Il rapporto tra agricoltura e capitalismo presenta analogia col rapporto tra sfruttamento minerario e capitalismo, e risale alle grandi questioni storiche sulla ricchezza economica: viene questa dalla natura o dall’arte, da madre terra o dal lavoro dell’uomo?
La rendita del sottosuolo è una rendita fondiaria. Quali ne siano i limiti e la misura, e dove cominci il reddito del lavoro umano e il moderno profitto del capitale, quali classi ne godano e quali poteri la governino: anche su questo passo sociale della storia economica solo il marxismo ha visto chiaramente. Dopo le sue scoperte la Scienza, scienza di classe, vi ha studiato e lavorato molto, al fine di confondere e di mentire.
Non inventiamo l’applicazione del termine fondiario alle risorse estrattive.
«Sottraendo la somma complessiva di tutti i valori utili che sono nascosti in una merce, resta sempre un residuo materiale che viene dalla natura senza alcuna azione dell’uomo. Nella sua produzione, l’uomo non può procedere altrimenti che la stessa natura, cioè cambiando la forma della materia».
Ciò nel Capitolo I del «Capitale».
«Il lavoro non è dunque l’unica sorgente dei valori d’uso che esso produce, della ricchezza materiale».
Neanche Marx dice di aver scoperto tanto; se ne rifà ad uno dei fondatori dell’economia classica borghese, Petty:
«Il lavoro ne è il padre, la terra la madre».
E cita ancora Pietro Verri che nel 1773 scrive suggestivamente:
«tanto è riproduzione di valore e di ricchezze se la terra, l’aria e l’acqua si trasmutino in grano, come se colla mano dell’uomo, il glutine di un insetto si trasmuti in velluto, o alcuni pezzetti di metallo si organizzino a formare un orologio a ripetizione».
Che l’economia debba trattare alla stessa stregua l’apporto vegetale e quello minerale della terra, la resa del suolo e del sottosuolo, si legge in Marx più volte. Nel Capitolo V:
«Tutte le cose che il lavoro non fa che togliere dalla loro immediata connessione colla terra, sono oggetti di lavoro, grazie alla natura; così il pesce che la pesca strappa dal suo elemento di vita, l’acqua; la legna tagliata nella foresta vergine; il minerale estratto dal suo giacimento».
Anche poco più oltre, e si voglia notarlo, viene assimilato l’oggetto ricavato nell’industria estrattiva a quello dell’agricoltura
«che si limita a dissodare terreni ancora vergini».
Nel Capitolo XIII si trova un rilievo interessante:
«L’industria mineraria si distingue dalle altre industrie per questo fatto eccezionale, che in essa gli interessi del proprietario fondiario e del capitalista imprenditore si danno la mano».
E quando tratta della trasformazione del plusvalore in capitale Marx dice:
«Nell’industria estrattiva diretta ad ottenere le materie prime, ad esempio quella delle miniere, le stesse non entrano come parte costitutiva delle anticipazioni del capitale, perché in essa l’oggetto del lavoro non è già il frutto di un lavoro anteriore, bensì il gratuito dono della natura: carbone, metallo, pietra, ecc.».
Nell’agricoltura nuove relativamente lievi anticipazioni di semi, concimi e simili pervengono ad ulteriori accumulazioni superiori agli interventi di capitale addizionale; e viene qui il passo centrale altra volta da noi riportato, ma che non sarà mai abbastanza ridetto:
«Noi arriviamo a questo risultato generale che il capitale, incorporandosi la forza lavorativa e la terra, queste due primigenie fonti della ricchezza, acquista una potenza di espansione che gli permette di aumentare i suoi elementi di accumulazione oltre i limiti apparentemente fissati dalla sua grandezza, vale a dire oltre il valore della massa di oggetti prodotti, nella quale esso consiste, (ad litteram: confini apparenti, posti a mezzo del valore e della massa dei già prodotti mezzi di produzione, nei quali esso (capitale) ha la sua consistenza (Dasein)».
È il «magico» potere del Capitale, che è potere del lavoro sociale, da strappare al capitalismo, non perché la magia si disperda, ma perché serva all’uomo, alla sua gioia e al suo riposo.
Ancora più avanti Marx riporta dalle relazioni inglesi ufficiali la spiegazione del perché i minatori siano alloggiati in modo bestiale. Alla costruzione di queste fetide baracche presiedeva
«l’avversione del capitalista per ogni spesa che non sia assolutamente inevitabile».
Abbiamo qui le due figure: il concessionario della miniera (imprenditore capitalista) ed il proprietario fondiario. Il primo si scusa col dire che se il secondo gli dovesse cedere, non solo il poco spazio per forare la superficie e accedere alle viscere della terra, ma anche quello per un villaggio operaio, pretenderebbe canoni troppo onerosi. Sappiamo che ad opera del dimissionario ministro Bevan i minatori hanno oggi in Inghilterra eleganti cottages con ogni moderno comfort; e sapevamo già, per evitare che tanto ci incantasse, dal carteggio Marx-Engels, come si fa
«a condurre le cose in modo da avere, a lato della borghesia, una aristocrazia borghese e un proletariato pure borghese».
Ma ora si tratta delle miniere persiane e non inglesi, e noi attenderemo il resto del
«tempo più o meno lungo che occorre per la liberazione degli operai inglesi dalla loro corruzione borghese».
Per la intelligenza del tema è dunque lecito trattare della questione delle miniere con la dottrina della rendita fondiaria. La possiamo cercare fin nelle pagine dell’Anti-Proudhon 1847, come dell’«Anti-Dühring» 1878, e nel Volume III del «Capitale». Da ripetitori di piccolo tonnellaggio, ci serviremo della trascrizione di Lenin.
«Il prezzo di produzione dei prodotti agricoli, a causa della limitatezza della superficie della terra che nei paesi capitalistici è interamente nelle mani di singoli proprietari, è determinato dai costi di produzione non in un terreno medio, ma nel terreno peggiore; non nelle condizioni medie ma nelle peggiori di trasporto sui mercati. La differenza tra questo prezzo ed il costo di produzione dei terreni migliori o in migliori condizioni (costo che risulta minore; la traduzione di cui ci serviamo dice male: prezzo di produzione sui terreni migliori) costituisce la rendita differenziale. Marx mise in piena luce l’errore di Ricardo che faceva derivare la rendita differenziale dal trasformarsi di terreni buoni in terreni cattivi e dimostrò quale profondo errore sia la ‹legge della produttività decrescente del terreno› che tendeva a scaricare sulla natura i difetti, la limitatezza e le contraddizioni del capitalismo».
Lenin chiarisce che la proprietà privata della terra crea il monopolio che impedisce il livellarsi dei prezzi al minimo corrispondente al costo di produzione; questo margine dà al proprietario la rendita assoluta. Questa ha dato sempre fastidio non solo ai teorici dell’economia capitalista, ma anche al regime capitalista.
«La rendita differenziale non può essere soppressa in regime capitalista; la rendita assoluta può invece essere soppressa, per esempio, con la nazionalizzazione della terra, col passaggio della terra in proprietà dello Stato. Questo passaggio della terra allo Stato significherebbe la rovina del monopolio dei proprietari privati, una libertà di concorrenza più conseguente e più ampia per l’agricoltura. Ecco perché, osserva Marx, più di una volta nella storia i borghesi radicali hanno sostenuto questa rivendicazione progressiva della nazionalizzazione della terra, la quale spaventa però la maggioranza della borghesia perché ‹tocca› troppo da vicino un altro monopolio particolarmente importante e sensibile, il monopolio dei mezzi di produzione in generale».
Tante volte si è mostrato sui testi classici che la società odierna si fonda su due monopoli, spettanti a due classi; proprietari fondiari e capitalisti, e sulla «terza» classe dei lavoratori, vittima di entrambi i monopoli.
Nella produzione agraria, come lo spiega e rispiega Engels, alla classe dei proprietari va la rendita fondiaria; alla classe dei capitalisti che apportano macchine, semi, concimi, capitale di esercizio, va il profitto d’impresa; alla classe dei lavoratori che dà la propria opera, il salario. Il guadagno del fittuario non è rendita, e tanto meno mercede di lavoro, ma profitto di capitale. Non meno nota è la partizione, ricordata da Lenin anche qui, del plusvalore estorto al salariato tra rendita, profitti e altri benefizi di ceti passivi.
Ricardo polemizzava contro i fisiocrati e deprezzava l’apporto di natura per esaltare quello dell’industria; il fisiocrate Quesnay nel suo famoso Quadro economico, brillante tentativo di presentare tutta la circolazione economica di una società scarsamente capitalistica, si degnava appena di considerare sterile la classe industriale, in cui riuniva imprenditori e operai; essi non facevano che trasformare dati oggetti, consumando per il loro sostentamento tutto il valore che aggiungevano alle materie ricevute. Produttiva era la sola classe agricola, di contadini e fittuari che coltivavano la terra; passiva la classe dei signori terrieri, gente di corte e burocrazia di Stato, nonché militari e preti, che si limitavano a consumare la rendita avuta dalla terra senza nulla restituire.
Quesnay capì dunque il vantaggio del monopolio della terra, ma non quello enorme del monopolio del capitale impianti. Cortigiani, funzionari, militari e sacerdoti gli rispondevano che la difesa del possesso terriero entro dati confini, condizione di ogni produzione agraria, ben meritava una remunerazione dell’ingranaggio a ciò in varie forme e modi dedicato.
Ricardo nega che la nazione possa vivere del solo prodotto naturale della terra, che anzi tende a decrescere, e dà al lavoro organizzato il vanto di assicurare nuove fonti di ricchezza.
Marx accetta la dottrina che fonte del valore è il lavoro, ma mostra che il salario non compensa tale «virtù» che in parte, e che sull’apologia del lavoro e della progredita tecnica si è eretto un nuovo monopolio e un nuovo sfruttamento: quello della classe degli intraprenditori e dei borghesi.
Rendita fondiaria e profitto d’impresa vivono entrambi nel «quadro» della moderna società; entrambi sorgono dallo sfruttamento della classe che lavora. Una classe è attiva, due passive, e l’alleanza di queste dirige la società.
Di gran lunga più virulento è lo sfruttamento della classe imprenditrice; è a questa che il proletariato salariato deve strappare il potere e la direzione dell’economia. Questa resterebbe prettamente capitalistica, se la classe dei proprietari fondiari fosse eliminata. I borghesi tuttavia non lo farebbero che pagando il prezzo del suolo e di ogni altro immobile con moneta circolante suscettibile di investirsi come capitale industriale, e sorta dal plusvalore e da quella parte di esso che affluisce, in ogni moderno paese, nel tesoro statale.
La forma moderna è la trasposizione di questa proprietà immobiliare privata a proprietà statale, salvo allo Stato di dare sottosuoli o fabbricati in concessione a imprenditori. La forma della frammentazione in piccoli godimenti è stata altre volte criticata come deteriore e reazionaria: Lenin nel citato scritto di propaganda Carlo Marx cita al riguardo passi decisivi, mostrando che al piccolo coltivatore proprietario finisce col rimanere nel più dei casi margine inferiore al salario, che per lo stesso sforzo e tempo di lavoro compete al bracciante senza terra, proletario puro.
Deviamo un poco dall’argomento per dare questo passo veramente significativo. Marx scrive nel 1867, Lenin cita nel 1913, noi diciamo, copiando, che è, nel 1951, da tutti i lati delle cortine di ferro, oro colato.
«La piccola proprietà terriera esclude per la sua stessa natura lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro… La cooperazione, ossia l’associazione di piccoli contadini, pure esercitando una funzione progressiva borghese di prim’ordine, attenua soltanto e non sopprime questa tendenza (alla dispersione dei mezzi di produzione e dei produttori); né si deve dimenticare che queste associazioni danno molto ai contadini agiati e pochissimo o quasi nulla alle masse di contadini poveri, e che, in seguito, queste stesse associazioni divengono sfruttatrici di lavoro salariato».
«Un enorme spreco di energia umana, un peggioramento progressivo delle condizioni della produzione e il rincaro dei mezzi di produzione sono legge inevitabile della piccola proprietà».
L’alta politica stalinista risolve ogni giorno alti quesiti di vita politica, ma sta evidentemente al disotto di quello di sapere dove ha la testa e dove la coda. Che sia progressiva, è certo, ma verso quale dei due poli?
Queste nozioni base sul rapporto tra terra ed industria umana vanno applicate al caso persiano ed alla sciocca apologia della gestione «nazionale» dei pozzi di petrolio che si vanta voler sostituire a quella della capitalistica impresa della Anglo-Iranian.
Il principio di demanialità del sottosuolo è stato ad esempio introdotto in Italia dalla legge fascista del 1928. Fu rilevato che dal 1860 erano abortiti in materia ben 22 disegni di legge con cui si voleva unificare la legislazione preborghese. In alcuni Stati vigeva il principio regalistico, ossia le miniere erano proprietà del Principe; in altri quello industriale che le attribuiva al più diligente ricercatore e imprenditore, in altri quello fondiario che le attribuiva al proprietario della superficie, e che è conforme al puro diritto romano secondo cui chi ha il suolo può elevarsi fino al cielo e scavare fino all’inferno.
Lo Stato quindi dà i giacimenti in concessione al ricercatore o ad un gerente bene attrezzato; al proprietario del suolo spetta solo la indennità di esproprio per i fabbricati ed impianti esistenti fuori terra per il servizio degli imbocchi di miniera.
Lo scopritore di un giacimento o l’imprenditore minerario che ottiene la concessione fa naturalmente a sue spese i lavori non solo di ricerca ma di apertura dei pozzi e gallerie, e costruisce tutti gli impianti che occorrono sopra e dentro la terra, come torri, elevatori, macchine, impianti di acqua ed energia elettrica, tubazioni di ogni genere per aerazione, estrattive di liquidi nocivi o utili, di gas ecc. ecc. Nella legge italiana, mentre il giacimento è considerato demaniale, tali impianti sono regolati dalle norme sui beni immobili, e possono cioè essere di proprietà privata sebbene siano «pertinenze» inseparabili dall’esercizio della miniera.
Evidentemente la nazionalizzazione della «industria» mineraria è un passo più avanzato della semplice demanialità del sottosuolo o del giacimento minerale. Con la nazionalizzazione l’industriale perde anche la proprietà privata di pozzi, torri e macchine. Ma evidentemente, in regime capitalistico, mentre lo Stato espropriante non ha dato indennità alcuna al proprietario immobiliare della superficie del suolo per il carbone, ferro o petrolio toltogli «di sotto», la indennità sarà invece data alla compagnia privata che ha fatto torri, tubazioni, macchinari e così via, dal giorno che lo Stato ne prende il possesso.
Nel caso persiano, di che cosa era fino ad oggi proprietaria la compagnia sfruttatrice delle miniere? Essa ha portato il suo denaro, e quando il denaro si trasforma in capitale ciò avviene
«secondo le leggi della produzione mercantile e secondo il diritto di proprietà che ne risulta».
E il primo risultato è questo (Marx, Cap. XXII): Il prodotto appartiene al capitalista e non al produttore. Gli altri due punti discriminanti sono: 2. Il valore del prodotto contiene un plusvalore che, tratto dal lavoro dell’operaio, diviene proprietà del capitalista. 3. L’operaio riceve in salario quanto basta a riprodurre la sua forza di lavoro. Oltre questi tre, non sono punti cruciali la proprietà, il diritto sull’impianto, la macchina e il suolo (o sottosuolo). Marx in molti punti ricorda che nella stessa Inghilterra del suo tempo molte volte l’imprenditore, il proprietario dello stabilimento, il proprietario del suolo su cui sorge, sono persone giuridicamente e fisicamente distinte.
Che cosa voleva e teneva ad avere l’Anglo-Iranian? È semplice, il petrolio. Il petrolio fatto merce, cioè scoperto, estratto, imbarcato, e permutabile in moneta su tutti i mercati del mondo.
Il petrolio fino a che era minerale puro poteva dunque in teoria essere un bene soggetto al diritto di proprietà del dio Orzmud, del Profeta, dello Scià, dello Stato di Teheran, o di un signorotto locale. Non era mai stato proprietà di un artigiano o di un fellah, perché non lo si può estrarre un bicchiere per volta.
L’attivo dunque dell’impresa petrolifera britannica era il ricavato della vendita di nafta greggia o raffinata. Al passivo stavano, prima di tutto, certi canoni pagati allo Stato persiano; non siamo abbastanza addentro ai dettagli per sapere se ne pagassero anche a sultanati o capi tribù periferici. Poi tutte le spese: costo e mantenimento di complicati impianti tecnici, salari di lavoratori locali, salari e stipendi di specialisti europei, spese di trasporto sulle apposite flotte, spese degli impianti di trasformazione e raffinamento, tasse, spese generali diverse, e così via.
Il canone pagato al centro statale persiano era già fortissimo: in pratica il principale gettito del bilancio, con cui tutta una burocrazia centrale, che probabilmente di petrolio non ne capiva un’acca, era mantenuta nella capitale, nel quartiere ricco, e se la godeva in barba alle moltitudini di straccioni che formano la maggioranza della popolazione. Ma i guadagni della compagnia erano ancora più astronomici, e i persiani seppero che le sole imposte che essa pagava sui suoi profitti allo Stato… di Londra, formavano una cifra superiore al canone pagato a Teheran.
E allora il governo persiano ha pensato, non di chiedere un semplice aumento di canone, ma di incamerare egli stesso la gestione e il profitto dell’industria estrattiva.
Consideriamo quindi la contesa su questo grosso blocco da spartire tra i contendenti; ed i «diritti» di ciascuno. Non intendiamo seguire il complesso profilo giuridico, ma esaminare gli effettivi controlli materiali delle parti in lotta sui fattori della lavorazione. Giuridicamente è un affare difficile: secondo gli inglesi è violato il diritto internazionale; secondo i persiani il governo inglese non è parte in causa: ogni Stato può espropriare un’azienda esistente sul suo territorio e in base alla propria legislazione interna; voi governo laburista avreste rinunziato a nazionalizzare una delle vostre miniere, se tutte le azioni le avesse avute un persiano? In pratica la compagnia dice: voi avete il petrolio entro terra, bene, tenetelo. Voi volete prendere possesso delle torri, macchinari, oleodotti, vietandoci colla polizia di smontare tutto e portarlo via, e liquidandoci il costo; sia pure, anche questo non è facile impedirlo a meno che la flotta inglese non vi metta il territorio costiero sotto il tiro dei suoi cannoni; casus belli, forse mondiale. Voi avete la manodopera non qualificata o poco qualificata locale, e sia pure. Ma se noi portiamo via i nostri tecnici, ingegneri, amministratori, e tutto l’ingranaggio del rapporto coi consumatori e clienti in tutto il mondo, e di più portiamo via le navi che sono nostre, come farete ad estrarre e vendere il petrolio?
Il governo persiano prima di rompere e di tentare di trovare altrove tecnici e commercianti e armatori, poniamo americani o russi, propone una intesa. Voi compagnia Anglo-Iranian conserverete, non la proprietà, ma la concessione dei pozzi petroliferi e di ogni altro impianto. Seguirete ad esercirli col vostro personale e colla vostra organizzazione tecnica e commerciale. Ma anziché un semplice canone fisso equivalente alla facoltà di estrarre petrolio, faremo un contratto in compartecipazione: a noi i tre quarti, a voi il quarto degli utili. Se è vero che il petrolio non si estrae senza i vostri impianti, è altrettanto vero che essi a secco di petrolio non hanno che valore di rottame di ferro e legno o altro. Quale il rapporto di stima dei due capitali? Difficile quesito.
Le autorità persiane considerano la legge esecutiva e hanno chiesta la consegna degli impianti tutti; ora si dice che esigano il versamento dei tre quarti degli «introiti»; ma si tratta evidentemente di un quarto degli utili. Non crediamo, col giro immane di merce, denaro e credito su piazze del mondo intero di una simile gestione, che sia facile individuare sia gli incassi che il margine di utile netto…
Se la vedranno ad Abadan; comunque si tratta del solito problema; spartizione tra classi dominanti di un profitto messo insieme dalle varie fonti della ricchezza: madre natura che accumulò petrolio nel sottosuolo; minatori che lo estraggono; progresso tecnico produttivo che ha reso la difficile operazione possibile e vantaggiosa.
Quanto lo Stato di Teheran pretende, lo possiamo chiamare una «rendita fondiaria assoluta» del petrolio. Inoltre esso forse pretende una «rendita differenziale», se si verifica che il petrolio persiano si estrae più facilmente (poniamo) di quello arabo, e si vende sui mercati come quello. Se poi espropria e paga alla compagnia il valore capitale degli impianti fissi, in compenso pretenderà certo un canone che valga l’affitto di quell’attrezzaggio, e che in un certo senso anche esso è rendita e non profitto, se consideriamo impianti fissi al suolo. Oltre tutta questa rendita rimane, dicono i persiani, un ulteriore profitto di intrapresa che premia voi compagnia dei capitali di esercizio che anticipate, della vostra organizzazione e clientela mondiale.
Avvenga questa spartizione nel rapporto di tre quarti di rendita e un quarto di profitto, o in altro rapporto; sia questo o meno frodato dalla compagnia capitalista, che tutto gestirebbe ed amministrerebbe, sotto dubbi e venali controlli, nulla con tutto questo trapasso ha a vedere il socialismo. Nulla muterà per il trattamento del minatore persiano e nulla peserà lo Stato in meno sul piccolo contadino o pastore dell’Iran. Il contrario resterà possibile, soprattutto se avverrà la rottura e la crisi dell’industria contesa. La fase della demanializzazione del suolo, del sottosuolo, del soprasuolo magari, potrà essere una fase di avanzato capitalismo che affretti «la ruota della storia». La «rendita assoluta» terriera che fosse incorporata di forza, poniamo, dal capitalismo industriale potente d’Inghilterra, andrebbe ad intensificare la concentrazione delle forze produttive, di cui si dovrà impadronire la rivoluzione proletaria – ben altra cosa da un ministero di S. M. britannica.
In Persia abbiamo solo una sciocca parodia. Non vi è un tessuto industriale, non vi è una classe borghese autonoma indigena che possa trascinare le masse – sempre nel suo materiale interesse – ad una fiammata nazionale che ricalchi quelle europee di un secolo addietro, e spiani la via ad un moderno proletariato.
Le dimostrazioni persiane sono una grossa corbellatura. La patria persiana non viene invocata che per il successo di una locale banda di affaristi ex burocrati che vogliono portare nel proprio piatto una grossa polpetta, e a cui nulla importa nel raggiungere tale scopo se non solo le condizioni generali di benessere, ma il processo di sviluppo del paese, avesse a regredire ed invertirsi.
È veramente formidabile la pretesa che i lavoratori avanzati ed i seguaci del marxismo rivoluzionario in tutto il mondo debbano tripudiare per tali movimenti, e scambiare questa flaccida e artificiale xenofobia per la formazione di un altro compartimento stagno di socialismo in costruzione!
Questi stalinisti da una parte si riservano il diritto di correre in aiuto del progresso capitalistico e borghese contro le minacce di reversioni feudali, e con questo argomento si danno a rifare risorgimenti nazionali in Europa, guerre di liberazione, e blocchi di lotta antidispotica – rinviano ogni cinque minuti la lotta per il potere proletario, al fine di salvare le conquiste borghesi, e ci insegnano marxismo, rinfacciando che il socialismo mai verrà, se il capitalismo non si perfeziona e diffonde contro i tentativi della «reazione».
Quando poi a loro fa comodo, dimenticano che il capitalismo partì dal commercio e dalla conquista di oltremare, dalla circumnavigazione del mondo, dagli stabilimenti sulle coste di colore, e senza le compagnie anche corsare saremmo ancora nell’Europa medievale e feudale.
Dimenticano le parole di Engels quando per dimostrare il socialismo possibile egli ricorda:
«L’industria precapitalistica si è resa già relativamente (1878!) indipendente dalle barriere locali dei centri di produzione della materia prima. L’industria tessile lavora materia prima in gran parte importata. Il ferro spagnolo è lavorato in Inghilterra e Germania, il rame spagnolo e sudamericano in Inghilterra, su tutta la costa europea le macchine dei piroscafi sono alimentate dal carbone inglese… La società liberata dalle barriere della produzione capitalistica può andare ancora molto più innanzi!»
Già il capitalismo è andato più innanzi, ma oggi questi cagliostri che tengono scuole di marxismo trovano che è meglio andare indietro, e tripudiano se si nega agli inglesi il petrolio persiano.
Dobbiamo ingurgitare un compartimento stagno di socialismo anche in Persia? Dobbiamo rimangiare perfino l’internazionalismo, che non ha fatto paura alle grandi borghesie?
Dovevamo trangugiare un socialismo entro barriere, con capitale Mosca; ma almeno non vi si agitava un mollusco come quello del ministro Mossadeq chiuso nell’aula «sorda e grigia» di un parlamento da operetta. Almeno c’erano 150 milioni di uomini, terra, industria, miniere, progetti colossali tecnici ed industriali, piani economici a gran respiro. Almeno la tradizione di una grandissima rivoluzione e di un partito glorioso, sia pure sfruttate senza diritto. Ed almeno un capo del governo che una volta leggeva Marx, Engels e Lenin, ed ometteva le abluzioni ai piedi prima di aprire il Corano.
Questo ultimo parodistico, ciarlatanesco modellino di «socialismo in una sola nazione», era quello che ci voleva, per chi non ha ancora capito che anche il modellone non è che una boiata.