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I COMUNISTI E LA GUERRA BALCANICA


Content:

I comunisti e la guerra balcanica
Prefazione
1. Esempio dal passato
2. Il contesto odierno
3. Balcanizzazione all’americana
4. Le operazioni militari
5. L’opposizione alla guerra
6. I comitati contro la guerra
7. Prospettiva del dopoguerra
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I comunisti e la guerra balcanica

Prefazione

La guerra in corso nell’area balcanica sembra sfuggire ad ogni logica. Per questo la sua comprensione sembra così difficile e le interpretazioni risultano così diverse a seconda della provenienza.

A differenza delle guerre scoppiate nella storia fino al secolo scorso, nessuna guerra imperialista moderna è mai scoppiata per la logica che ha inventato per giustificare sé stessa. Non la Prima Guerra Mondiale, non la Seconda, non la Guerra di Corea e quella del Vietnam. Neppure la Guerra del Golfo, così simile per i moventi dichiarati a questa odierna nei Balcani e più vicina nel tempo, ha trovato, presso coloro che si riferiscono al comunismo, interpretazione unanime.

La guerra imperialista non scoppia dunque per le ragioni dichiarate dai suoi fautori ma per la logica interna del capitalismo che, una volta raggiunta la sua fase suprema, una volta coinvolto tutto il globo nei suoi meccanismi produttivi e finanziari, muove interessi enormi che solo i grandi Stati possono tentare di regolare o mettere in discussione. Ma gli Stati possono intervenire solo per assecondare movimenti che il Capitale ha già predisposto, non a progettarli; come ha dimostrato Marx, è lo Stato a servire il Capitale, non viceversa. E oggi tutto ciò è portato alle massime conseguenze. Di qui l’impressione che esistano automatismi in grado di far scoppiare la guerra anche quando nessuna la persegua, e di spingerla verso sbocchi sconosciuti quanto inesorabili.

Se la guerra imperialista dipende dalla volontà quanto la possibilità di controllare la produzione e distribuzione del plusvalore nella società dipende dai governi, allora tanto meno la guerra imperialista si può fermare con la volontà di coloro che si associano secondo logiche legalitarie, umanitarie o pacifiste per combatterla. Queste logiche hanno imbastardito il movimento proletario nel passato e sono da estirpare, specialmente fra le giovani generazioni.

Il proletariato non potrà mai esorcizzare la guerra: potrà solo o bloccarla al suo nascere con una insurrezione generale, o trasformarla in guerra di classe, per sé, per la sua rivoluzione.

Quaderni Internazionalisti, aprile 1999.

1. Esempio dal passato

Quando la guerra tra Russia e Turchia stava per coinvolgere l’Europa intera, l’area balcanica, i paesi rivieraschi del Mar Nero fino al Caucaso, Marx attaccò la politica estera inglese, in apparenza tentennante di fronte al baluardo russo della reazione mondiale. In realtà l’Inghilterra era attenta a far distruggere gli avversari tra di loro per rafforzare il proprio predominio su tutti. Marx attaccò e derise la Francia che si accodava in modo servile all’imperialismo rivale. Se oggi non si possono trarre analogie dirette dalla condotta di imperialismi ormai decaduti in una guerra passata, bisogna però capire quali sono le questioni invarianti nei rapporti interimperialistici di oggi riguardo alla stessa area e allo stesso bisogno di predominio del nuovo imperialismo americano.

L’attacco di Marx è basato su considerazioni elementari:
a) dal punto di vista diplomatico l’Inghilterra lascia sfacciatamente che gli eventi succedano, «tollera» fino al limite di rottura la tracotanza russa e persino l’avanzata delle truppe zariste verso il Danubio, mentre tutto ciò ha effetti destabilizzanti in un’area enorme che va dal Bosforo ai paesi caucasici, all’Egitto, all’Arabia;
b) utilizza le debolezze altrui, lasciando che la Turchia si metta in crisi con i suoi tradizionali nemici (l’Egitto ha appena attaccato in Siria e costretto l’Impero Ottomano a compromettersi con il «serpente russo» per non essere tra due fuochi), in modo che alla fine l’intervento inglese sia indispensabile;
c) quando la Russia invade i principati danubiani, e la Turchia dichiara guerra dando inizio al grande scontro turco-russo, l’Inghilterra affronta infine la guerra in modo apparentemente schizofrenico a fianco della Turchia contro la Russia, nel senso che conduce straccamente le azioni militari senza dare un colpo decisivo alla grande potenza reazionaria, preferendo assistere alla rovina dei suoi due maggiori nemici del momento, e all’umiliazione del terzo nemico, la Francia, che, con tutta la sua «grandeur» è obbligata a seguire il carro inglese.

Marx, col solo elenco delle contraddizioni tra gli imperialismi in lotta tra di loro (scrive su giornali borghesi), permette al lettore di farsi un’idea precisa delle ragioni della guerra. In realtà non ci sono affatto contraddizioni da parte dell’Inghilterra: essa si comporta da vera superpotenza e, a parte le imbecillità «locali» tipo Carica dei Seicento, trae il massimo vantaggio dalla guerra altrui. E fa scannare gli avversari, lasciando che si indeboliscano sia sul campo di battaglia che con una politica di compromessi micidiali. La Francia ci casca (il Piemonte pure, ma almeno nel suo piccolo ci guadagna). Marx prende per i fondelli Boustrapa (Napoleone III) per la «posizione umiliante nella baia di Besika». A Besika la Francia va a mostrare i muscoli al seguito della flotta inglese che ovviamente domina il giuoco e Marx ironizza:
«L’impero di tutte le glorie è caduto più in basso persino del governo di tutti i talenti».

L’impero d’Austria-Ungheria si schierò con la Turchia e oggi sappiamo che la grande dinamica storica degli avvenimenti avrebbe in seguito portato la Germania a sostituire l’impero austro-ungarico, e la Turchia, con tutti i Balcani, ad essere il perno della geopolitica europea continentale secondo gli assi delineati dai classici schemi geopolitici (Mackinder individuò una heartland – un nocciolo imprendibile – nel centro dell’Eurasia e Haushofer individuò naturali fasce di espansione Nord-Sud). L’Inghilterra, che ne sarebbe stata danneggiata, doveva impedire la formazione di questi assi e lo fece brillantemente per più di un secolo. Oggi lo fanno gli Stati Uniti.

La Sinistra Comunista d’Italia diede molta importanza alla geopolitica materialistica dei borghesi, ma non poté utilizzarla com'era: dovette renderla dialettica, aggiungendovi la dinamica storica delle potenzialità, degli eventi e degli invarianti storici. Ovviamente la chiamò in un altro modo e parlò di determinazioni geostoriche.

2. Il contesto odierno

Non ci vuol molto a notare che, per quanto riguarda i Balcani, questo secolo si avvia alla sua fine con una impressionante analogia rispetto al suo inizio. Ciò significa che gli antagonismi fra le potenze imperialistiche sono cambiati, ma che producono sempre effetti analoghi. Alcune vecchie potenze sono scomparse, come l’Austria-Ungheria, l’Impero Ottomano, la Russia zarista; la vecchia Inghilterra ha lasciato il posto agli Stati Uniti, potenza che non ha eguali nella storia del mondo, sia come capacità e velocità d’intervento – globale o locale, economico o militare – sia come forza materiale applicata per il conseguimento dei propri interessi.

I Balcani non sono mai stati oggetto di attenzione come preda territoriale per gli imperialismi maggiori. Lo furono per l’Impero Ottomano, ma in tempi non capitalistici, quando il territorio serviva da cuscinetto negli attriti secolari a partire dall’espansione di Venezia. Alla stessa repubblica marinara, padrona dei mari, bastava il controllo dei porti dalmati fino a Ragusa, collegati con la catena di basi che si spingeva a Sud-Est nel Mediterraneo. A dispetto però del poco appetibile territorio, i Balcani sono sempre stati oggetto di scontro indiretto fra le potenze di ogni epoca, dai Romani in poi. In questo senso vi è analogia fra l’odierna percezione geopolitica europea del recente smembramento della Iugoslavia e la percezione che ne poteva avere la potenza austro-ungarica. Solo che oggi occorre fare i conti con gli Stati Uniti e le conseguenze di questa percezione sono gravide di contraddizioni difficilmente risolvibili nel contesto classico di guerra, come lo fu quello dell’inizio secolo che sfociò nella Prima Guerra Mondiale. Se Bismarck non doveva essere tanto sincero quando diceva che tutti i Balcani non valevano le ossa di un granatiere della Pomerania, oggi l’Europa non può che essere in una situazione patologica di vera schizofrenia quando scende in guerra contro sé stessa a fianco degli Stati Uniti.

Infatti, se la storia ci dimostra che le parole dei capi di Stato non corrisposero ai fatti, la geografia ci dimostra che in entrambe le guerre mondiali i territori dell’Europa dell’Est furono l’oggetto del contendere, la causa scatenante, l’area in cui venivano a maturazione i conflitti, ma che infine questi ultimi venivano risolti con uno scontro diretto fra i maggiori avversari per un tentativo di reciproca distruzione totale, una resa senza condizioni. Le determinanti geostoriche ci offrono un anticipo istruttivo di ciò che sarà la guerra di domani fra le vere forze concorrenti dell’imperialismo mondiale, guerra già in atto da tempo sotto il pretesto della crociata morale contro demoni appositamente suscitati, contro i quali si scatena con cieca e irruente automaticità la distruzione indiscriminata di cose e uomini, provocando come risposta l’incontrollabile formazione di potenziali esplosivi e un miscuglio di territori contestati, odii etnici, crociatismi umanitaristici, ubbriacature di retorica patriottica.

Quando una guerra ottiene al momento l’esatto opposto di ciò che i suoi fautori dicevano di volere, occorre analizzarla a nervi saldi e mente fredda, perché non sono importanti i suoi pretestuosi moventi immediati ma gli obiettivi futuri, concreti.

Il processo assai assistito che portò la Slovenia e la Croazia a staccarsi dalla Iugoslavia e ad entrare definitivamente nell’orbita europea tramite lo stretto legame con l’Italia e la Germania, si è arrestato di fronte alla Bosnia, dove gli interessi di ciò che rimaneva della vecchia repubblica federale iugoslava non potevano permettere una ulteriore ingerenza. La Serbia, il Montenegro, il Kosovo, l’Albania, la martoriata Bosnia e la Macedonia sono il crocevia dove si decide se l’Europa riesce a far valere la sua naturale tendenza all’espansione e quindi alla concorrenza con gli Stati Uniti e l’Asia, oppure se rimarrà un nano politico e la sua economia, globalmente superiore a quella degli Stati Uniti, dovrà recedere ad un rango secondario e asservito.

In un congresso, tenutosi nel citato inizio secolo, si disse che l’Albania era figlia dell’Austria, che ne era gravida, e l’Italia era l’ostetrica che stava preparando il parto. Nel contesto attuale possiamo sostituire l’Austria con la Germania e l’Albania con la Grande Albania. Allarghiamo il contesto albanese e ci accorgiamo subito che troviamo albanesi in Bosnia, in Montenegro, in Macedonia e, ovviamente in Kosovo. Il contesto «albanese» è dunque il contesto balcanico intero. Se l’Italia è l’ostetrica dei tormentati parti tedeschi da quando questi hanno incominciato a contare qualcosa nel mondo (cioè dalle invasioni barbariche in poi), l’Inghilterra prima, gli Stati uniti oggi, sono decisamente per l’aborto. Dato che non si può avere capra e cavoli, la Santa Russia è invece, cristianamente, per il salvataggio della figlia a costo di ammazzare la madre. Con buona pace per le finte lacrime degli americanizzati d’Europa sulle autentiche sofferenze degli albanesi e di tutti i sessanta milioni di internati e «profughi» provocati nel mondo dall’attuale pace capitalistica.

In questa situazione, è del tutto pretestuoso il mantenimento delle vecchie dottrine militari, ancora offerte ai giornalisti per giustificare il contesto strategico. Nessuno ha più paura, se mai l’ha avuta, che si estenda tramite la Iugoslavia-Serbia l’influenza russa sul Mediterraneo, per cui la Serbia sarebbe una pedina russa per mantenere l’accesso sull’Adriatico. Non solo i mezzi navali moderni, ma anche la geografia è contro simile interpretazione. Chiunque controlli le sponde del Canale di Otranto può precludere l’Adriatico a tutti. Non per nulla l’Italia si adopera in proprio per l’Albania e sarà soggetta a ricatti e pressioni da parte di ogni alleato. L’ha capito per esempio la Francia, che, tramite il suo primo ministro, ha fatto notare agli altri europei quanto sia aumentata l’attività americana nel Mediterraneo dopo la fine della Guerra Fredda e quanto poco sia desiderabile, per gli interessi europei, che i Balcani diventino sfera d’influenza americana. Ma quali fatti può mai far seguire la Francia?

Anche Helmut Schmidt, ex cancelliere della Germania, osserva il preoccupante attivismo americano in Europa e dice con sufficienza in una intervista:
«Solo gli Americani possono essere talmente ingenui da immaginare che si possa portare una pace durevole nei Balcani».
Ma intanto gli Americani bombardano e gli Europei seguono, come i Francesi ridicolizzati da Marx per Besika. Possibile che Schmidt non abbia capito che le bombe non sono per Milošević ma per lui e tutti gli altri come lui? Gli Europei continuano a ripetere che gli Americani non hanno capito l’Europa e la secolare questione balcanica. È vero il contrario: è l’Europa che non ha ancora capito l’America. Quando il toro americano entra in cristalleria non ammette che resti intatto un solo vetrino: vuole vittoria totale, e la consegue distruggendo totalmente l’avversario. Se non distruggerà Slobodan Milošević, come non ha distrutto Saddam Hussein, è perché la guerra americana non ha ancora svelato il suo vero obiettivo. Quando si trattò di vincere Germania e Giappone sappiamo come gli Stati Uniti incominciarono e come finirono la «loro» guerra; non sono sopravvenuti motivi storici o strategici per un comportamento diverso.

Quando finiranno i bombardamenti sulla Serbia e sulle sue (finora) province, ci sarà uno scontro inevitabile sulle rappresentanze militari da inviare per il controllo del territorio. Finora l’ONU, che è controllata dagli Stati Uniti ma non ha potere militare, è stata assente ed è intervenuta la NATO. Sarà difficile che il controllo di terra sia lasciato all’organizzazione militare atlantica in cui soldati americani ed europei dovrebbero collaborare. È più facile che vengano inviati contingenti non-europei sotto controllo ONU, cioè americano. In questo caso il Kosovo, diviso dalla solita linea del cessate-il-fuoco, si potrebbe trasformare in un focolaio permanente di tensione, con altrettanto permanente presenza di truppe. Si aggiungerebbe alla Bosnia, che già rivela l’assurdità dei nuovi confini interni. Questo sarebbe un obiettivo compatibile con il comportamento militare americano, che ha lasciato mano libera alla Serbia per portare a compimento tutte le «pulizie etniche» che voleva. Queste operazioni, infatti, sono condotte da forze di polizia, da militari e da squadre irregolari che non sono minimamente colpite dal tipo di distruzioni messe in atto e hanno tutto il tempo per portare a termine le operazioni ben prima che gli effetti economici dei bombardamenti «intelligenti» producano il preteso blocco logistico.

Se vi sarà un’ulteriore suddivisione in sfere d’influenza, oltre alla Bosnia e al Kosovo vi sono altri territori candidati al dramma. La questione «albanese» potrà esplodere sia perché l’Albania propriamente detta non potrà più sopportare il flusso di profughi, sia perché altre regioni, come il Montenegro e la Macedonia hanno consistenti minoranze etniche albanesi, rispettivamente il 10 e il 25%. In una zona come quella balcanica ci vuole poco a sostenere le partigianerie per la Grande Albania, già storicamente formate anche se sparse e politicamente poco influenti.

D’altronde la questione della Grande Albania non è che un esempio. Quando la guerra incalza, potenti forze sociali si mettono in moto e tutti i paesi entrano in gioco volenti o nolenti. I più deboli vedranno il loro futuro disegnato dai più forti. Per questo la guerra balcanica mostra scenari di pericolosissimo potenziale allargamento. In Macedonia, per esempio, la situazione, per adesso più instabile che altrove, ha già provocato soluzioni di tipo militare. Il partito attualmente al governo è sostenuto dalla Bulgaria contro la Grecia. La sua base storica risale alla lotta contro la formazione della Iugoslavia. Negli anni '30 era finanziato dalla stessa Bulgaria e dall’Italia; rimase implicato nell’assassinio di Alessandro re di Iugoslavia nel 1934, a Marsiglia. Il timore di essere sopraffatto dagli avvenimenti ha portato il governo ad effettuare lo sgombro assai sbrigativo dei profughi albanesi provenienti dal Kosovo e a tenere un atteggiamento semi-ostile nei confronti di tutte le parti coinvolte nel conflitto.

Il timore è fondato, perché l’attività diplomatica è conforme agli scopi della guerra e prepara il terreno ai suoi sbocchi. La Bulgaria, in grave crisi, con l’indebolimento della Serbia aspira ad un ruolo di potenza regionale per risollevarsi e offre protezione. La Macedonia non può che premunirsi contro gli avversari e allearsi con qualcuno, come del resto fanno tutti i paesi della regione. Mentre alla frontiera albanese vi sono già scambi di colpi d’artiglieria e una frenetica attività di interdizione con mine (alla faccia degli accordi pacifisti contro le stesse), la Bulgaria «regala» alla Macedonia 150 pezzi d’artiglieria e 150 carri armati pesanti. Tenendo conto delle dimensioni dei paesi di cui stiamo parlando, si tratta di quantità enormi. Il fatto è che la Bulgaria ha potuto privarsi di quel materiale perché ha ricevuto in rimpiazzo dalla Germania una equivalente forza in mezzi corazzati moderni.

Il 22 febbraio vi è stato un accordo fra Bulgaria e Macedonia per «mettere fine agli artificiosi problemi fra i due paesi». Siccome la Serbia non può fare a meno di gradire che almeno un lato delle sue frontiere sia coperto, nonostante l’inimicizia con la Bulgaria ha ricordato addirittura che la III Internazionale auspicava una federazione fra i due paesi. È evidente che si sta formando un fronte anti-albanese per prevenire la possibilità che scaturisca, intorno alle numerose linee del cessate-il-fuoco, un movimento per la Grande Albania, che sarebbe sostenuto, a scopi diversi, sia dagli Americani che dagli Europei. Nell’accordo è esplicitamente ricordato che ognuno dei due paesi deve impedire che il proprio territorio possa essere utilizzato per azioni di gruppi ostili contro l’altro.

Ma i processi balcanici, com'è storicamente dimostrato più che negli altri casi di contenzioso, non seguono le vie dei pezzi di carta, che, come dice Lenin, sono scritti soltanto per essere stracciati. Se nell’immediato l’esigenza è quella di premunirsi, per la Macedonia non ci sono comunque molte speranze: è fin troppo facile, per chi fosse interessato, spingere la Serbia, la Grecia e la Bulgaria a rivendicarne concretamente gli eventuali pezzi, come adesso stanno facendo a voce.

Il Montenegro rappresenta per la Federazione Iugoslava un accesso strategico e commerciale irrinunciabile sul Mediterraneo. Ma proprio perché è irrinunciabile, diventa militarmente uno dei punti cruciali. Il porto naturale di Kotor è uno dei meglio protetti e meglio difendibili dell’Adriatico ed è la maggiore struttura portuale, civile e militare della Iugoslavia. Per questo motivo è uno dei bersagli più importanti dei bombardamenti NATO.

Se la politica di ingerenza tedesca nei Balcani è stata codista e grossolana, per quanto riguarda il Montenegro è stata addirittura suicida. Il tentativo evidente era quello di assecondare anche qui un movimento separatista, solo che non c’era nulla da assecondare. Inoltre l’importanza strategica della regione è non solo sentita dai Serbi, ma anche dai Russi, che hanno nella capitale del Montenegro la più solida rappresentanza diplomatica di tutti i Balcani, almeno dal 1914.

3. Balcanizzazione all’americana

Per capire ciò che succede nei Balcani non possiamo assolutamente basarci su ciò che dicono gli organi d’informazione. Del resto la situazione è intricata e contraddittoria, non si può neppure estrapolare materialisticamente dalla semplice elencazione dei fatti comunicati, che possono essere del tutto falsi. Occorre un primo approccio basato sui dati certi per poi giungere alle relazioni fra di essi e alla dinamica degli avvenimenti, quindi al loro significato sociale, politico e militare.

I dati certi a nostra disposizione prima della guerra attuale sono spiegati dalla dinamica generale che segue la guerra del Vietnam. Da quel punto in poi, volutamente o meno, la strategia americana cambia. Con la guerra del petrolio e fatti connessi (dal 1975), la potenza politica ed economica americana viene molto intelligentemente utilizzata al posto della guerra condotta con le armi. Questo è, secondo il lavoro che conduciamo da almeno vent'anni, il nucleo centrale per capire ciò che stanno facendo gli americani e gli altri in questo ultimo quarto di secolo.

L’acquiescenza di tutti gli Stati imperialisti minori è resa possibile solo dalla particolarità dell’imperialismo americano: gli Stati Uniti, per la prima volta nella storia e dopo il Vietnam (guerra vinta, come giustamente afferma Kissinger e come risulta evidente oggi), sono diventati una potenza globale che non ha più bisogno di intervenire con i suoi soldati sul terreno per risolvere i suoi problemi strategici. Da quando le esigenze della propaganda contro l’URSS hanno lasciato il posto alla concreta azione tattica e strategica, si è reso evidente che gli Stati Uniti non hanno più concorrenti militari.

Ciò ha implicazioni enormi. Un dimenticato militare italiano, Giulio Douhet, aveva predetto nel 1921 che chi avesse ottenuto il dominio dell’aria sarebbe stato invincibile e avrebbe piegato l’avversario al suo volere. La dottrina militare degli Stati Uniti deriva direttamente da dottrine di guerra totale come questa. La vittoria è assicurata alla tecnologia e all’industria più forte, ma rimane da spiegare che cosa succede quando si è vinto se non si scende a terra, come ormai tutti notano a proposito della guerra balcanica.

La tesi da noi sostenuta da tempo (cfr. «Guerre stellari e fantaccini terrestri») è: prima o poi bisogna scendere a terra per conquistare il territorio e piegarlo agli interessi del vincitore. Senza truppe, la guerra, antica o moderna che sia, è un controsenso.

Ovviamente sorge una domanda: cosa succede se gli Stati Uniti raggiungono la condizione predetta da Douhet e per soprammercato trovano qualcuno disposto a prestar loro delle truppe di terra?

La risposta è semplice: si realizza la specialissima condizione prevista da Douhet senza che l’imperialismo dominante debba rispondere della contraddizione fra le armi stellari e i fantaccini terrestri, vale a dire che si mandano a combattere truppe di popoli o nazioni che, credendo di fare i propri interessi, si fanno scannare in veste di partigiani di un imperialismo o di un altro.

Per questo la posizione comunista antipartigiana è una roccia che non si può demolire. Le condizioni in cui avviene il combattimento moderno, senza dichiarazioni di guerra, senza fronti, con i militari più al sicuro dei civili, conferma la giustezza dell’antipartigianesimo comunista: la condizione di superiorità americana è semplicemente impossibile senza le partigianerie dei prestatori di carne da cannone. L’Inghilterra del 1853 con la sua flotta a Besika, con Boustrapa, Cavour e tutti gli altri partigiani che avevano da ricavare dalla guerra qualcosa per sé, fa appena ridere in confronto agli Stati Uniti del 1940 o del 2000.

I fatti nudi e crudi mostrano una sequenza impressionante. Incominciò la Slovenia a rivendicare l’indipendenza. Le truppe iugoslave, cioè multietniche e quindi inaffidabili, furono tenute in caserma perché la Serbia ottenne assicurazioni da americani, inglesi e francesi contro i tedeschi cattivi che rimettevano il naso nei Balcani. All’epoca l’esercito iugoslavo, con le sole truppe serbe, avrebbe schiacciato la Slovenia in mezza giornata. L’Italia fu tiepida e tentennate, la Germania e il Vaticano approvarono la separazione.

In Croazia le cose furono un po’ più complicate. L’esercito era ormai solo a composizione serba e si trovò circondato nelle caserme. Ci fu battaglia, ma con la polizia. Le forze croate erano filo tedesche. Invece di intervenire, i serbi evocarono i fascisti di Ante Pavelić e tutto il resto. È inutile fare ricerche sul «perché», ma fu strano che uno Stato si lasciasse smembrare a quel modo. In quel periodo erano attive a Belgrado la diplomazia francese e inglese. Gli americani stavano a guardare. Bisognerebbe, come Marx, ripercorrere la storia recente e si dimostrerebbe che Milošević fu tenuto tranquillo fino all’ultimo con due argomenti già sperimentati:
a) con la dimostrazione che non ce l’avrebbe fatta contro la forza dell’imperialismo;
b) con l’ottenimento di garanzie sulla sopravvivenza di una Piccola Iugoslavia che tuttavia sarebbe stata una Grande Serbia.

Con l’esplosione della Bosnia le cose cambiarono perché l’inganno antiserbo si dimostrò qual era. La Serbia di nuovo non intervenne in quanto Stato, ma intervennero truppe serbe in appoggio alle armate irregolari formatesi in Bosnia. Da parte della Croazia si fece altrettanto. L’Europa fu trascinata nel gioco americano. Gli antichi e recenti massacratori diventarono tutti moralisti. Ma le «pulizie etniche» non sarebbero state pianificate dai Serbi e dai loro avversari se tutti quanti, in un modo o nell’altro, non avessero avuto il «via libera» di ripulire il territorio e soprattutto la garanzia che avrebbero potuto tenerselo. Per questo la violenza scatenata fu infine superiore a quella di qualsiasi intervento preventivo dell’esercito dell’ex Iugoslavia.

Gli Stati Uniti entrarono direttamente in scena tardi, come al solito per castigare il demonio, tenendo un atteggiamento distaccato, come se stessero facendo un favore ad altri. I loro Palmerston incominciarono a dare colpi precisi a cerchi e botti. E incominciarono a dare ordini, com'è giusto che faccia un imperialismo serio di fronte ad imperialismi burattini. Parlarono di diritto all’autodeterminazione per i popoli balcanici, compresi i musulmani di Bosnia e d’Albania. Figuriamoci. Soprattutto lasciarono fare agli europei, con la sicurezza che questi si sarebbero infognati da soli. Infine, quando la nausea per il massacro, nel frattempo adeguatamente mediatizzato, fu al limite, imposero il trattato di Dayton. Un’assurdità «africana» da epoca coloniale, che disegnava una mappa a chiazze, non avrebbe risolto nessun problema e avrebbe richiesto, per il rispetto, la presenza permanente di truppe. Ci siamo: la tecnologia la mette chi ce l’ha, le truppe anche. E i Balcani sono pieni di gente dal nazionalismo facile, antitedesca e partigiana, come sarà fra poco antitedesca e partigiana tutta l’Europa, se vincerà la crociata americana. Gli Europei si stanno impiccando con la propria corda: altro che trionfalismi dei grandi capi sull’Euro, poveri chiacchieroni.

Mentre gli Stati Uniti, tramite alcuni miliardari visibili e alcune azioni occulte si compravano varie elezioni regionali assicurandosi gli schieramenti politici opportuni, gli europei investivano sul terreno cercando di assicurarsi invece un legame diretto con le borghesie emergenti. Ma l’incomparabile peso politico e finanziario dell’imperialismo americano e il fatto di essere unitario invece che assemblato malamente come quello europeo, ha prodotto risultati dirompenti (non importa se voluti o meno): si pensi ad esempio all’esplosione finanziaria dell’Albania sotto il regime liberalizzatore filo-americano e la conseguente perdita totale di sovranità di questo paese.

Nei Balcani è inevitabile che si scontrino gli interessi contrapposti degli imperialismi, anche quelli europei. Ma è il contesto di questo scontro che lo rende particolarmente esplosivo e carico di potenzialità distruttive nel futuro. In un mondo in cui non ci si può muovere senza toccare interessi americani, per di più nel momento in cui la moneta unica europea diventa un fattore acuto nella generale e spietata concorrenza (l’attuale «guerra delle banane» non è che l’eruzione cutanea di un male più profondo), la concentrazione degli imperialisti intorno ai soliti Balcani non può che esasperare i contrasti.

L’espansione del capitale europeo a predominio tedesco ha bisogno del processo di dissoluzione della Federazione Iugoslava in quanto ne scaturiscono piccole aree a differente sviluppo economico, integrabili nel mercato dei paesi più forti senza essere in grado, ognuna, di avere un’economia propria e di condurre una politica autonoma. Il fatto è che l’eliminazione di paesi indipendenti e la loro sostituzione con piccole entità locali potenzialmente asservite sarebbe relativamente funzionale agli europei solo se l’area fosse pacificata e controllabile. Invece la balcanizzazione con conflitti inestricabili è perfettamente funzionale agli americani che vi intervengono con diktat appoggiati dall’esuberante forza militare; di qui il successo della balcanizzazione «americana», e la sconfitta di quella «europea».

L’Inghilterra, come una protesi americana, si trova benissimo nel condurre una politica anti-europea nell’area che fu tipica per le sue manovre a sostegno dello splendore passato. Ne ha le necessarie conoscenze, possiede un maturo cinismo ed è sufficientemente debole per essere obbligata a servire gli interessi dell’imperialismo che l’ha soppiantata. Non può più affermare che i Balcani «minacciano la giugulare dell’Impero», ma certo una soluzione europea per l’area orientale e il Mediterraneo la danneggerebbe relegandola fuori dal continente, dove non potrebbe far valere i suoi veti.

La Russia è ormai in condizioni di non nuocere ai movimenti dei maggiori imperialismi: essendosi legata al Fondo Monetario Internazionale ed avendo sprecato le occasioni offerte dai capitali europei, specialmente tedeschi, è facilmente zittita e non conta nulla.

In una situazione del genere l’indignazione di fronte alle contraddizioni dell’imperialismo è una pura sciocchezza. Gli Stati Uniti sostengono Ankara e le sue violenze contro i Curdi; appoggiano Gerusalemme e la sua guerra contro i Palestinesi; se ne stanno zitti di fronte a Pechino che poco per volta cancella il Tibet; fomentano le tribalità africane contro le ex potenze coloniali ecc. Però bombardano Belgrado e quel che resta della Iugoslavia per la libertà dei kosovari. Non sono per nulla in contraddizione, anzi, sono molto coerenti con i loro interessi globali. Ad essere in contraddizione sono invece gli europei, che in teoria, se fossero quell’insieme unitario che pretendono di essere, avrebbero dovuto integrare la Iugoslavia molto tempo prima che l’imperialismo avversario, di fronte al fatto compiuto, inscenasse l’ipocrita guerra umanitaria. Dire che è l’imperialismo americano a scatenare la guerra in Europa è una semplificazione soggettivistica: agli americani è bastato lasciar fare agli europei con i loro contrasti e la loro incapacità di agire. Marx avrebbe dato dei fessi agli europei, anche se non sempre i governi possono fare quello che vogliono. Dunque i capitalisti non «scatenano la guerra», concetto sbagliato dal punto di vista deterministico: la guerra scoppia in quanto essa è uno specifico prodotto naturale del capitalismo e non dipende dalla volontà dei capitalisti.

Lo smembramento della vecchia Iugoslavia è stato un evento che ogni comunista dovrebbe considerare sfavorevole, come quello dell’URSS, della Cecoslovacchia o di ogni altro vasto territorio che avesse già raggiunto una unità politica ed economica. Se per ipotesi una forza qualsiasi potesse unificare i territori balcanici anche oltre gli ex confini iugoslavi, ciò sarebbe positivo, come lo fu l’affermarsi indipendente della Polonia o l’affermarsi dello stato unitario tedesco nel secolo scorso e recentemente.

D’altra parte i comunisti non possono essere semplicemente contro ciò che succede a causa degli imperialismi, e soprattutto non possono essere semplicemente contro ciò che fa l’imperialismo più forte per poter intervenire militarmente. In situazioni come questa essere contro qualcosa o qualcuno significherebbe essere a favore di qualcuno degli attori della tragedia. Perciò non possiamo essere né antiamericani né antiserbi né antinazionalisti (cioè antisloveni, anticroati, antibosniaci, antikosovari, antimontenegrini ecc.), né a favore di qualcuno di questi per la semplice ragione che i comunisti non sono mai partigiani di una borghesia contro l’altra, di un imperialismo contro l’altro. Non sono mai indifferenti di fronte agli effetti delle guerre, perché questi possono essere favorevoli o sfavorevoli rispetto alla rivoluzione, e a volte possono addirittura scatenarla. Perciò non sono mai neppure pacifisti perché ogni rivoluzione è una guerra.

La vecchia Iugoslavia perderà probabilmente anche il Kosovo, con la benedizione delle bombe tecnologiche. E allora potrà essere la volta del Montenegro e forse anche della Voivodina, oggetto recente di propaganda occidentale antiserba. Belgrado rischierà di rimanere capitale della sola Serbia propriamente detta. Un comunista, per quanto avversario dello pseudosocialismo dei Tito e del nazionalcomunismo dei Milošević (che è della stessa natura di quello dei D’Alema) non avrebbe mai potuto auspicare la disgregazione di un esteso e popoloso Stato come la Iugoslavia. Esso rappresentava una condizione favorevole alla grande industria, ad un mercato unitario e quindi all’esistenza di un proletariato industriale più degli sparsi fazzoletti di terra, e nessun ricorso al «diritto di autodeterminazione» può, nei Balcani, giustificare ciò che è accaduto.

È chiaro che la decisione militare degli Stati Uniti e dell’Inghilterra di bombardare le illusioni europee tramite la NATO, non può essere spiegata con ammissioni esplicite. L’obiettivo «umanitario» di stroncare la politica «genocida» serba e di difendere il diritto all’autodecisione delle popolazioni diventa allora la bandiera più adatta. I mezzi di comunicazione vi si buttano e il popolo beve.

4. Le operazioni militari

È ormai provato ciò che affermavamo fin dall’inizio del conflitto: la pianificazione delle operazioni militari è del tipo «irakeno», cioè non prevede la caduta del nemico immediato bensì la guerra sotterranea ma totale a quello effettivo: chiunque sia concorrente dell’unica superpotenza rimasta, dunque l’Europa (Germania) e il Giappone.

I bombardamenti selettivi si sono dimostrati più casuali di quanto la propaganda volesse far credere e finora sono morti quasi soltanto civili, compresi molti di quelli per il cui bene si dice di voler fare la guerra contro il «demone del Male» (così si è espresso il generale Clark, comandante delle forze NATO, in un incontro con i soldati della base di Aviano).

L’intento primario, che era quello di neutralizzare la forza militare serba, è completamente fallito per la semplice ragione che i militari si sono ben guardati dall’effettuare movimenti sul terreno e hanno sgomberato immediatamente (se non addirittura prima delle ostilità) le caserme. I mezzi corazzati sono stati tenuti nascosti e le batterie contraeree sono rimaste inattive per non farsi rilevare dai controradar degli aerei. L’attività aerea serba è stata nulla a causa della schiacciante superiorità americana nel controllo elettronico, nelle contromisure e nell’interdizione dello spazio aereo. Quindi la forza militare serba è ancora intatta. Per più di un mese le emittenti radio-televisive non sono state colpite, lasciando all’avversario una delle più importanti armi della guerra moderna, l’informazione. Il bombardamento delle infrastrutture ha prodotto evidentemente danni gravissimi all’economia, ma militarmente insignificanti in una guerra come questa. Tutti i ponti sul Danubio sono stati distrutti, dividendo la Serbia dalla Voivodina.

Il risultato generale è che la Serbia ha avuto più di un mese per ottenere ciò che non era riuscita ad ottenere in Bosnia: via libera per la costituzione di territori a omogeneità etnica, detta altrimenti «pulizia» dalle bande irregolari partigiane della Serbia. Ciò ha provocato lo sradicamento di centinaia di migliaia di persone dalla loro terra e la loro migrazione verso l’Albania, la Macedonia, il Montenegro, l’Italia e, in numero minore, verso altri paesi europei.

È ovvio che, come nel caso dell’Iraq, anche se i comandi NATO e americani negano, il percorso militare non può fermarsi ai bombardamenti né questi possono durare all’infinito. Il controllo del territorio è indispensabile proprio per raggiungere gli obiettivi previsti dai bombardamenti. Ma se ormai la pulizia etnica è stata portata quasi a termine, quale compito dovranno avere le truppe di terra?

Intanto, dal punto di vista militare occorre stabilire che significa dislocare truppe in un’area come quella balcanica. Le forze dell’Asse, durante la Seconda Guerra Mondiale, dovettero impegnare in Iugoslavia 250 000 uomini con esiti disastrosi contro truppe male addestrate e male armate. Oggi l’esercito iugoslavo dispone di 140 000 uomini ben addestrati e materiale moderno, più una riserva di almeno mezzo milione di uomini. Ma il fatto più importante è la dottrina militare iugoslava, che prevede la militarizzazione di tutta la popolazione e una difesa del territorio di tipo guerrigliero. La maggior parte degli esperti, compresi quelli americani, ammettono che un minimo di controllo per un effettivo cessate-il-fuoco nel solo Kosovo non possa impegnare meno di 100 000 uomini, compresi numerosi reparti americani con armamento leggero e pesante (e senza limiti d’azione per il raggiungimento degli obiettivi). Ciò sarebbe in linea con la dottrina militare americana per l’Europa che si chiama appunto Airland Battle, battaglia d’aria e di terra, cioè compiti integrati che prevedono entrambe le soluzioni in contemporanea (più la marina), non solo una di esse. Ovviamente, per non lasciare, dopo la totale iniziativa statunitense nell’aria, la totale iniziativa europea a terra, i militari americani vorrebbero «esserci», perché sarebbe un controsenso abbandonare il campo dopo aver dimostrato la massima potenza e risoluzione. Tuttavia il governo americano è restìo all’invio di fanteria a terra e la scappatoia potrebbe essere l’utilizzo di truppe non europee dell’ONU che, controllate ugualmente dagli Stati Uniti, potrebbero ottenere gli stessi risultati, evitando, per soprammercato, la psicosi vietnamita delle bare di ritorno.

Che tali piani siano già allo studio da molto tempo (non si può avviare un’operazione militare complessa senza avere una preparazione di mesi) e che l’opzione di terra sia imminente se non si raggiungono nel frattempo altri risultati, lo dimostra il fatto che la diplomazia di guerra si sta muovendo in quella direzione. Il 24 aprile scorso gli Stati Uniti hanno ottenuto dai governi ceco e slovacco l’approvazione per movimenti militari sul loro territorio e il 25 l’hanno ottenuto dalla Slovenia, dalla Croazia, dalla Romania e dalla Bulgaria. Un’invasione della Serbia dal Nord sarebbe dunque l’opzione decisa dai vertici militari. In effetti sarebbe la soluzione meno pericolosa e più carica di conseguenze: i serbi sarebbero chiusi tra il Danubio senza più ponti e i loro confini meridionali «ripuliti» dagli albanesi. Conquisterebbero tutto o parte del Kosovo ma perderebbero la ricca Voivodina, abitata anche da una minoranza etnica ungherese, che cadrebbe sotto il controllo degli occidentali, i quali non avrebbero nessuna difficoltà ad insediare un governo fantoccio dopo ovviamente libere e democraticissime elezioni.

Il dispiegamento degli elicotteri Apache in Albania è significativo. Nonostante le performances attribuite dalla propaganda a questo elicottero d’attacco al suolo, questa macchina è studiata per operare in ambiente integrato e non ha senso utilizzarla da sola o in stormo; diventerebbe troppo vulnerabile anche per i piccoli missili portatili in dotazione all’esercito iugoslavo.

Riportiamo un breve dialogo avvenuto il 25 aprile a Washington fra un osservatore militare e un portavoce della NATO durante una conferenza stampa (lo riprendiamo dal sito Internet di CNN), perché ci mostra come vengano utilizzate le spinte locali per indirizzarle univocamente in un disegno generale distinto dagli interessi di ogni singolo paese:

L’Ungheria permette veramente che gli aerei da combattimento partano dalle proprie basi, e non solo gli aerei logistici come pensavo?

Tutti gli alleati stanno mostrando la necessaria solidarietà che ci aspettiamo, non c’è assolutamente nessun dubbio su questo. L’Ungheria l’ha fatto perché è chiaro, lasciate che la metta così, che è interessata alla sorte dell’etnia ungherese in Voivodina e noi teniamo presente che ci va bene. Detto questo, l’Ungheria sta offrendo tutto il supporto che ci si potrebbe aspettare.

Inaudito.

Come si può constatare, gli aerei della NATO volano giorno e notte, non stazionano mai. L’Ungheria è parte di questa operazione come ogni altro alleato e tutte le richieste che abbiamo fatto al governo ungherese per il supporto sono state evase finora e ci aspettiamo che lo siano in futuro.

L’Ungheria sarebbe la base ideale per un’invasione via terra. Si affaccia sulle pianure a Nord del Danubio, mentre su tutti gli altri confini e su quasi tutto il territorio circostante vi sono montagne inaccessibili ai mezzi pesanti.

5. L’opposizione alla guerra

È fin troppo evidente che l’anti-imperialismo professato da molte forze politiche è un anti-americanismo di maniera ereditato dall’epoca stalinista. I comunisti non hanno nulla a che fare con simili deformazioni e non attribuiscono categorie di valore a un imperialismo piuttosto che un altro. Se ovviamente le sconfitte dell’imperialismo maggiore, sempre possibili localmente, sono auspicabili, ciò non significa che l’odio feroce contro il capitalismo si debba trasformare in odio specifico per un dato paese. L’odio per gli «Amerikani» in quanto tali è fratello del vecchio odio per il «Tedesco invasore» e sa di Fronte, di Resistenza, di Democrazia, di Pace, di Costituzione, di Diritto ecc. insomma, di tutti gli arnesi che l’opportunismo ha via via adottato per la sua politica anticomunista.

Per i marxisti c’è più comunismo negli Stati Uniti che nella vecchia URSS pseudocomunista o nelle teste degli pseudorivoluzionari. La tremenda potenza economica, politica e militare messa in campo da questo paese è frutto di una socializzazione del lavoro estrema e anche di una ripartizione del plusvalore estratto in tutto il mondo, che è indirizzato in buona parte verso la popolazione americana. Non ha senso gridare slogan antiamericani e dimenticare il resto della società borghese mondiale. Gli Stati Uniti possono essere sconfitti solo da una più potente coalizione di Stati, da un collasso o da una rivoluzione interna. Ma nessuna coalizione mondiale potrebbe avere la compattezza e quindi la forza che ha un solo grande paese, che risponde ad una sola politica centralizzata.

L’anti-imperialismo comunista ha la sua base nel «Manifesto» di Marx, dove viene spiegata la necessità (determinazione reale) della rivoluzione attraverso lo sviluppo della forza produttiva sociale dovuta al capitalismo. Il quale distrugge i vecchi rapporti e sconvolge in continuazione i residui della vecchia società. L’auspicio o la lotta per la sconfitta dell’imperialismo più forte non possono mai essere disgiunti dalla lotta per l’abbattimento della società borghese in generale.

Come Marx auspicava la sconfitta dell’Inghilterra da parte della rivoluzione, ma anche la sua vittoria nei confronti della vecchia società rappresentata dal baluardo reazionario russo, così noi abbiamo sempre auspicato la sconfitta degli Stati Uniti da parte della rivoluzione in cammino, da parte delle popolazioni che avevano ancora da compiere interamente il loro ciclo nazionale prese tra i due fuochi dei massimi imperialismi o anche da parte di coalizioni di Stati. Ma la Sinistra Comunista non poteva non prendere atto, per esempio, che fu la potenza americana e non certa borghesia nazionale inconseguente a demolire una volta per tutte le vecchie potenze coloniali concorrenti.

L’avversione per il supercapitalismo non è nulla se non è avversione per il capitalismo tout-court, a incominciare da quello del proprio paese, rappresentato dalla propria borghesia. In questa epoca di nazionalismo evidente o strisciante gli Stati Uniti ne sfruttano tutti i risvolti per la loro politica, e non ha senso cascare nella trappola sia in modo diretto, cioè partecipando alla crociata antibarbarica occidentale, sia in modo indiretto, cioè partecipando alla crociata antiamericana. Ed è idiota riattaccare l’eterna lagna sull’aggressore e sull’aggredito quando si parla di nazioni borghesi, quando il proletario è sfruttato forse peggio dall’aggredito che dall’aggressore.

Gli Stati Uniti hanno guadagnato settant'anni di respiro capitalistico dal 1930 ad oggi superando la Grande Depressione attraverso la Seconda Guerra Mondiale. In questo dopoguerra hanno investito le loro eccedenze, in un mondo che non aspettava altro, non in uno, ma in mille Piani Marshall di «aiuti» ai quattro punti cardinali. Sappiamo che in realtà non è stata l’America ad aiutare il mondo ma il mondo ad aiutare l’America e quest'ultima ha sfruttato la sua particolare situazione favorevole come avrebbe fatto qualsiasi potenza.

Ora le eccedenze americane incominciano ad incrociarsi con le eccedenze degli altri in una rincorsa mondiale all’accaparramento del plusvalore. La guerra non lubrifica più l’economia come una volta e Zio Sam, che non ha smesso di guerreggiare in proprio, adesso presenta il conto agli altri, nel senso che prepara proprio la lista della spesa. Qualcosa è dunque cambiato. Mentre un tempo la potente America non aveva rivali in economia, ora subisce lo stillicidio della concorrenza altrui. Nessun rivale, preso singolarmente, la impensierisce più di tanto, ma, avendo essa contribuito massicciamente a rendere capitalistico il mondo, ora patisce la semplice presenza di potenzialità diffuse. Per questo dicemmo che non avrebbe potuto sopportare la concorrenza anche solo ventilata di un’Europa unitaria e di un Giappone esportatore di capitali. E scrivemmo che sarebbe stata guerra preventiva. Così è stato, ma non da adesso, a partire dai Balcani, da molto prima.

Per tutti questi motivi occorre rifiutare la trappola delle motivazioni nazionali, umanitarie, costituzionali della guerra.

Lo sporco utilizzo della sofferenza umana obbliga l’informazione a mettere l’accento sulle questioni nazionali ed etniche piuttosto che sulla situazione indotta dagli scontri fra imperialismi. Gli albanesi kosovari vogliono l’indipendenza dallo Stato oppressore serbo, e combattono per tale obiettivo. Vogliono l’autodeterminazione, come l’hanno ottenuta gli sloveni, i croati, persino i bosniaci, che pur erano distribuiti sul territorio in modo così ingarbugliato da far inventare la «pulizia etnica». Ma non è questa la causa della guerra. Autodeterminazione è una parola senza senso quando la si usa a caso, specie nel mondo moderno. Sentenziando sull’autodeterminazione al di fuori di ogni considerazione geostorica, in qualsiasi parte del mondo, chiunque può essere fatto passare per un rivoluzionario. Barando sulla materialistica posizione di Lenin, chiunque potrebbe persino dimostrare che gli americani sono i veri realizzatori delle istanze comuniste sul diritto alla separazione dei gruppi etnici ex iugoslavi.

Gli opportunisti si riconoscono dal fatto che nelle guerre borghesi si schierano con qualcuno. A loro non passa neppure più per la mente che i proletari possono essere chiamati a combattere solo per la trasformazione della guerra in rivoluzione. Quando si è partigiani di uno fra due schieramenti borghesi si parteggia per i borghesi. La Resistenza insegna: non si può essere anti-imperialisti quando in una guerra mondiale si è combattuto a fianco di un imperialista contro l’altro. Hanno voluto l’America: eccola qua.

«Il gioco è vecchio, se anche le parole sono nuove. Se l’oggi è tutto nell’antitesi tra i due nuclei di Stati che guerreggiano, è evidente che fa il gioco dei tedeschi chi non è disposto… a fare il gioco degli altri. Il serpente del sofisma morde la propria coda. Ma quando è stato provato che non si possa altrimenti premere sul divenire storico che parteggiando per questi o per quelli?» (A. Bordiga, «La falsificazione», «L’Avanti!», 13 aprile 1915. Nello stesso articolo il rappresentante della Sinistra si schiera con i promotori della futura conferenza di Zimmerwald contro la guerra e per la III Internazionale).

Purtroppo la mentalità partigianesca non attecchisce solo fra i vecchi rottami dell’opportunismo ma anche fra i giovani sottoposti alle varie propagande interessate. La ricerca di una via d’uscita rivoluzionaria da questa società non può passare da logori stereotipi moralistici, democratoidi, ipocritamente umanitari. Tutto ciò rappresenta l’armamentario che scaturisce dal sottosuolo della società borghese ogni volta che la guerra, fisiologicamente necessaria al capitalismo, incombe e provoca adeguate psicologie di massa. I giovani, tra i quali la rivoluzione trova i suoi militanti, devono contrastare in tutti i modi il bombardamento delle loro intelligenze mentre lottano contro la guerra.

Per i classici pacifisti non-violenti, come i radicali, è stato facilissimo sposare la causa americana e applaudire ai bombardamenti. Citano Gandhi e il suo appello alla guerra contro il nazismo. Predicano la tolleranza e il garantismo, ma chiamano vigliacchi coloro che rifiutano la violenza della civiltà contro la violenza della barbarie. Avrebbero bombardato quelli che si ostinano ancora a chiamare comunisti russi che avevano invaso l’Afghanistan, bombarderebbero oggi i Talibani fondamentalisti che hanno rimpiazzato i russi.

Per certi pseudocomunisti «moderati» l’intervento militare americano nei Balcani è giustamente assimilabile a quello nel Golfo contro l’Iraq, ma sarebbero pronti a sottoscrivere una prova di forza contro la Turchia (e il suo alleato americano) per far cessare il massacro dei curdi ribelli. O contro Israele (e il suo alleato americano), per impedire il soffocamento definitivo delle istanze palestinesi.

Dei massacri algerini non parla nessuno, ma c’è da scommettere che qualcuno di loro bombarderebbe i barbari islamici e qualcun altro gli antidemocratici governanti che hanno provocato i massacri rifiutando la vittoria elettorale degli avversari. Tutti i pacifisti diventano bombardatori non appena qualcuno gli offra una «causa».

Per altri pseudocomunisti «estremisti», è semplicemente in corso un attacco americano contro la Serbia e il suo proletariato. Costoro, all’epoca della Guerra del Golfo, vedevano nell’esercito della borghesia irakena un’oggettiva forza anti-imperialista, quindi un’oggettiva forza rivoluzionaria. Facevano appello ai palestinesi, agli oppressi e anche ai proletari dell’area affinché l’appoggiassero combattendo nei ranghi irakeni contro l’imperialismo americano. C’è da chiedersi se oggi Slobodan Milošević è considerato da costoro un altro Saddam Hussein, campione della lotta contro l’imperialismo americano.

Infine, per i partiti istituzionali borghesi che si definiscono ancora comunisti, bisognerebbe continuare i negoziati con la mediazione dell’ONU. Questa è la più risibile delle motivazioni contro la guerra balcanica. Clinton e l’ONU benedissero i negoziati fra i palestinesi e gli israeliani e ne uscì uno spezzettamento territoriale peggiore che in Bosnia, per cui i Palestinesi sono stati messi in un vicolo cieco.

D’altra parte tutti sanno che le guerre incominciano là dove i negoziati finiscono. Infatti i kosovari intensificarono la loro azione armata e i serbi intensificarono la repressione (comportandosi come tutti gli stati borghesi di questo mondo) proprio durante i negoziati. Come fanno i turchi e gli iracheni con i curdi, tanto per parlare di cose recenti. Se qualcuno bombardasse la Turchia per far cessare il massacro dei curdi e per favorire la nascita del vagheggiato Kurdistan indipendente, quelli che hanno manifestato per Öcalan farebbero altrettanto per chiedere negoziati coi turchi?

6. I comitati contro la guerra

Mentre le rivendicazioni economiche e politiche immediate del proletariato (salario, tempo di lavoro, diritti organizzativi) conducono a conquiste effimere ma sono importanti perché comportano l’attitudine all’organizzazione di classe, la lotta contro la guerra non prevede risultati effimeri (pace borghese) e pretende un’organizzazione di classe già esistente (sindacati classisti, partito come organo politico di direzione). I marxisti criticarono la pretesa secondinternazionalista di evitare la guerra con lo sciopero generale internazionale in quanto astrattamente pacifista e ribadirono la parola d’ordine: trasformare la guerra in rivoluzione.

Non si rivelò semplice assimilare ciò, ma fu necessario e lo è ancora. Persino la maggioranza del Partito Bolscevico, nel 1917, dimentica della chiarissima formula, oscillò pericolosamente tra la «guerra di difesa» della rivoluzione democratica in Russia e la «pace senza annessioni». Lenin dovette ricordare ai compagni di partito che le due parole d’ordine non erano comuniste, perché avevano per soggetto la Russia, mentre per i comunisti il soggetto è la rivoluzione proletaria mondiale.

Criticando la socialdemocrazia e il populismo, già allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914–15, Lenin dimostra che non si possono applicare alla questione della guerra i criteri di organizzazione e di lotta che vanno bene contro la borghesia in tempo di pace. Tutti sono capaci, dice, di parlare della «pace» quando la guerra non c’è; non tutti però sanno mantenere la bussola quando si tratta di fermare una guerra in atto, quando la parola d’ordine non può essere che il disfattismo applicato, la diserzione dei soldati, la loro fraternizzazione al fronte, la ribellione contro gli ufficiali, l’uso delle armi contro lo Stato borghese, la trasformazione della guerra in rivoluzione.

Ogni qualvolta la voce passa alle armi e diventa di prammatica la costituzione di «comitati contro la guerra», assistiamo alla confusione più totale: si scambia la sacrosanta esigenza proletaria e comunista di bloccare la guerra con una «rivendicazione» di tipo immediato; mai che capiti di veder posta la questione in termini coerenti con la tattica rivoluzionaria ben delineata da Lenin (e dalla Sinistra Comunista).

Naturalmente anche in occasione dei bombardamenti odierni sulla Serbia, abbiamo potuto constatare una rinnovata spinta a formare comitati in diverse località, e abbiamo ricevuto inviti in tal senso, anche dall’estero. Ad una di queste proposte, che era specificamente per la costituzione di un «comitato dei gruppi internazionalisti contro la guerra» abbiamo risposto:
1) che in via di principio ogni comunista dovrebbe essere assolutamente favorevole alla costituzione di un comitato contro la guerra borghese;
2) che non c’è ragione di mantenere tale comitato solo nell’ambito «internazionalista», perché esso dovrebbe tendere a raccogliere tutti i proletari di qualunque partito o fede politica;
3) che i comunisti non parlano a vanvera e che quindi devono pretendere dal comitato la piena consapevolezza sul significato di una parola d’ordine gravissima come «lottare contro la guerra» e delle sue conseguenze pratiche.
4) che perciò un comitato contro la guerra non avrebbe senso se a) non avesse la possibilità di esistere con queste caratteristiche e b) non partisse da un effettivo, solido e non immaginario legame con il proletariato e le sue organizzazioni classiste.

Nel primo punto si sottolinea che i comunisti non sono affatto pacifisti e che distinguono tra guerra e guerra, partecipando direttamente a quelle rivoluzionarie (anche se fossero condotte da classi non proletarie, come per esempio le rivoluzioni borghesi antifeudali).

Nel secondo punto si sottolinea che ogni fronte proletario non può essere caratterizzato politicamente poiché una delimitazione politica farebbe cadere il concetto di «fronte»; ma, all’opposto, l’allargamento politico verso organizzazioni non proletarie distruggerebbe il criterio di fronte «di classe» e intreccerebbe l’azione del proletariato con quella delle classi nemiche.

Nel terzo punto si sottolinea la questione fondamentale posta da Marx, da Engels, da Lenin e dalla Sinistra Comunista alla base dell’azione di classe: non deve mai succedere che ad una parola d’ordine tattica non corrisponda l’effettiva, reale, concreta possibilità della sua realizzazione nell’interesse del proletariato; i rivoluzionari comunisti non sono dei Don Chisciotte all’assalto di mulini a vento e non lottano al soldo di altre classi o comunque per esse.

Nel quarto punto si sottolinea che, nella questione della lotta contro la guerra, le organizzazioni classiste devono precedere la formazione dei comitati e non si può immaginare che questi possano supplire ad esse o addirittura possano crearle. La lotta contro la guerra è già un fatto altamente politico che richiede uno scontro di classe a livello estremo e non può essere condotta senza che il proletariato abbia già una guida politica.

Il comunismo non è un movimento di opinione e la lotta di classe non è un fenomeno democratico tra gli altri, quindi i comunisti partecipano a eventuali organismi proletari solo per condurre azioni pratiche e mai per mettere in discussione teoria e tattica. Meno che mai, se l’organismo fosse un «comitato contro la guerra», potrebbero affiancarsi a chi si limitasse a sciacquarsi la bocca con frasi roboanti, a dichiarare la sua indignazione ai quattro venti, a invocare velleitariamente la ripresa della lotta di classe e lo sviluppo del partito rivoluzionario, insomma a ripetere che «bisogna fare qualcosa» senza poter dire in pratica che cosa. L’argomento della guerra è tremendamente serio e non può essere oggetto di confusi dibattiti fra forze che non abbiano un indirizzo univoco: un comitato che fosse veramente «contro» la guerra dovrebbe porsi il compito di organizzare la lotta per impedirla, troncarla o trasformarla in guerra civile. Qualsiasi altra soluzione è estranea agli interessi del proletariato e alla tattica comunista.

Nel 1915 Lenin affronta il problema posto da un Comitato di Organizzazione menscevico-populista contro la guerra e dice:

«Prendete l’articolo più ‹di sinistra› e più ‹di principio› della raccolta, scritto da Martov. Basta riportare una frase dell’autore, che esprime il suo pensiero fondamentale, per capire quale sia la sua fedeltà ai principii: ‹Va da sé› – scrive Martov – ‹che se la crisi attuale portasse alla vittoria della rivoluzione democratica, alla repubblica, il carattere della guerra cambierebbe radicalmente.› È una falsità assoluta e stridente. Il carattere della guerra fra le grandi potenze borghesi e imperialiste non cambierebbe di un filo se in una di queste potenze l’imperialismo militarista-assolutista-feudale fosse rapidamente spazzato via, perché non per questo l’imperialismo puramente borghese sparirebbe, ma anzi, si rafforzerebbe» (da: «Come si maschera la politica socialsciovinista», «Op. Compl.» Vol. 21 pag. 396, evidenziature nell’originale).

Lenin rinfaccia ai rinnegati una indeterminatezza tattica derivante da una non risolta sistemazione teorica del problema della guerra. Un conto è la rivoluzione borghese, base per quella comunista, in cui il proletariato può combattere lo stesso nemico di classe della borghesia perché combatte per sé; un altro conto è invece combattere nella guerra imperialista fra Stati borghesi anche se questa potrebbe far saltare il comune nemico di classe feudale. In questo caso il proletariato cadrebbe nell’appoggio ad un imperialismo contro un altro, nel partigianesimo a favore di una specifica borghesia; non spezzerebbe il cerchio infernale della guerra in cui i proletari sono carne da macello per interessi borghesi.

Se nella situazione attuale un «comitato contro la guerra» fosse talmente forte da far cessare le operazioni militari contro la Serbia ma non contemplasse nelle sue parole d’ordine quella di trasformare questo risultato in una guerra contro le borghesie di tutti i paesi belligeranti, non sarebbe altro che un comitato partigiano della borghesia serba. Oggi vediamo forze politiche sedicenti comuniste talmente lontane da ogni concezione tattica marxista sulle guerre moderne da sostenere non solo una cosa del genere ma addirittura la necessità di un appoggio attivo alla «resistenza del popolo serbo» contro l’aggressore occidentale. Riteniamo questo atteggiamento, qualora esso si tramutasse in fatto reale, cioè qualora i sostenitori di tale tesi si arruolassero fisicamente nell’esercito serbo come coloro che andarono a combattere in Spagna, certamente più serio di quello dei creatori di comitati di chiacchiere. Serio, ma del tutto borghese, non marxista.

Lenin, feroce combattente contro la poca chiarezza che nasconde il tradimento bello e buono, osserva nell’articolo citato che le parole d’ordine devono sempre rispettare tre criteri:

«Martov termina il suo articolo, che fa dell’equilibrismo con frasi di effetto, con un appello spettacolare alla ‹socialdemocrazia russa› a ‹prendere fin dall’inizio della crisi politica una posizione chiaramente internazionalista rivoluzionaria.› Il lettore che voglia controllare se dietro questa vistosa insegna non si nasconda del marciume, si ponga questa domanda: che cosa significa in generale prendere una posizione politica? Significa:
1) formulare a nome dell’organizzazione, in una serie di risoluzioni, una valutazione del momento e della tattica;
2) proporre una parola d’ordine di lotta per il momento considerato;
3) collegare l’una e l’altra all’azione delle masse proletarie e della loro avanguardia cosciente.
Martov e Axelrod non fanno né la prima, né la seconda, né la terza cosa»
.

E Lenin conclude che, quando non vi sia un effettivo legame con le masse e per di più si possieda una concezione tattica sbagliata, ogni questione si risolve in un inganno dei proletari a tutto vantaggio del blocco borghese.

Anche Engels ricorda, a proposito degli altisonanti proclami emanati dagli esuli blanquisti a Londra dopo la sconfitta della Comune, che si dovrebbe conoscere il significato degli «ordini emanati sulla carta» quando non siano seguiti dagli atti che ne permettano l’esecuzione e
«a quali puerilità si giunge quando delle persone che sono di per sé stesse molto pacifiche vogliono apparire terribili».

Pacifiche e puerili, cioè inoffensive, sono tutte le ricorrenti trovate di chi «vorrebbe e non può», ma si intestardisce a raccogliere consensi attorno a compromessi politici tra esponenti di gruppetti e partitini, lontano mille miglia dalle determinazioni materiali che pesano sul proletariato. Determinazioni con effetti terribilmente pratici, per nulla esorcizzabili con la volontà, e che vietano di pensare sia possibile, sempre, comunque e dovunque, la «creazione» vuoi dell’avanguardia politica, vuoi del suo organico legame con le «masse», ridotte al rango di astrazione fantastica.

Oggi non esistono né le condizioni di classe né le forze politiche in grado di dar vita ad un comitato con le caratteristiche minime generali richieste da Lenin. Vale a dire che non c’è alcuna possibilità, per un eventuale comitato che nascesse lo stesso, anche se fosse genuinamente proletario e non un parlamentino, di avere una funzione pratica sull’andamento della guerra. Le due cose ovviamente sono del tutto complementari, intrecciate fra di loro. Siccome però un comitato rivoluzionario contro la guerra, cioè non pacifista, non potrebbe far altro che incitare i soldati alla rivolta contro gli ufficiali, i piloti a bombardare Roma e Montecitorio invece di Belgrado, gli operai a scendere in piazza a loro sostegno ecc., sarebbe da pagliacci o da incoscienti lanciare la parola d’ordine del disfattismo militare fermandosi alla parola senza pensare ai fatti.

Diceva la Sinistra Comunista nel 1923 di fronte al tribunale che l’accusava di chiamare i soldati alla ribellione:

«Questo incitamento non si è per ora verificato. Le conseguenze della disobbedienza militare sono talmente gravi che può darsi che in certe circostanze noi daremo ordini in tal senso, ma solo quando si sia determinata una situazione in cui il conflitto debba diventare generale. Noi non siamo così ingenui da dare oggi al povero soldato l’ordine di ribellarsi individualmente ai superiori. Abbiamo detto anzi ai compagni militari di rimanere al proprio posto e di fare i buoni soldati per accumulare quella esperienza tecnica che potrà servire domani alla classe proletaria. Non è vero in linea di fatto che noi abbiamo eccitato alla disobbedienza: è possibile che in un certo momento noi potremo arrivare a questo, quando sarà giunta l’ora dell’insurrezione generale. Noi non siamo una setta che prepara congiure o si illude che il regime possa essere cambiato un bel giorno senza che i cittadini ne siano avvertiti, noi diciamo che il nostro partito deve raggiungere una determinata efficienza per poter lanciare in modo pubblico l’ultima offensiva» («Il processo ai comunisti italiani», Libreria editrice del PCd’I, 1924, pagg. 76–77).

Non si può scherzare con la guerra. Lenin, nel suo opuscolo dedicato al «Socialismo e la guerra», scritto specificamente per la conferenza di Zimmerwald (Op. Compl. Vol. 21 pag. 269), dopo aver ribadito che l’unica parola d’ordine valida è quella della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, aggiunge:

«ogni lotta di classe conseguente in tempo di guerra, ogni tattica di ‹azione di massa› seriamente applicata, conduce inevitabilmente a questo» (pag. 286).

Lenin continua dicendo che in ogni caso occorre
«lavorare sistematicamente e con perseveranza proprio in questa direzione».
Noi siamo perfettamente d’accordo, e pensiamo che sia possibile trovare elementi disposti a seguire la direzione indicata da Lenin. Ma non pensiamo affatto che ciò sia sufficiente a tradurre l’eventuale indirizzo comune in possibilità reali. Purtroppo manca un elemento essenziale, quella «polarizzazione di classe» che permetta al proletariato di avere i suoi organismi immediati e il suo organo politico, l’unica condizione che permetterebbe ad un «comitato» di essere un fatto politico di massa. I rivoluzionari privilegiano il lavoro sistematico e perseverante proprio per evitare che qualunque comitato, contro la guerra o altro, diventi il simbolo dell’effimero, scaturisca dalle mosse dell’avversario, sia pensato soltanto quando «succede qualcosa» che si immagina sfruttabile.

Questo sarebbe codismo. I compiti dei comunisti sono permanenti. Se si pensa che di fronte ai proletari sia utile discutere sul patrimonio marxista e sugli insegnamenti che se ne possono trarre in «situazioni specifiche» come amano dire gli immediatisti, lo si faccia senza fingere di creare comitati; i marxisti son sempre pronti a dimostrare che la storia del movimento rivoluzionario moderno ha già la soluzione per la questione della guerra e per il resto. Perciò riteniamo indispensabile ogni sforzo per diffondere la potente sintesi operata dalla Sinistra nei suoi sessant'anni di lotta: essa è un bilancio e un potente avvertimento rispetto alle cose da non fare. Fuori dai compiti permanenti e dal lavoro sistematico per la riaffermazione continua della teoria e della tattica e per l’organizzazione e la diffusione di tale lavoro c’è solo confusione, rincorsa al momento esistenziale, pulsione attivistica.

Un ennesimo comitato contro la guerra, che si riduca a dibattere opinioni tra esponenti politici, che cioè proceda, come si suol dire, ad un «confronto» per raggiungere il solito documento di compromesso con le solite puerili parole d’ordine ad effetto, dall’apparenza terribile ma in sostanza inoffensive, da lanciare verso «masse» per nulla turbate da tanto agitarsi frontista, sarebbe nient'altro che la riproduzione in scala microscopica di un parlamento borghese, un mulino a chiacchiere, come lo definiva Lenin.

Purtroppo la disgrazia è che oggi, in tutto il mondo, questo è l’unico modello di comitato che esiste nella testa di chi lo propone ed è l’unico che sia stato realizzato da ottant'anni a questa parte. Non è un problema di errori di uomini, di tradimenti o di incomprensioni, è un problema di determinazioni materiali che inducono gli uomini a pensare in un certo modo nell’epoca della controrivoluzione imperante. Il meccanismo è ben conosciuto ed è stato alla base anche della distruzione dell’Internazionale Comunista. Da quando esiste il movimento operaio si dice che per battere il nemico occorre l’unità di tutte le forze proletarie, ed è giusto. Ma negli anni '20, quando incominciò ad essere teorizzata la politica del fronte unico (che i proletari hanno sempre applicato correttamente per conto loro senza chiedere il permesso ai teorizzatori), si sostenne che questa unità la si sarebbe ottenuta concentrandosi su un minimo comun denominatore politico e tattico che permettesse l’azione comune. Questo stesso argomento è utilizzato oggi da tutti coloro che avanzano proposte di comitati.

La formula è apparentemente ragionevole e funzionale, ma contiene le potenzialità più distruttive che ci siano nei riguardi del processo rivoluzionario: il fatto è che ogni rivoluzione passa attraverso momenti critici, quando le forze si equilibrano e lo scontro può essere deciso da fattori che sembrano imponderabili; in quei momenti emergono forze controrivoluzionarie che tendono ad evitare le estreme conseguenze delle lotta. Esse trovano sempre argomenti a favore di un minimo denominatore comune con forze borghesi contro altre forze borghesi, e attaccano sempre chi dimostra che così facendo si va immancabilmente verso la sconfitta. Successe in Russia nel 1917, in Ungheria nel 1919, in Germania nel 1923, in Italia nel 1924, in Cina nel 1926, solo per citare i casi più tragici. In tutte queste occasioni rivoluzionarie ci si appoggiò a forze borghesi ritenute «progressiste» contro forze dichiaratamente reazionarie. E quando l’inevitabile sconfitta si presentò puntuale, i rinnegati sostennero sempre, come giustificazione, che non si era fatto abbastanza per allargare il fronte, che si era stati eccessivamente rigidi nel concepire il minimo comun denominatore.

Nessun proletario bada più a ciò che fanno gli ex comunisti (intendiamoci, erano già ex negli anni '20) attualmente al governo, ma essi sono convinti fautori della guerra umanitaria e sono alleati degli imperialisti americani «buoni» contro i serbi «cattivi» perché già contro la borghesia fascista cercarono il minimo comun denominatore con la borghesia antifascista. Furono conseguentemente alleati con la borghesia americana contro la borghesia dell’Asse, ed è logico, non strano, che continuino ad esserne alleati nei momenti cruciali. È da «comitati» frontisti come l’Aventino che scaturisce la potente controrivoluzione attuale.

C’è un solo «comitato contro la guerra» che, nella storia, possiamo prendere in considerazione come modello di ciò che si deve o non si deve fare: la Conferenza di Zimmerwald dell’agosto 1915. Un comitato che, reagendo al tradimento della socialdemocrazia mondiale entrata in guerra a fianco delle borghesie nazionali, fu contro tutto e tutti, fu ferocemente antiborghese, fu totalitariamente contro la ricerca del famigerato minimo comun denominatore. Pochi furono i partecipanti alla Conferenza e ancora meno furono quelli che rimasero in seguito fedeli ai suoi scopi, ma lì fu gettato l’embrione della rinascita internazionalista e della rivoluzione europea. E quando Zimmerwald, nel 1917, non rispose più alle esigenze della rivoluzione cadendo ancora una volta nel compromesso, i comunisti, per bocca di Lenin, buttarono a mare il «comitato» senza tanti complimenti:

«Noi prendiamo parte a questa commedia e ne rispondiamo di fronte agli operai. È una vergogna. Bisogna immediatamente uscire da Zimmerwald che è in putrefazione. Dobbiamo decidere immediatamente di convocare una conferenza delle sinistre, altrimenti il nostro partito, unico partito di internazionalisti al mondo, giocherà alla conciliazione con i Martov e gli Tsereteli tedeschi e italiani» («Op. Compl.» Vol. 25 pag. 289).

Era settembre e i comunisti stavano conquistando la guida di ben altri comitati, contro la guerra, contro l’autocrazia, contro la borghesia, senza compromessi. Il mese dopo prendevano il potere.

7. Prospettiva del dopoguerra

Non possiamo conoscere il gioco delle diplomazie segrete e tantomeno i piani militari delle potenze impegnate nella guerra, ma è certo che nei risultati finora conseguiti possiamo leggere un primo dato a favore dell’imperialismo americano: l’Europa non esiste come entità politica ed economica.

Un secondo dato lo leggiamo sul terreno specifico della guerra e delle sue presunte motivazioni: la Serbia sarà il demonio di turno, il rappresentante del Male, ma i bombardamenti alleati l’hanno oggettivamente aiutata a raggiungere il suo scopo immediato, che è quello di consolidarsi in quanto nazione su di un territorio etnicamente omogeneo e ben difendibile, quindi in quanto potenza locale. Che ciò sia stato ottenuto pianificando un doppio gioco di tipo iracheno o in modo spontaneo non ha nessuna importanza; le forze che agiscono in modo disordinato prima o poi si riuniscono in una risultante che è congeniale all’imperialismo più forte.

Un terzo dato lo leggiamo nel resto del territorio, dove almeno un milione e mezzo di albanesi kosovari, montenegrini e macedoni sono «profughi» attuali e potenziali. Anche in questo caso alla balcanizzazione si aggiungono determinanti sociali come quelle che rendono irrisolvibili i problemi palestinese o curdo, e che offrono all’imperialismo più forte argomenti sempre «validi» per intervenire o per ricattare le parti coinvolte, contrarie o sottomesse che siano.

Un quarto dato lo leggiamo nella storia di tutta l’area. L’unificazione tedesca e il coinvolgimento delle zone immediatamente ad Est nella sfera d’influenza storica della Germania, non poteva non provocare una rivitalizzazione del capitalismo in Europa (vedi nostra Lettera n. 22), quindi il bisogno di espansione e, di conseguenza, le spinte alla concorrenza fra Stati europei e fra questi e l’America. Una situazione indefinita nei Balcani, fonte di eterni conflitti, evita la concorrenza di un’Europa unitaria e la confina al suo interno, fra gli Stati membri, rendendola più acuta. La crisi politica in cui si trovano tutti i governi europei che contano è anche il riflesso degli ineliminabili contrasti esistenti tra i vari paesi.

Un quinto dato lo si legge nella dinamica futura sulla base delle condizioni geostoriche europee ormai consolidate e anch’esse ineliminabili. Già l’azione tedesca (nel senso che la Germania esiste) ha contribuito a provocare il sommovimento balcanico; già l’azione italiana tende a seguire le solite strade verso l’Albania attraverso lo strategico Canale d’Otranto (e prima ancora verso la Libia e il mondo arabo). Per poter essere un’entità diversa da una semplice «espressione geografica», l’Europa dovrebbe adeguarsi alle tendenze storiche, finirla con la finzione atlantica e lasciare l’Inghilterra al suo destino di satellite americano, finirla con l’utopia dello spazio vitale a Nord-Est e prendere atto che la geografia ha disegnato l’economia in troppi millenni per eliminarne le determinanti. Sarà quindi inevitabile una saldatura fra il Centro Europa, palesemente costretto in limiti troppo angusti tra Est e Ovest, e il Sud, verso il Medio Oriente, verso il Mediterraneo. Ma ciò non potrà avvenire in modo unitario, perché più profonde spaccature saranno prodotte proprio dal fatto che qualche paese, come la Francia o la Spagna, sarà costretto a seguire determinanti altrettanto millenarie.

L’esplosione balcanica è la prima avvisaglia di questo processo che è in atto per rompere un accerchiamento reale. Vi saranno ancora mille contraddizioni e mille modi per risolvere questioni locali. Si formeranno e distruggeranno alleanze fra Stati. Ma la tendenza non potrà essere bloccata. Mentre gli Stati Uniti possono ormai pensare la loro strategia senza far più riferimento al territorio, l’Europa non lo può fare: l’Atlantico le è negato, l’Asia le è concorrente, il Nord e l’Est non rappresentano una massa economica sufficiente (per di più la Russia è storicamente nemica dell’Europa come del Giappone). Al Sud, dall’Atlantico all’Iran, vi sono invece paesi giovani e popolosi, entrati da poco nel ciclo capitalistico moderno, promettenti come mercati e come alleati. Ma si tratta di terreno di conquista che si può contendere solo all’America, come dimostra la fine che hanno fatto Libia e Iraq, i paesi che avevano il maggior interscambio con l’Europa. Per questo la guerra balcanica è già guerra mondiale.

Un’opposizione comunista contro la guerra ha senso unicamente quando vi sia consapevolezza che nell’epoca imperialista ogni scontro non è mai un fatto locale. Anche se avviene su di un piccolo territorio fra forze insignificanti, esso è indotto dai rapporti interimperialistici. La guerra borghese, in quanto manifestazione dei conflitti fra gli interessi dei grandi imperialismi, si può evitare solo con la guerra rivoluzionaria. La guerra può essere bloccata da una rivoluzione che l’anticipio può essere trasformata in rivoluzione mentre è in corso, ma sarebbe un assurdo volerla fermare con azioni che esulano dalla sua natura. D’altra parte, per quanto siano orrende le carneficine della guerra, gli stessi bollettini borghesi ci indicano che esse provocano incomparabilmente meno vittime e profughi dell’esistenza «normale» del capitalismo in sé. E questo vale anche per lo spreco economico. Occorre perciò lottare costantemente non solo contro le borghesie più o meno in grado di essere imperialiste e contro le partigianerie, contro i separatismi, contro i partiti e i movimenti democratici, ma anche contro ogni mistificazione che porti a supporre del tutto arbitrariamente che la sanguinosissima «pace» borghese sia più desiderabile della guerra di classe.


Source: «Quaderni Internazionalisti», aprile 1999

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