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TORNARE AL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA DEL 1921, E ALLA SINISTRA COMUNISTA, È INDISPENSABILE PER LA FORMAZIONE DEL PARTITO DI CLASSE


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Tornare al Partito comunista d’Italia del 1921, e alla sinistra comunista, è indispensabile per la formazione del partito di classe
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Tornare al Partito comunista d’Italia del 1921, e alla sinistra comunista, è indispensabile per la formazione del partito di classe

Nella manchette del nostro giornale in cui è sinteticamente riassunto ciò che «Distingue il nostro partito», si afferma nella prima frase
«la linea da Marx a Lenin, alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito Comunista d’Italia».

Per quanto sintetica, questa prima frase traccia un arco storico formidabile, che contiene le basi fondamentali di quel che deve distinguere il partito di classe da ogni altro partito preteso proletario, socialista, comunista, rivoluzionario, marxista, leninista che dir si voglia.

Sono basi insieme teoriche, di principio, programmatiche, politiche, tattiche e organizzative che certo non si possono desumere dalla semplice citazione di nomi di pur grandi rivoluzionari e di grandi partiti rivoluzionari. Vi è dietro tutto un lavoro di scolpimento teorico e lunghe e numerosissime battaglie di classe che il movimento del socialismo scientifico, dalla sua nascita con Marx ed Engels, ha sostenuto da più di centocinquant’anni. Un lavoro che soltanto la sinistra comunista ebbe la possibilità storica e la forza di continuare dagli anni Venti in poi. Per questa ragione, e non per campanilismo italiota, le frasi che seguono il «Distingue» affermano che la linea continua, dopo la fondazione del partito comunista d’Italia, attraverso la «lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale, contro la teoria del socialismo in un paese solo e la controrivoluzione stalinista» giungendo coerentemente
«al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali».

È la sinistra comunista «italiana» che, sulla scorta di una lunga battaglia teorica e di classe in difesa del marxismo rivoluzionario all’interno del Partito socialista fin dal 1912, rappresentò lo strumento rivoluzionario più coerente, e indispensabile per la formazione del vero partito di classe, in opposizione frontale con le forze dell’opportunismo che nel Psi dominavano. Il Partito comunista d’Italia – non a caso sezione della Terza Internazionale – nacque nel gennaio del 1921 su basi teoriche e programmatiche, e sull’esperienza decennale di azione nella classe proletaria, che la guerra imperialista aveva obiettivamente condensato ai più alti livelli delle battaglie di classe che il movimento marxista avesse raggiunto dopo la Comune di Parigi. È la sinistra comunista «italiana» che assicurò al movimento proletario internazionale la formazione di un partito di classe tra i più intransigenti e coerenti che la storia del movimento marxista abbia conosciuto; non a caso la scissione di Livorno dal Psi, attraverso la quale fu costituito formalmente il PCd’I, fu denominata una scissione «alla bolscevica»: netta, chiara nei presupposti teorici e programmatici, definita inequivocabilmente negli aspetti della tattica e dell’organizzazione. Questa è la ragione profonda per la quale noi ci ricolleghiamo direttamente alla sinistra comunista e alla fondazione del PCd’I, al suo programma costitutivo e alle sue battaglie di classe.

La sinistra comunista che riuscì a resistere sul bastione della difesa intransigente e coerente del marxismo, contro le gigantesche e micidiali forze della controrivoluzione borghese per conto dellaquale la controrivoluzione staliniana si assunse il compito specifico di falsificare il marxismo e le lezioni del bolscevismo di Lenin e di eliminare fisicamente tutta la vecchia guardia bolscevica che intralciava il cammino dello sviluppo capitalistico e borghese in Russia e nel mondo, non fu quella rappresentata da Trotsky, grandissimo rivoluzionario comunista ma incapace nel tempo di mantenersi lontano dal cedere alla pratica, e infine, al principio della democrazia e alle manovre elastiche. La stessa Opposizione russa nel 1926–27, in concomitanza con la vittoria nel partito bolscevico e nell’Internazionale della teoria del socialismo in un solo paese e con la splendida ma battuta lotta del proletariato e del contadiname cinese e, nello stesso tempo, del proletariato britannico, non ebbe la possibilità di
«redigere, per consegnarlo all’avvenire, il bilancio generale di un coso storico iniziatosi molto prima del 1926, e di cui l’estrema débâcle era, almeno in parte, il prodotto: potrà denunziare il male, non curarlo alla radice. Non lo potrà, perché di quel corso essa stessa era stata corresponsabile e madrina, e alla croce di questa corresponsabilità Stalin e Bucharin potranno mille volte inchiodarla in polemiche astiose, ben sapendo di tenere ormai prigioniero nella rete tessuta in comune il grande antagonista (Zinoviev[1].

La sinistra comunista che riuscì fu quella che affondava le proprie radici nelle battaglie teoriche e di classe della sinistra«italiana» e che ebbe in Amadeo Bordiga il rappresentante più coerente che, non solo in quegli anni tremendi e decisivi, ma nel tempo non cedette né al politicantismo personale ed elettoralesco, né alla pratica e al principio della democrazia, quindi ben lontano dai «governi operai» dell’inizio del processo degenerativo dell’Internazionale ai fronti popolari e ai blocchi partigiani e nazionali del processo degenerativo ormai concluso; né tantomeno cedette al protagonismo individualista col pretesto di essere stato uno dei più importanti capi del Partito comunista d’Italia. Sola contro tutti, la sinistra «italiana» –
«esile forza se paragonata alla posta internazionale in gioco, ma l’unica che, da lunghi anni di gravi ammonimenti sulle conseguenze oggettive dell’eclettismo tattico del Comintern (…) traesse non il diritto ma la capacità di derivare la lezione globale di un quinquennio, non alla fine ma all’inizio dell’anno decisivo (prima anzi; perché tutta la discussione precongressuale 1925 in Italia aveva fatto perno su questo tema), e riconoscere nel fatto compiuto il fatto anticipatamente previsto»[2]
– pose tutte le questioni generali e cruciali di quegli anni sul tappeto, formulando il proprio vitale contributo attraverso i suoi interventi al VI Esecutivo Allargato prima e le sue «Tesi di Lione» poi. È per questo che le Tesi di sinistra al congresso del Partito Comunista d’Italia di Lione del 1926 non sono soltanto un punto d’arrivo nella storia dei decisivi anni 1919–1926, ma sono
«un punto di partenza per l’oggi e il domani, in quanto rappresentano non il prodotto di secrezioni cerebrali di individui, ma il bilancio dinamico di forze reali scontratesi sull’arena delle lotte di classe nel periodo in cui tutto un secolo di battaglie rivoluzionarie si condensò, e mise alla prova del fuoco la saldezza dei partiti comunisti nel tener fede, senza mai deviare, ai suoi insegnamenti»[3].

Non sono mai esistiti gli «anni oscuri» di Amadeo Bordiga, come qualche studioso facilone si è inventato. Vi sono stati anni, dalla fine degli anni Venti allo scoppio della seconda guerra imperialista mondiale, di estremo ripiegamento del proletariato, battuto prima dalla borghesia imperialistica che l’ha portato alla prima guerra mondiale, poi dalla socialdemocrazia e dal riformismo che lo ha disarmato non solo di fronte alla guerra ma anche di fronteal dopoguerra e alle conseguenze distruttive della guerra mondiale, in seguito – dopo la parentesi storica di fulgide avanzate rivoluzionarie di cui la rivoluzione d’Ottobre e la successiva fondazione dell’Internazionale Comunista furono i due massimi apici – dalla degenerazione borghese e nazionalistica dell’Internazionale stessa e di tutti i partiti ad essa legata, e infine da tutte le forze della conservazione borghese unite che lo hanno nuovamente incanalato nel secondo macello imperialistico. Al ripiegamento estremo del proletariato è corrisposto necessariamente un ripiegamento delle forze della sinistra comunista, compresa la forza Amadeo Bordiga; a coloro che pensavano di poter e dover costituire una nuova Internazionale dopo la vittoria della teoria staliniana del socialismo in un paese solo (come Korsch nel 1926), o un nuovo partito comunista (come diversi compagni della sinistra all’estero (tra il 1928, data della costituzione della Frazione di sinistra all’estero del Partito Comunista d’Italia, e la guerra di Spagna del 1936–39), senza prima aver tratto tutte le lezioni storiche della profonda sconfitta della rivoluzione proletaria mondiale, Amadeo Bordiga rispose di no, che non era il momento, che bisognava inevitabilmente far fare al ciclo controrivoluzionario, per quanto lungo potesse dimostrarsi, il suo tragitto storico, e attendere che dalla classe proletaria risorgessero scintille di lotta di classe in opposizione alla dominante controrivoluzione staliniana. Nel frattempo, egli riteneva prioritario porre le proprie energie al bilancio dinamico della sconfitta rivoluzionaria e della degenerazione dell’Internazionale, e all’opera di restaurazione teorica del marxismo.

La «dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario» – si continua nel nostro Distingue… – del marxismo quindi e del partito di classe, diventava storicamente già dal 1926 il compito principale al quale dedicare energie e prospettive. Le «Tesi di sinistra» presentate al 3° congresso del PCd’I a Lione nel 1926 costituiscono di fatto la base e l’inizio di questa dura opera del restauro della dottrina marxista. Nella premessa che come partito facemmo a queste «Tesi» nella loro ripubblicazione nel 1970[4] si può leggere che è
«importante sottolineare come tutti i fili della lunga battaglia sostenuta dalla Sinistra in seno all’Internazionale convergano e si annodino nelle Tesi di Lione, e come daqueste si possa ripercorrere a ritroso il cammino fino al 1920, per trovare la saldatura fra lo svolgersi di quella battaglia e la successione degli eventi storici di cui esse furono il bilancio dinamico – e anticipatore di corsi futuri».

Un filo ininterrotto lega il 1920 al 1926; e in collegamento con quel filo ininterrotto sarà tracciata successivamente la serie del «fili del tempo» con cui Amadeo Bordiga contribuirà alla restaurazione della dottrina marxista dal 1949 nel giornale «Battaglia Comunista» e poi, dopo la scissione del 1952 e la formazione di un partito meno manovriero ed attivista, nel giornale «Il Programma Comunista»; ma già dal 1946, attraverso suoi contributi alla rivista «Prometeo» aveva iniziato la sua lunga serie di lavori volti alla restaurazione teorica del marxismo e alla formazione del partito di classe. A questo vitale compito per il futuro della rivoluzione e del comunismo erano chiamate le poche e modestissime forze della sinistra «italiana» che erano riuscite a non cadere nel pantano dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali. Una questione ci è sempre stata posta: se la sinistra «italiana» non ebbe successo negli anni Venti, quando rappresentava comunque una forza consistente e aveva una buona influenza sul proletariato più avanzato, e quando le condizioni oggettive erano più favorevoli allo sbocco rivoluzionario delle lotte proletarie, come potrà mai riuscire oggi, e domani, che non rappresenta se non uno sparuto gruppetto di militanti senza alcuna influenza sul proletariato?

La rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione, recita un fondamentale postulato marxista. Che cosa significa questo? Significa che la storia delle lotte di classe e delle rivoluzioni ha confermato che le forme di organizzazione in quanto tali non risolvono, non garantiscono la riuscita della rivoluzione. Ed è dimostrato che tutti quei partiti proletari, e comunisti, che hanno messo in primo piano la questione organizzativa, non hanno fatto altro che rincorrere attraverso mille espedienti la forma organizzativa che garantisse loro la numerosità degli aderenti e la sua influenza sulla gran parte del proletariato. Il partito di classe, per poter svolgere nel periodo storico oggettivamente rivoluzionario il suo compito di guida della rivoluzione proletaria e della dittatura proletaria a potere politico conquistato, non può che contare suun’unica grande caratteristica: la continuità teorica e programmatica con il comunismo marxista, e la volontà ferrea di applicare alle lotte sociali la scienza rivoluzionaria marxista, unici veri presupposti di vittoria rivoluzionaria. Non gli uomini-individui, per quanto grandi e geniali, possono garantire il successo della rivoluzione proletaria; mai e poi lo possono garantire gli espedienti tattici ed organizzativi; ma le forze materiali della rivoluzione nelle loro dinamiche storiche che coinvolgono non individui ma intere collettività umane che si fronteggiano sul terreno dell’aperto antagonismo fra le classi. La guida di quelle collettività umane spinte nel solco della rivoluzione proletaria è rappresentata da una collettività specifica, il partito di classe, che unisce coscienza di classe e volontà d’azione, che rappresenta l’intera classe proletaria mondiale pur avendone nelle proprie file solo una parte più o meno grande, che rappresenta nell’oggi il futuro del movimento di classe; organo indispensabile alla rivoluzione, il partito di classe è insieme prodotto e fattore della storia, dialetticamente «di classe» ma rappresentante storicamente l’intera specie umana.

Ecco perché non ha alcuna importanza se in determinati periodi storici, anche molto lunghi, il «partito di classe» è in realtà rappresentato dal suo aspetto storico, dal «partito storico» appunto (la teoria, i principi, il programma, i bilanci storici che formano la coscienza di classe storica del proletariato), mentre il suo aspetto formale è ridotto a pochi militanti al mondo. Sono le forze economiche profonde della società che mettono in moto le classi e gli antagonismi di classe; e sono le condizioni sociali di oppressione salariale e imperialista che mettono in moto le contraddizioni sociali sempre più acute. La forza della rivoluzione proletaria affonda le proprie radici nelle contraddizioni materiali e sociali del capitalismo, ed emerge in superficie coinvolgendo finalmente le masse proletarie dei diversi paesi solo in determinati svolti storici in cui la combinazione delle diverse contraddizioni capitalistiche a livello economico, sociale, politico e militare raggiunge un’ altissima temperatura sociale. La forza del partito di classe, seppur rappresentato per lunghi periodi di tempo da pochissimi militanti comunisti, affonda le proprie radici nella continuità storica del marxismo, nella sua intransigente difesa e nei diversi tentativi di formazione di un’organizzazione dipartito in carne ed ossa caratterizzata dalla coerenza in dottrina e nella prassi col marxismo. Tali tentativi, che non vanno confusi con espedienti organizzativi, tattici o politici, fanno parte di quel lungo processo di formazione del partito di classe proletario che iniziò con Marx ed Engels e il «Manifesto del Partito Comunista» nel 1848, che continuò con la formazione della Prima Internazionale, con la Comune di Parigi del 1871, con la formazione della Seconda Internazionale, con la Rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917, la formazione dell’Internazionale Comunista nel 1919, dei grandi Partiti comunisti europei tra il 1918 e il 1921, e che continuò, dopo la più terribile delle sconfitte proletarie rappresentata dalla controrivoluzione staliniana, con la formazione del Partito comunista internazionalista nel 1943 e del Partito comunista internazionale nel 1952. Con questo tracciato del tutto sintetico non intendiamo mettere sullo stesso piano per situazione generale e per forza rappresentata, ad esempio, il partito del 1952 col partito bolscevico del 1917 o con Marx ed Engels del 1848. La storia non torna indietro; al massimo ripresenta sullo scenario di situazioni diverse forze politiche con funzioni simili. Basti pensare alle ondate storiche dell’opportunismo e alle indispensabili battaglie teoriche e di classe contro ogni sua ondata.

Le «Tesi di sinistra» di Lione si pongono con perfetta coerenza su questo tracciato storico. Il programma del proletariato – senza imposizioni di date particolari – viene ripreso con vigore e semplicità rivoluzionaria di fronte ad un uditorio che avrebbe dovuto conoscerlo amenadito, ma dal quale la gran parte dei comunisti di allora si stava allontanando:
«Il programma del proletariato è, insieme alla sua emancipazione dalla attuale classe dominante e privilegiata, la emancipazione della collettività umana rispetto alla schiavitù delle leggi economiche che esso comprende, per poi dominarle in una economia finalmente razionale e scientifica che subirà il diretto intervento dell’opera dell’uomo. Per questo e in questo senso Engels scrisse che la rivoluzione proletaria segna il passaggio dal mondo della necessità in quello della libertà»[5].
La visione generale, mondiale e insieme storica è qui evidente: l’emancipazione del proletariato, in quanto classe rivoluzionaria, non può attuarsi che attraverso l’emancipazione dell’intera collettività umana; e solo in questo processo storico è possibile che l’intera collettività umana nella società di specie di domani – nel comunismo appunto – si liberi completamente dalla soggezione alle leggi economiche che la rendono schiava per infine dominarle, razionalmente e scientificamente. La preistoria della collettività umana, in cui siamo tuttora immersi, è caratterizzata proprio dalla schiavitù delle leggi economiche dei modi di produzione di società divise in classi, dalla necessità di imporle e difenderle da parte delle classi dominanti per sopravvivere in quanto tali e dalla necessità di difendersi da esse, e di sconvolgerle, da parte delle classi subordinate; la storia della collettività umana, in quanto emancipazione da questa ben definita schiavitù tipica di tutte le società divise in classi, inizierà solo alla condizione di rompere verticalmente, definitivamente, con ogni società divisa in classi, con ogni modo di produzione che ribadisce, sebbene a livelli di progresso economico diversi, la divisione della società in classi antagoniste.

Passare dal mondo della necessità in quella della libertà – si precisa nelle «Tesi» – «non vuol dire risuscitare il mito illusorio dell’individualismo che vuole liberare l’Io umano dalle influenze esterne, mentre invece l’intreccio di queste tende a divenire sempre più complesso e la vita del singolo sempre parte indistinguibile di una vita collettiva. All’opposto, il problema è portato altrove e la libertà e la volontà sono attribuite ad una classe destinata a divenire lo stesso aggregato unitario umano, in lotta un giorno contro le sole forze avverse del mondo fisico esterno»[6]. Abbiamo sottolineato noi l’aggettivo indistinguibile, per mettere ancor più in evidenza come i marxisti non perdano mai occasione per ribadire il proprio materialismo, il proprio determinismo contro ogni visione idealista o religiosa della storia della collettività umana. I fattori di storia, diprogresso e avanzamento della storia della società umana, non vanno cercati nelle «scelte» di singoli uomini, per quanto geniali possano dimostrarsi, e tanto meno nell’addizione democratica dei miliardi di individui che abitano la terra. Sono le classi, i gruppi umani caratterizzati nella società divisa in classi da condizioni economiche e sociali comuni, e quindi da interessi «di classe» comuni, che costituiscono la forza sociale attraverso la quale la collettività umana compie i suoi balzi storici verso l’emancipazione completa dalla schiavitù delle leggi economiche esistenti; sono gli urti e le lotte fra le classi, il motore dell’evoluzione storica delle società umane, sono le rivoluzioni, le più profonde e radicali, che segnano il passaggio da una società di classe ad un’altra più avanzata; ed è la rivoluzione proletaria mondiale a rappresentare il solo possibile passaggio storico dal mondo della necessità in quello della libertà. È attraverso la rivoluzione proletaria mondiale che il proletariato, moderna e unica classe rivoluzionaria dell’età capitalistica, è destinato a divenire l’aggregato unitario umano di domani, la collettività umana organizzata in una società superiore, liberatasi dai vincoli della divisione fra le classi e dei necessari, inevitabili conflitti sociali. Altro che «socialismo in un paese solo», altro che «mercato socialista» o «via nazionale al socialismo»!

Certo, le «รคTesi di sinistra» di Lione non si limitano a richiamare i grandi principi, il grande programma del comunismo, i grandi fini; ribadiscono con determinazione e ad ogni piè sospinto la volontà di perseguire quei fini con forze materiali ben precise, e organizzate, fra le quali il partito politico della classe proletaria e le associazioni di difesa economica del proletariato. Ed anche nell’organo-partito il concetto di collettività viene giustamente riaffermato, tanto più in quegli anni in cui lo stalinismo stava brutalmente imponendo a tutti i partiti dell’Internazionale politiche, metodi e concetti che nulla avevano a che fare con il marxismo originario:
«… l’organo in cui proprio si riassume il massimo di possibilità volitiva e di iniziativa in tutto il campo della sua azione (del proletariato, NdR) è il partito politico: non certo un qualunque partito, ma il partito della classe proletaria, il partito comunista, legato, per così dire, da un filo ininterrotto alle ultime mete del processo avvenire. Una tale facoltà volitiva nel partito, così come la sua coscienza e preparazione teoretica, sono funzioni squisitamente collettive del partito, e la spiegazione marxista del compito assegnato nel partito stesso ai suoi capi sta nel considerarli come strumenti ed operatori attraverso i quali meglio si manifestano le capacità dicomprendere e spiegare i fatti e dirigere e volere le azioni, conservando sempre tali capacità la loro origine nella esistenza e nei caratteri dell’organo collettivo«[7].
Anche questa volta abbiamo sottolineato noi l’aggettivo «collettivo». Vi è qui contenuta, seppur in pochissime parole, la caratterizzazione fondamentale del partito di classe proletario e comunista: quello che Bordiga chiamerà partito-storico e partito-formale, ossia l’unione dialettica fra la coscienza di classe, la teoria scientifica del comunismo, dell’emancipazione dell’intera collettività umana dalla schiavitù delle leggi economiche e la volontà della classe proletaria di lottare per la propria emancipazione in quanto classe salariata. E, in stretto legame, con questo concetto, viene ribadita senza equivoci la funzione dei capi in quanto migliori strumenti di un organo collettivo che non deve cedere ai capi-individui la propria originaria caratteristica di essere appunto un organo collettivo.

Dicevamo dell’unione dialettica fra partito-storico e partito-formale. La sinistra comunista non ha mai nascosto che l’aspetto prioritario di questa «unione» è rappresentato dal partito-storico, dalla teoria marxista, dal programma del partito, dai suoi principi e dai suoi fini; mentre il partito-formale, proprio perché organizzazione formale, subisce inevitabilmente le contraddizioni, le lacerazioni, gli scontri che contingentemente spostano e sconvolgono i rapporti fra le classi. Per questa visione, la sinistra comunista «italiana» è stata sempre tacciata di essere «idealista», praticamente «attendista», capace di elaborazione teorica anche ammirevole ma incapace di elaborazione politica adatta a raggiungere il successo. Nella crisi che spezzò il «Partito Comunista Internazionale – Programma Comunista» nel 1982–84 venne formulata, dal gruppo che si identificherà col giornale «Combat», un’accusa alla sinistra comunista secondo la quale essa era storicamente affetta da un «vizio d’origine», appunto l’incapacità di elaborazione politica e tattica atta a facilitare il successo del partito nella guida delle masse proletarie. Ma ciò che ogni antimarxista concepisce per «politica» è esattamente l’opposto della concezione marxista: per politica ogni buon opportunista, per quanto mascherato da rivoluzionario o barricadiero, intende l’elaborazione continua di manovre, l’attuazione di espedienti tattici, politici e organizzativi attraverso i quali ottenere il successo desiderato, la continua rielaborazione del programma del partito adattandolo alle «nuove» e «impreviste» situazioni.

Il partito-storico non dipende dalle situazioni, dal loro evolversi a favore o a sfavore delle classi salariate, non dipende dalla contingenza economica, sociale, politica o militare; esso è storicamente definito ed ha validità per tutto l’arco storico che unisce le prime lotte rivoluzionarie del proletariato appena formatosi come classe della società capitalistica alle decisive lotte rivoluzionarie del proletariato di domani attraverso le quali attuerà la rivoluzione mondiale, iniziando così il processo di effettiva emancipazione di se stesso, e dell’intera umanità, dal capitalismo. Ci sono periodi storici in cui il partito-formale è praticamente scomparso, ridotto ad un pugno di militanti comunisti – successe a Marx ed Engels dopo il 1850, successe a Lenin e Zinoviev nell’esilio in Svizzera, successe alla sinistra comunista «italiana» dopo il 1926 – in cui il partito di classe non ha più alcuna influenza sul proletariato, annichilito con esso sotto i colpi della controrivoluzione. Guardiamo intorno oggi: non possiamo certo dire che il partito-formale, quell’organo di classe in grado di influenzare in modo determinante almeno gli strati più avanzati del proletariato, ci sia. Ma è materialmente impossibile che, in mancanza della ripresa delle lotte di classe in cui gli strati avanzati del proletariato si formano effettivamente, esista un efficace ed influente partito-formale. Pretendere di costruire un partito con queste caratteristiche in una periodo di profonda controrivoluzione come questo che stiamo attraversando da decenni, significa in realtà cadere nell’espedientismo, e fare la fine di tutti coloro che per avere un po’ di successo, individuale o di gruppo, hanno gettato alle ortiche, rinnegato, il programma del partito di classe – e con esso la teoria marxista e il futuro del movimento proletario di classe – abbracciando più o meno dichiaratamente la causa della democrazia borghese, parlamentare o extraparlamentare che sia.
«Risolvendo la questione generale della tattica sullo stesso terreno di quello della natura del partito – si legge nelle «Tesi di sinistra» di Lione – si deve distinguere la soluzione marxista sia dall’estraniamento dottrinario dalla realtà della lotta classista, che si appaga di elucubrazioni astratte e tralascia l’attività concreta, sia dall’estetismo sentimentale che vorrebbe con gesti clamorosi ed attitudini eroiche di esigue minoranze determinare nuove situazioni e movimenti storici, sia dall’opportunismo che dimentica il legame coi principi, ossia con gli scopi generali del movimento, e, in vista solo di un immediato successo apparente delle azioni, si contenta di agitarsi per rivendicazioni limitate ed isolate senza curarsi se contraddicono alle necessità della preparazione dellesupreme conquiste della classe operaia»[8].
Le «Tesi» ribadiscono con forza che
«non è il partito buono che dà la tattica buona, soltanto, ma è la buona tattica che dà il buon partito, e la buona tattica non può essere che tra quelle capite e scelte da tutti nelle linee fondamentali»;
perciò si sottolinea che
«non è contro Marx e Lenin l’affermare che nel risolverlo (il problema della tattica) si devono perseguire delle regole di azione, non vitali e fondamentali come i principi, ma obbligatorie sia per i gregari che per gli organi dirigenti del movimento, che contemplino le possibilità diverse di sviluppo delle situazioni, per tracciare col possibile grado di precisione in quale senso dovrà muoversi il partito quando esse presenteranno determinati aspetti. L’esame e la comprensione delle situazioni devono essere elementi necessari delle decisioni tattiche, ma non (sottolineatura nostra) in quanto possano condurre, ad arbitrio dei capi, a ‹improvvisazioni› ed a ‹sorprese›, ma in quanto segnaleranno al movimento che è giunta l’ora di un’azione preveduta nella maggior misura possibile»[9].

Altro che incapacità di elaborazione politica e tattica! Agli opportunisti di ogni specie sono sempre stati stretti i vincoli teorici, programmatici e di principio dell’azione e della prassi del partito. Essi hanno sempre mirato ad avere «le mani libere», perché in questo modo possono giustificare qualsiasi piroetta tattica e politica; ma attraverso queste piroette, attraverso l’uso sistematico di espedienti anche nel campo organizzativo, i partiti di classe degli anni Venti – compreso il grande partito bolscevico – hanno subito fino in fondo il processo di degenerazione politica e dottrinaria, fino a mutarli geneticamente in partiti borghesi, strumenti della controrivoluzione.

Solo la sinistra comunista «italiana» giunse ad analizzare e comprendere correttamente dal punto di vista marxista, ad esempio, il fenomeno storico del fascismo, non solo come metodo di governo borghese che dichiara l’aperta dittatura della classe dominante, ma come sbocco necessario della politica borghese atta a difendere il suo potere politico di fronte al concreto pericolo della rivoluzione proletaria. Solo la socialdemocrazia, risorta dopo essere stata battuta sul terreno teorico dalla Luxemburg e su tutti i terreni da Lenin, poteva concepire il fascismo come un «ritorno indietro» della storia; ma ciò non fu un abbaglio, fu una scelta politica ben precisa perché giustificava presso le masse proletarie, colpite dalla brutalità e dalla repressione fascista, la difesa e la rivendicazione della «democrazia» uccisa dal mostro in camicia nera. La mobilitazione del proletariato per la «riconquista della democrazia» fu la mobilitazione per la conservazione sociale, perciò controrivoluzionaria, e nello stesso tempo la preparazione del proletariato a subire tragedie ben più imponenti di quelle della prima guerra mondiale: la tragedia della sconfitta della rivoluzione socialista in Russia, e con essa della rivoluzione socialista in Europa e nel mondo, si accompagnò alla tragedia del secondo macello imperialistico mondiale. Le borghesie «fasciste» e le borghesie «democratiche» si scontrarono nella guerra mondiale per una nuova spartizione del mondo. Le borghesie «fasciste» persero la guerra, e diventarono «democratiche»; le borghesie «democratiche» vinsero la guerra, ma – ed è un’altra prova della comprensione delle situazioni da parte della sinistra comunista «italiana» – ereditarono dal fascismo una serie di caratteristiche nel governo della società – sul terreno economico e su quello sociale – sì da diventare delle democrazie «fascistizzate». La brutalità e la repressione usate dai governi fascisti non ha nulla da invidiare alla brutalità e alla repressione usate dai governi democratici; basti pensare alle centinaia di guerre locali e regionali che sconvolgono il mondo democratico borghese dalla fine della seconda guerra mondiale e che sono destinate a sconvolgerlo fino ad un nuovo tremendo terzo macello mondiale se non interverrà prima la rivoluzione proletaria a spezzarequesta orrenda catena di morte e di distruzione.

Tornare al Partito del 1921 significa per noi non abbandonare al nemico di classe il patrimonio delle battaglie di classe del comunismo rivoluzionario che la sinistra comunista «italiana» ha consegnato alle successive generazioni di militanti. Per non abbandonare al nemico di classe questo patrimonio non si poteva fare altro che continuare sullo stesso solco la stessa lotta per la restaurazione del marxismo e per la ricostituzione del partito di classe. Mai la sinistra comunista ha scelto di separare temporalmente, o spazialmente, la restaurazione dottrinaria dalla ricostituzione del partito di classe: sono due aspetti dialettici di un’unica attività rivoluzionaria. Solo nella collettività di partito, anche se ridotta alla sua fase embrionale, è possibile realizzare la dura opera del restauro dottrinario; solo restaurando la dottrina marxista è possibile all’embrione-partito vivere e svilupparsi. Soltanto la materiale evoluzione dei rapporti fra le classi, il procedere storico per avanzate e ritirate, per balzi rivoluzionari e per lunghi ripiegamenti nella controrivoluzione, può spezzare il partito di classe; per ben tre volte nella breve storia del movimento proletario e comunista – il 1848 europeo, il 1871 della Comune di Parigi, il 1917 bolscevico – la controrivoluzione borghese ha avuto il sopravvento, distruggendo le organizzazioni di classe del proletariato, in primis il partito. Ma, per quanto le classi dominanti borghesi facciano per esorcizzare il pericolo della ripresa della lotta di classe e del movimento rivoluzionario delproletariato, esse sono condannate a rigenerare, in forme sempre più acute e mondiali, le contraddizioni economiche e sociali che spingeranno inesorabilmente il proletariato alla lotta per la propria emancipazione dal capitalismo.

Rivendicando la necessità del partito di classe in quanto partito-storico e partito-formale, noi perseguiamo sullo stesso solco della sinistra comunista la prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo. La nostra voce, il nostro lavoro oggi sono per lo più sconosciuti; ma è il risultato materiale del persistere del dominio borghese e dell’avvelenamento democratico delle masse proletarie. Lo sappiamo, non abbiamo l’illusione di essere già oggi il partito compatto e potente di domani. Ma la condizione perché domani, alla ripresa della lotta classista del proletariato e soprattutto alla ripresa della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico, il partito di classe – compatto e potente, inflessibile teoricamente, omogeneo politicamente e organizzativamente – sia presente e preparato al compito di guida rivoluzionaria del proletariato, è che nel periodo anche più buio della controrivoluzione i militanti comunisti agiscano come partito, come un organo collettivo
«a contatto con la classe operaia, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco».
L’attività, dunque, non solo di carattere teorico e di elaborazione politica, di propaganda e di proselitismo, non viene disgiunta dall’agire a contatto della classe operaia, verso e nella classe, anche se la situazione obiettiva non permette che tale attività pratica siagrandeggiante. E ancora una volta ci colleghiamo alle «Tesi di sinistra» di Lione:

«L’attività del partito non può e non deve limitarsi o solo alla conservazione della purezza dei principi teorici e della purezza della compagine organizzativa, oppure solo alla realizzazione ad ogni costo di successi immediati e di popolarità numerica. Essa deve conglobare in tutti i tempi e in tutte le situazioni, i tre punti seguenti:
a)la difesa e la precisazione in ordine ai nuovi gruppi di fatti che si presentano dei postulati fondamentali pragmatici, ossia della coscienza teorica del movimento della classe operaia;
b)l’assicurazione della continuità della compagine organizzativa del partito e della sua efficienza, e la sua difesa da inquinamenti con influenze estranee ed opposte all’interesse rivoluzionario del proletariato;
c)la partecipazione attiva a tutte le lotte della classe operaia anche suscitate da interessi parziali e limitati, per incoraggiarne lo sviluppo, ma costantemente apportandovi il fattore del loro raccordamento con gli scopi finali rivoluzionari e presentando le conquiste della lotta di classe come ponti di passaggio alle indispensabili lotte avvenire, denunziando il pericolo di adagiarsi sulle realizzazione parziali come su posizioni diarrivo e di barattare con esse le condizioni della attività e della combattività classista del proletariato, come l’autonomia e l’indipendenza della sua ideologia e delle sue organizzazioni, primissimo tra queste il partito.
Scopo supremo di questa complessa attività del partito è preparare le condizioni soggettive di preparazione del proletariato nel senso che questo sia messo in grado di approfittare delle possibilità rivoluzionarie oggettive che presenterà la storia, non appena queste si affacceranno, ed in modo da uscire dalla lotta vincitore e non vinto»
[10].

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Vedi nel volume nr. 2 dei «Testi del partito comunista internazionale» intitolato «In difesa della continuità del programma comunista», e contenente le tesi cui ci riallacciamo, da quelle della frazione comunista astensionista del 1920 alle tesi supplementari del 1966 sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, la premessa al Progetto di tesi per il III congresso del partito comunista presentato dalla sinistra, Ed. il programma comunista, Firenze, giugno 1970, p. 76. [⤒]

  2. «In difesa della continuità del programma comunista», p. 76. [⤒]

  3. «In difesa della continuità del programma comunista», p. 77. [⤒]

  4. «In difesa della continuità del programma comunista», p. 77. [⤒]

  5. «In difesa della continuità del programma comunista», «Tesi di Lione», 3 §. «Azione e tattica del partito», p. 95. [⤒]

  6. «In difesa della continuità del programma comunista», p. 95. [⤒]

  7. «In difesa della continuità del programma comunista», pp. 95–96. [⤒]

  8. «In difesa della continuità del programma comunista», p. 96. [⤒]

  9. «In difesa della continuità del programma comunista», pp. 101 e 100–101. [⤒]

  10. «In difesa della continuità del programma comunista», pp. 96–97. [⤒]


Source: «Il Comunista», № 75, Aprile 2001

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