini che ogni guerra borghese svela, sono i mezzi materiali che le borghesie dominanti, dall’una e dall’altra parte, usano o cercano di usare sistematicamente per rafforzare il proprio dominio «in casa propria» e per schiacciare i nemici «a casa loro».

In terra jugoslava si sono scontrati, e si scontrano, interessi che oltrepassano di gran lunga il problema della repressione della popolazione kosovara di origine albanese da parte serba. Si scontrano interessi legati alle industrie degli armamenti, che finalmente possono contare sull’uso pratico, e in una guerra reale, delle più diverse armi, interessi delle industrie legate allo sforzo bellico, dalle telecomunicazioni alle acciaierie, dal tessile all’alimentare, dall’industria mineraria ai trasporti all’industria petrolifera e chimica, e interessi legati ai rapporti di forza fra i diversi Stati imperialisti dove gli europei tentano di guadagnare una più decisa autonomia militare e finanziaria dagli USA. Gli Stati Uniti tentano di controllare passo passo ogni piccolo rafforzamento militare degli alleati-nemici, la Russia tenta di non farsi estromettere del tutto dallo scacchiere europeo.

I kosovari albanesi, in questi ultimi dieci anni, hanno subito un’oppressione nazionale da parte del governo serbo di Milošević che si è intensificata sempre più proporzionalmente con l’aumentare dell’isolamento della borghesia serba rispetto alle altre borghesie balcaniche, da quella croata a quella bosniaca, da quella slovena a quella bulgara e perfino da quella macedone, verso le quali i capitali occidentali affluivano più copiosamente che a Belgrado. Per non parlare della Turchia, che nell’area balcanica ha mire da imperialismo regionale e per questo si va a scontrare con la Serbia che ha le stesse mire. E i proletari albanesi del Kosovo, oltre all’oppressione salariale caratteristica di ogni paese capitalistico, hanno forzatamente condiviso con il resto della popolazione albanese del Kosovo l’oppressione nazionale.

I kosovari albanesi, perlopiù piccoli e piccolissimi contadini, dopo le distruzioni delle loro case, dei loro villaggi, del loro bestiame, delle loro attrezzature, delle strade, dei ponti, delle centrali elettriche e delle fabbriche, staranno molto peggio di prima, perché, oggi alla stessa stregua dei «nemici» serbi, dipenderanno molto di più da quella «fitta e ramificata rete di relazioni e di collegamenti, che mettono alla sua (del capitale finanziario concentratosi in poche mani, NdR) dipendenza non solo i medi e i piccoli proprietari e capitalisti, ma anche i piccolissimi» (Lenin)[2].

Le soluzioni borghesi dei contrasti etnici, sociali o fra stati non portano che all’aggravamento dei contrasti

Alla catena di dipendenza economica e finanziaria delle borghesie più deboli da quelle più forti, si sovrappone una catena di oppressioni, che partono da quella fondamentale che è l’oppressione salariale sul proletariato di qualsiasi nazionalità per ramificarsi in ulteriori oppressioni, nazionale, razziale, religiosa o sessuale.

E non esiste alcuna «soluzione» borghese in grado di superare la serie di oppressioni che caratterizzano la moderna società capitalistica; né la soluzione di tipo democratico – come l’America e l’Inghilterra, culle della democrazia nel mondo, hanno ampiamente dimostrato – né quella di tipo centralistico e fascista – come cento esempi oltre a quelli della Germania nazista o dell’Italia fascista hanno dimostrato e dimostrano. Non esistono «terze vie», così care agli intellettuali piccoloborghesi che vorrebbero la conservazione del capitalismo ma l’eliminazione dei suoi effetti peggiori, e non esistono soluzioni di tipo gradualistico attraverso le quali, passo passo, e con la «buona volontà di tutti», ogni aspetto spigoloso del capitalismo possa essere smussato e superato.

I socialdemocratici e gradualisti di prima, seconda e terza generazione le hanno provate sempre, anche dalle poltrone dei ministeri e dei governi, ma hanno soltanto dimostrato di essere al servizio del capitale finanziario, dunque dell’imperialismo, quanto lo erano e lo sono tutti gli altri politici borghesi; i nazionalcomunisti di prima, seconda e terza generazione hanno continuato a professare fiducia nelle «terze vie», ma e bastato avere il governo in mano per dimostrare che di vie da seguire, anche per loro, ce n’è una sola, quella di rispondere in modo adeguato e, come ormai si è abituato a dire D’Alema, «coraggioso» alle esigenze dell’economia nazionale e della sua competitività nel mercato internazionale. Ma come dimostrano le mille guerre locali scoppiate dopo la fine della seconda guerra mondiale, i mille contrasti di carattere economico, commerciale, finanziario, militare che quotidianamente e contemporaneamente esplodono in più parti del mondo, ogni loro «soluzione» borghese, per quanto «politica», democratica, concordata fra le parti, stretta con patti ufficiali e solenni, resta una soluzione precaria che pone le basi per un loro ripresentarsi in forme sempre più acute e brutali. E se queste «soluzioni» riguardano in particolare i paesi capitalisticamente deboli – e qui l’elenco è lunghissimo, dall’Angola al Congo, dalla Palestina al Libano, dall’Afghanistan al Pakistan, dalla Somalia all’Etiopia al Ruanda alla Liberia, dalla Colombia all’Indonesia al Caucaso alla Jugoslavia, ecc. ecc. – la loro precarietà si aggrava e si acutizzano enormemente gli elementi di crisi successiva.

Le ragioni dell’imperialismo sono le uniche ragioni che si impongono nella società capitalistica; la sola alternativa va cercata fuori delle forze politiche parlamentari e borghesi, fuori delle tesi gradualiste e riformiste, fuori delle tesi pacifiste o concentrazioniste: va cercata nella forza di classe del proletariato, tutta da rigenerare – certo! -ma l’unica in grado di spezzare la catena delle mille oppressioni che caratterizzano la moderna società borghese. La vera alternativa non potrà mai essere: democrazia o fascismo, democrazia o dittatura, perché la storia ha ampiamente dimostrato che queste sono facce della stessa medaglia, sono metodi di governo della stessa classe dominante, la borghesia. Caso mai, lo sviluppo del capitalismo sotto la fase imperialistica porta all’ennesima potenza la dittatura del capitale, e dunque la dittatura di una manciata di paesi superindustrializzati sull’intero pianeta, seppellendo definitivamente ogni velleità democratica e pacifista. Quando il proletariato è sul suo terreno, sul terreno della lotta di classe e rivoluzionaria, questa verità la riconosce appieno, come la riconobbe negli anni Venti di questo secolo, e non ha timore di misurarsi sul terreno dello scontro aperto nella guerra di classe e rivoluzionaria contro non solo la propria borghesia, ma le borghesie del mondo intero.

Dai bombardamenti aerei all’occupazione militare a terra

Se la congiuntura internazionale comporta la difesa da parte dei governi della propria politica imperialistica non solo sul terreno economico e finanziario, politico e diplomatico, ma anche su quello militare – come in tanti casi finora avvenuti, dal Libano alla Somalia, dal Golfo Persico alla ex Jugoslavia –, allora il «fedele alleato» è chiamato a «fare il suo dovere»: partecipare alla politica imperialistica dei paesi più potenti del mondo fino all’intervento militare, fino al bombardamento di Belgrado, fino all’occupazione militare di un altro paese! E non solo e non tanto per servilismo nei confronti della più forte America, ma ognuno anche per scopi propri, per poter rivendicare una fetta di «potere» nel dopoguerra! Ed è quel che è successo, visto che il Kosovo, finiti i bombardamenti Nato e serbi, e rifluiti i 40 mila militari serbi verso la Serbia, è stato spartito dai «vincitori» in 5 zone poste sotto comando britannico, tedesco, statunitense, francese e italiano; con l’immissione di un contingente russo aggregato alle forze d’occupazione britanniche.

La guerra è finita, sostengono tutti i gazzettieri del mondo, ed ha avuto un «vero vincitore», Washington; ma pare, dando loro ascolto, che abbia «vinto» anche l’Europa che si è presa il carico non solo di partecipare ai bombardamenti Nato prima, ma soprattutto dell’occupazione militare del Kosovo ora. Il pretesto per iniziare i bombardamenti Nato l’abbiamo visto prima: impedire al governo di Belgrado la «pulizia etnica» dei kosovari albanesi. Questo obiettivo è stato mancato in pieno, viste le deportazioni in massa di quelle popolazioni. Il pretesto per l’occupazione militare del Kosovo? Far rientrare nei loro villaggi e nelle loro città il milione e mezzo circa di kosovari albanesi fuggiti o deportati durante l’ultimo anno e soprattutto durante i famosi 79 giorni. Quali villaggi, quali città? Moltissime case sono distrutte, incendiate, non c’è acqua, non c’è elettricità e non c’è un granché da mangiare; in che condizioni dovrebbero vivere i kosovari albanesi di ritorno alla loro terra? L’oppressione serba è stata di fatto sostituita dall’oppressione combinata di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia.

Che spazio potranno avere in Kosovo i movimenti di protesta per il pane, per l’acqua, per le condizioni igieniche, in una situazione in cui sono i militari armati fino ai denti a decidere quello che si deve o non si deve fare, dove si può andare e dove no, dove ci si deve fermare e dove no? Che spazio potranno avere, una volta che riaprono le miniere di piombo e di zinco, e le fabbriche, i movimenti di protesta dei lavoratori per condizioni di vita e di lavoro meno schiavistiche, in una situazione in cui ogni luogo ritenuto importante risorsa economica da difendere (dunque non solo i comandi militari ma anche le fabbriche e le miniere, i ponti e le centrali ricostruiti) sarà piantonato dai carri armati? I militari Nato della KFOR, ossia i guardiani armati del Kosovo per conto delle potenze imperialistiche, sono stati salutati dagli albanesi come «liberatori»; e come «liberatori» sono stati salutati dai serbi rimasti a Pristina anche i paracadutisti russi della SFOR di stanza in Bosnia e giunti, a scorno dei britannici, a Pristina prima di loro; ebbene questi «liberatori» sono invece i garanti del nuovo ordine imperialistico che le maggiori potenze del mondo hanno deciso di attuare in Serbia, a partire dal Kosovo.

L’opposizione borghese alla guerra

Ma nei nostri opulenti paesi occidentali, nel frattempo, durante la continua pioggia di bombe in Serbia e in Kosovo e la contemporanea e micidiale «pulizia etnica» contro i kosovari albanesi, quale opposizione si è levata? Purtroppo soltanto opposizione borghese!

Chi, come Rifondazione Comunista di Bertinotti e la Lega di Bossi (bell’accoppiata davvero!), si è messo «contro» l’intervento militare della Nato e la partecipazione italiana ad esso, ma in difesa della Serbia, dunque in difesa della borghesia serba che nella vicenda appariva «aggredita» dagli imperialisti americani. Chi, come i Comunisti Italiani di Cossutta e i Verdi (altra bell’accoppiata!), ha continuato a minacciare di uscire dal governo «se» i bombardamenti non fossero terminati e «se» non si fosse intrapresa una iniziativa diplomatica per la soluzione «politica» della questione del Kosovo, ma non è mai uscito dal governo che l’intervento di guerra ha continuato a farlo fino in fondo. Chi, come il governo D’Alema, ha lanciato contemporaneamente le proprie forze armate nell’intervento militare contro la Serbia e la pacifica «missione arcobaleno» a sostegno dei profughi albanesi dal Kosovo nei campi di concentramento, pardon!, nei campi di raccolta nei quali i profughi avevano ben poca speranza di liberarsi dalla fame, dalla sete e dalla sporcizia. A dimostrazione che le forze democratiche, in qualsiasi modo allocate nell’arco istituzionale, a destra al centro o a sinistra, sono in realtà del tutto impotenti rispetto alla guerra; e lo sono non per caso, ma perché in condizioni politiche mutate come appunto avviene con le azioni di guerra, esse non fanno che dare continuità alla loro vera politica che è sostanzialmente di difesa della conservazione capitalistica o di collaborazionismo con le forze che esprimono direttamente quella difesa. Da queste forze il proletariato non può aspettarsi nessuna difesa dei suoi interessi, né immediati né tantomeno politici più generali. D’ altra parte, la continua gragnuola di misure antioperaie che i diversi governi che si sono succeduti hanno sfornato finora dimostra che se si fanno gli interessi dell’economia nazionale, della competitività delle merci nazionali, non si può andare contro gli interessi internazionali dell’imperialismo di casa; in realtà non si fa che rafforzare ancor più gli interessi internazionali del proprio imperialismo andando ancor più ad intensificare l’oppressione salariale e sociale nei confronti del proprio proletariato!

E i proletari?

I proletari italiani che hanno fatto? E quelli francesi, tedeschi, inglesi, americani? Che opposizione all’intervento di guerra in Serbia e in Kosovo? Da un proletariato in cui si è radicato da decenni una specie di spontaneismo collaborazionista, a sua volta innestato dalla pluridecennale politica interclassista di tutti i partiti cosiddetti socialisti o comunisti di origine staliniana, e di tutti i sindacati operai ma in realtà tricolore; da un proletariato in cui sono state inoculate a dosi massicce e costanti droghe di ogni genere, dall’elezionismo ai metodi democratici e negoziali nelle lotte, dall’interesse individuale al razzismo, dal disinteresse per la sorte di altri proletari, disoccupati o schiavizzati, al pacifismo; da un proletariato in cui si è radicata nel tempo la rinuncia alla lotta come mezzo di difesa principale contro le classi avverse e in difesa dei propri interessi specifici di classe, non era e non è possibile attendersi di colpo la sana reazione classista contro le imprese di guerra delle proprie borghesie nazionali.

La tragedia che il proletariato di ogni paese vive, ma non se ne accorge ancora, sta nella rottura con le sue tradizioni di classe, con le sue esperienze di solidarietà internazionalista, con le sue lotte in difesa esclusiva dei propri interessi di classe riconoscendo a viso aperto l’antagonismo che lo oppone a tutte le classi borghesi del mondo, e alla classe borghese nazionale in primo luogo. Per questa rottura, per questo risultato tutto a favore della borghesia e del rafforzamento del suo dominio sulla società, hanno profuso energie inestimabili generazioni di collaborazionisti, di venduti al padronato, di politicanti di ogni specie, di traditori della causa proletaria, di falsi comunisti e falsi rivoluzionari, di sfruttatori permanenti della classe proletaria, di parassiti all’ingrasso.

La tragedia che il proletariato dei paesi opulenti vive, ma non se ne accorge, è la sua complicità con la propria borghesia non solo nello sfruttamento del lavoro salariato che lo vede come schiavo diretto dei propri padroni, ma anche nello sfruttamento ancor più bestiale e disumano dei proletari delle nazioni più deboli e più povere da parte della propria opulenta borghesia. In questo senso l’oppressione salariale e nazionale, sofferta dal proletariato e dalle popolazioni delle nazioni più povere, che è oppressione borghese, è condivisa dal proletariato dei nostri paesi ricchi; il tenore di vita più alto del proletariato dei paesi ricchi lo si deve anche al brutale sfruttamento del proletariato e delle masse contadine della stragrande maggioranza dei paesi del mondo, che è costituita appunto dai paesi più poveri, poiché la borghesia imperialista utilizza una parte dei suoi profitti per pagare meglio una parte dei salariati e legarli in questo modo ai suoi interessi.

È attraverso questa catena di oppressioni che la borghesia imperialista dei paesi più ricchi si compra il consenso del proprio proletariato attraverso la sua segmentazione in strati differenziati, in aristocrazia operaia, in operai «garantiti», in operai precari, in disoccupati, in lumpenproletariat. E al proprio servizio, per ottenere stabilmente il consenso proletario, si è comprata, e si compra continuamente, una sterminata fila di sindacalisti («esperti» in relazioni sindacali e industriali), di economisti («esperti» in marketing), di psicologi («esperti» in rincretinimento dei cervelli), di organizzatori («esperti» in intensificazione dei ritmi di lavoro), di politici («esperti» in ideologie ingannatrici), di poliziotti indivisa e non la cui funzione è chiarissima ad ogni proletario fin da bambino.

La rinascita del proletariato in quanto classe capace di propria iniziativa e di lotta per i propri interessi di classe sta nello spezzare la catena di oppressioni che la borghesia, con l’indispensabile contributo delle forze collaborazioniste, ha costruito allo scopo di dominare con più sicurezza e per lungo tempo la società intera. Date le condizioni di sottomissione del proletariato europeo e americano alle rispettive borghesie imperialiste, può apparire impossibile che esso possa un giorno uscire da questa condizioni, rompere completamente con la fitta rete di relazioni collaborazioniste con cui la borghesia è riuscita a paralizzarlo e a farne un suo complice. Date le condizioni di arretratezza sul piano politico e sul piano della difesa immediata delle condizioni di vita e di lavoro, in cui il proletariato dei paesi ricchi è stato spinto dalla politica e dalla pratica del collaborazionismo tricolore, può sembrare difficile credere che si possa presentare domani una situazione in cui il proletariato, questo proletariato, i figli e i nipoti di questi proletari, possano rialzare la testa e riprendere nelle proprie mani il destino delle proprie lotte, delle proprie speranze, delle proprie vite.

La borghesia imperialista appare invincibile, riesce a spezzare, corrompere, annullare ogni movimento di lotta che tenda ad uscire dai rigidi canoni delle relazioni sociali che essa ha dettato e che fa rispettare con le proprie forze dell’ordine e con i propri eserciti. Allora, sarà mai possibile imboccare la via della rivoluzione proletaria, la via dello sconvolgimento profondo della vita economica e sociale capitalistica per innestarvi una società diversa, un modo di produzione che abbia per suo fine la soddisfazione dei bisogni della specie umana e non quelli del mercato e dei profitti capitalistici? Una società in cui non vi sarà più alcun bisogno né di accumulare giganteschi profitti né di guerre per spartire il mondo in zone di influenza imperialistica, per il semplice motivo che il modo di produzione capitalistico, che è alla base di tutti gli effetti orrendi e devastanti che la società borghese presenta ogni giorno, sarà stato distrutto e sostituito con il modo di produzione comunistico che si baserà sulla società di specie e non più sulla società divisa in classi antagoniste? È un’utopia questa? No, è il futuro della società umana, per il quale la classe proletaria, pur non rendendosene assolutamente conto oggi, e pur immersa nella putrefazione di una società degenerata che immola al dio profitto milioni di vite umane, sarà chiamata a lottare e a combattere per la specie umana e non solo per se stessa in quanto classe di questa società borghese.

Le crisi economiche, politiche, di guerra che costellano la sopravvivenza della società borghese non fanno altro che rimettere costantemente in primo piano l’impossibilità da parte delle classi borghesi di superare e risolvere definitivamente le contraddizioni della società presente; e rendono sempre più pesante lo sfruttamento e l’oppressione del capitalismo sulle classi sfruttate e sulle masse di tutto il mondo. Le condizioni di maturazione dei contrasti sociali al punto di rottura delle complicità interclassiste e del collaborazionismo sono molto più lente di quanto non abbiano sperato i rivoluzionari di ieri e di quanto non sperino i rivoluzionari di oggi; ma come sono inesorabili le crisi capitalistiche, altrettanto inesorabile è il processo di maturazione degli antagonismi di classe. Sarà lo stesso capitalismo, saranno le stesse classi borghesi attraverso i loro tentativi di arginare le crisi o di «risolverle», a gettare il proletariato sul terreno della lotta di classe: non sarà mai una «scelta», piuttosto sarà il risultato materiale, oggettivo dell’accumulo gigantesco di forze produttive non più comprimibili nella caldaia della società capitalistica. Questa caldaia scoppierà liberando le energie di tutte le classi: e la classe proletaria, riconquistando il suo programma di classe, il suo movimento classista e internazionale, i suoi metodi e mezzi di lotta, la sua via rivoluzionaria, si lancerà nell’assalto al cielo per farla finita per sempre con il capitale e la sua orrenda società di parassiti.

I comunisti non corrotti dalla democrazia, dal politicantismo personale, dal pacifismo sociale, dalle tecnologie avanzate, non abbacinati dalla potenza economica e militare del capitalismo, i comunisti marxisti che non hanno da perdere che le illusioni e gli inganni con cui la borghesia influenza i proletari e le catene economiche e sociali con cui la borghesia tiene avvinto il proletariato alla sua sorte di classe dominante, non hanno timore di guardare la realtà per quella che è; nell’epoca della marea rossa montante verso la conquista rivoluzionaria del potere politico, o nell’epoca della plumbea rinuncia da parte del proletariato a lottare sul terreno di classe. I comunisti marxisti guardano al futuro, si fanno orientare dal futuro rivoluzionario non da utopisti ma da materialisti ed è perciò che dialetticamente ripropongono al proletariato il suo passato di lotta, il suo passato rivoluzionario, quelle tradizioni classiste che la storia ha fissato per sempre, e non potranno mai essere cancellate, nelle prime rivoluzioni proletarie del 1848, nella Comune di Parigi del 1871 e, soprattutto, nella rivoluzione d’Ottobre in Russia nel 1917.

I comunisti marxisti non abbandonano il programma rivoluzionario, non fanno dipendere la bontà del programma marxista dalla sua attuazione o meno nell’arco della propria vita personale, non rinunciano alla rivoluzione proletaria solo perché questa si allontana nel tempo. I comunisti marxisti sono materialisti dialettici, non individualisti, non volgari analisti borghesi. Perciò il lavoro pur minimo, grigio, praticamente sconosciuto alle masse proletarie di tutto il mondo, che i comunisti rivoluzionari svolgono in questo lunghissimo periodo di controrivoluzione borghese e di contemporanea rinuncia alla lotta da parte del proletariato dei paesi capitalisticamente avanzati, è lavoro tremendamente difficile, si, ma rappresenta il seme necessario a far crescere la pianta del comunismo di domani. Le nostre parole difficilmente raggiungono oggi il proletariato, e quand’anche lo raggiungono risultano ad esso quasi sempre incomprensibili. Ma sappiamo che non sono le parole in sé a modificare le situazioni, bensì le situazioni nel loro mutare che modificano la capacità di comprensione dei propri interessi e dei propri bisogni da parte delle masse proletarie. Ai comunisti marxisti spetta il compito di mantenersi coerenti sul filo del tempo, il compito di studiare il marxismo costantemente e alla luce delle diverse situazioni che si presentano, il compito di organizzare le proprie forze in partito politico di classe, il compito di mantenere la propria attività politica a stretto contatto con la classe proletaria e con i problemi della sua lotta, il compito di importare nel proletariato e nelle sue lotte la teoria rivoluzionaria, ossia tanto i bilanci delle lotte proletarie del passato quanto lo sbocco delle lotte proletarie avvenire. Che si tratti di problemi di carattere sindacale, che si tratti di problemi di sopravvivenza, che si tratti di questioni legate alla repressione, alla disoccupazione, alla guerra. Senza questo grigio lavoro quotidiano, il partito comunista rivoluzionario non sarà mai in grado di dirigere domani le masse proletarie alla conquista rivoluzionaria del potere né, tantomeno, sarà in grado di esercitare la dittatura proletaria che è l’unico baluardo capace di resistere alle controffensive borghesi ed è l’unico mezzo rivoluzionario in grado di intervenire nell’economia capitalistica per distruggerla da cima a fondo e sostituirla con l’economia comunistica.

Notes:
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  1. Vedi Lenin, «L’imperialismo, fase suprema del capitalismo», in «Opere complete», vol. 22, Ed. Riuniti, Roma 1966, p. 286. [⤒]

  2. Vedi Lenin, « L’imperialismo, fase suprema del capitalismo», in «Opere complete», vol. 22, Ed. Riuniti, Roma 1966, p. 285. [⤒]


Source: «Il Comunista», N.66, Giugno 1999, p. 1,2,10,11

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