LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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DIALOGATO CON STALIN (II)


Content:

Dialogato con Stalin
Giornata seconda
Chiari e scuri
Società e patria
Legge e teoria
Natura e storia
Marx e le leggi
Socialismo e comunismo
Source



Sul filo del tempo

Dialogato con Stalin

Giornata seconda

Tema principale della prima giornata di discussione dei temi su cui Stalin ha dato risposta alle nostre trattazioni e chiarificazioni marxiste, per la precisa definizione della attuale economia in Russia, fu il contestare che possa esservi compatibilità tra produzione di merci ed economia socialista. Per noi ogni sistema di produzione di merci nel mondo moderno, nel mondo del lavoro associato, ossia del raggruppamento dei lavoratori in aziende di produzione, definisce economia capitalista.

Nel seguito verremo sulla questione degli stadi dell’economia o meglio della organizzazione socialista, e sulla distinzione tra forma inferiore e superiore del comunismo. Premettiamo ora che al centro della nostra dottrina (per venire sul terreno storico, uscendo dalle definizioni di sistemi «immobili» e quindi astratti) sta la dichiarazione che il passaggio da economia capitalista a socialismo non avviene in un colpo solo, ma in un lungo processo. Va quindi ammesso che possa esservi coesistenza di settori ad economia privata con settori ad economia collettiva, di campi capitalistici (e precapitalistici) con campi socialistici, e per assai lungo periodo. E fin d’ora precisiamo: ogni campo o settore in cui circolano merci, che riceve o vende merci (e tra queste la forza umana di lavoro) è ad economia capitalista.

Ora Stalin dichiara nel suo testo (noto oggi in esteso ed in originale) che il settore agrario russo è mercantile – e conferma che è ad economia privata anche come possesso di dati mezzi di produzione – e tenta di sostenere che il settore industriale (grande industria) non produce merci se non quando fabbrica beni di consumo e non «strumentali»; tuttavia vuole affermare che non solo il settore grande industria, ma il complesso dell’economia russa, può definirsi socialistico, sebbene sopravviva largamente la produzione mercantile.

Abbiamo ampiamente risposto su tutto ciò ricordando il nostro copioso materiale di ricerca sui testi di base del marxismo e sui dati della storia economica generale, e di questo ultimo secolo, ed oggi dobbiamo passare alla questione delle «leggi economiche» e della «legge del valore».

Chiari e scuri

Ma prima occorre rilevare dal testo in esame il fatto che, davanti ad obiezioni che ricorrevano ad Engels per stabilire che allora si esce dal capitalismo quando si esce dal mercantilismo, ivi si supera il primo ove si supera il secondo, Stalin si limita a cercare di leggere diversamente un solo passo, laddove la tesi e da Engels sviluppata (servendosi magnificamente, magistralmente, allo scopo dello… stalinista Dühring) in tutta la parte «Socialismo», e nei capitoli, dove abbiamo tante volte attinto citazioni: Teoria, Produzione, Distribuzione.

Il passo di Engels dice:
«Con la presa di possesso da parte della società dei mezzi di produzione è eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori».

Il distinguo forse (forse) può passare per abile, ma dottrinalmente, è sbagliato. Engels, osserva Stalin, non dice se si tratta del possesso di tutti i mezzi di produzione o, di una parte. Ora solo la presa di possesso sociale di tutti i mezzi di produzione (industria grande e piccola, agricoltura) permette di abbandonare il sistema di produzione di merci. Caramba!

Abbiamo con Lenin (e Stalin) sudato, intorno al 1919, settemila camicie a far entrare nella dura testa di socialdemocratici e libertari che i mezzi di produzione non si potevano conquistare in un giorno per colpo di bacchetta magica, e che proprio per questo, e solo per questo, ci voleva Suo Terrore la Dittatura; ora stamperemmo manuali di Economia Politica per ammettere l’enormità che tutti i prodotti perderanno il carattere di merci in un colpo solo, nel giorno in cui un funzionario salito al Kremlino sottoporrà alla firma dello Stalin di quel tempo lontano il decreto che espropria l’ultima gallina dell’ultimo componente dell’ultimo colcos.

In un altro luogo Engels parla del possesso di tutti i mezzi di produzione, e quindi ci sentiamo narrare che la sopraddetta formula di Engels «non si può considerare del tutto chiara e precisa».

Per le corna del profeta Abramo, questa e forte! Proprio Federico Engels, il riflessivo, il sereno, il definitivo, il cristallino Federico, il primatista mondiale di paziente raddrizzamento di gambe ai cani e di storture dottrinarie, l’inarrivabile, per modestia e per valore, secondo del burrascoso Marx, che talvolta per il corruscar dello sguardo e del linguaggio viene trovato tenebroso, e nella stessa strapotenza è forse – forse – più falsificabile; il Federico, la cui prosa scorre limpida senza urti come l’acqua della fonte, e che per naturale dono, oltre che per esercitato rigore di scienza, non omette nessuna parola necessaria, né alcuna ne aggiunge superflua, viene tacciato di difetto di precisione e di chiarezza!

Carte in regola: qui non siamo nell’orgbureau e nel comitato di agitazione, ove forse, o ex compagno Giuseppe, avreste potuto guardare Federico da pari a pari. Qui siamo a scuola di principii. Dov’è che si dice della presa di possesso di tutti mezzi?

Dove si parla di merci, forse? Mai più. Questa, Engels ricorda, questa presa di possesso di tutti i mezzi di produzione, fin
«dalla comparsa storica del modo di produzione capitalistico si è più o meno, oscuramente presentata come ideale futuro dinanzi agli occhi di individui o di sette».

Non giochiamo tra chiarezza e oscurità. Appunto per noi non è più questione di ideale ma di scienza.

E se più oltre Engels riparla della società padrona di tutti i mezzi di produzione, è proprio nel passo che tratteggia l’insieme di rivendicazioni, che a fondo trattammo nella ricordata riunione a Roma, in quanto solo con tale risultato si arriverà alla emancipazione di tutti gli individui. Engels qui mostra come le richieste: annullamento della divisione tra città e campagna, tra lavoro intellettuale e manuale, della divisione sociale e professionale del lavoro (Stalin ammette le prime due ma pretende, con altro grave sbaglio in dottrina, che questo problema non sia stato posto dai classici del marxismo!!) siano già proposte dagli utopisti e vigorosamente da Fourier e da Owen, con limitazione a tremila anime dei centri abitati, con assoluta alternanza di occupazioni manuali e intellettuali per lo stesso individuo. Engels dimostra come tali giuste e generose richieste mancassero della dimostrazione che apporta il marxismo: ossia della loro possibilità sulla base del grado di sviluppo delle forze produttive oggi raggiunto (e ormai superato) dal capitalismo. Si tratta qui di anticipare la suprema vittoria della rivoluzione, si descrive quella «organizzazione in cui il lavoro non sarà più un peso ma un piacere», e si ricorda l’esauriente dimostrazione già da noi illustrata – e classica, perdio! – nel XII Capitolo del «Capitale» sulla distruzione della divisione del lavoro nella società e del dispotismo nell’azienda, abbruttitore dell’uomo; riguardi nei quali Stalin o Malenkov non possono narrare di aver fatto alcun passo, poiché invece, come Stakhanovismo e Sturmovscina (dialettica reazione al primo di poveri bruti schiacciati nell’azienda divinizzata) stanno a provare, la marcia è nella direzione del più pesante capitalismo.

Stalin in effetti minimizza quei postulati riducendoli alla «eliminazione dei contrasti di interessi» tra industria e agricoltura, tra operaio manuale e dirigente tecnico. Si tratta di ben altro! Di abolire nella organizzazione sociale la ripartizione fissa degli uomini tra quelle sfere e quelle funzioni.

Dove mai quei passi di Engels autorizzano a dire che, per costruire questo edificio immenso della società futura, ogni colpo di piccone non debba distruggere una posizione del mercantilismo, travolgendone una dopo l’altra le ammorbanti trincee?

Non possiamo di certo ripetere qui a Stalin quegli interi capitoli, e al solito citeremo i passi centrali, perché chiarissimi e indiscutibili, e non per accettarli cum grano salis. Sappiamo come quei granellini sono diventati montagne, per antica esperienza.

Engels:
«Lo scambio di prodotti di uguale valore, espresso da lavoro sociale, l’uno con l’altro – quindi la legge del valore – è appunto la legge fondamentale della produzione delle merci, e quindi anche della forma più elevata di essa, della produzione capitalistica».
Segue il notissimo richiamo che Dühring, con Proudhon, concepisce la società futura come mercantile, e non si avvede che con questo descrive una società capitalistica. Immaginaria, dice Engels. Stalin ne descrive, in testo non disprezzabile, una reale, modestamente diciamo noi.

Marx: «Immaginiamoci un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e usino secondo un piano prestabilito le loro numerose forze individuali come una sola e identica forza di lavoro sociale».

A Napoli commentammo parola a parola, mostrando che questo iniziale paragrafo è tutto un programma rivoluzionario. Si ritorna, con l’arrivo futuro a questa forma di sociale organizzazione, lapidariamente definita – il comunismo! – a Robinson, da cui si è partiti. Che vuol dire?

Il prodotto di Robinson non era merce ma solo oggetto di uso, non essendo nato – of course – lo scambio. Travalicata con volo d’aquila tutta la storia umana: «Tutto ciò si riproduce qui socialmente ma non individualmente». Qui; nella detta associazione comunista. Il solo manuale che ci occorre è il manuale per imparare a leggere! E si legge: di nuovo il prodotto del lavoro cessa di essere merce quando la società è socialista. E Marx passa a paragonare questo stato di cose (il socialismo) colla produzione mercantile, mostrando che questa è il suo dialettico, perfetto, feroce e inconciliabile contrario.

Società e patria

Eppure prima di abbordare il punto delle leggi dell’economia, occorre ancora dire qualcosa sulla staliniana versione della presentazione del programma socialista scolpita da Engels in quei capitoli. Ne è tanto più il caso in quanto Stalin, nel confutare opinioni di diversi economisti russi, lungi dal tentare oltre intacchi e revisioni del classico testo, ne riporta interi brani, esprimendo aspra condanna di partito per ogni violazione della completa ortodossia in tale materia.

In tutti gli sviluppi della fondamentale sua esposizione Engels parla di appropriazione dei mezzi di produzione (e, notiamolo mille volte, in rapporto a ricerche che in materia abbiamo dedicato in questo foglio e in «Prometeo», soprattutto dei prodotti, che oggi dominano il produttore e perfino il compratore: talché noi definiamo il capitalismo, meglio che come sistema della negata disposizione dei mezzi produttivi al produttore, come sistema della negata disposizione dei prodotti) di appropriazione, dunque, sempre da parte della Società.

Nella parafrasi moscovita la «società» scompare, e al suo posto si parla e riparla del passaggio degli strumenti produttivi allo Stato, alla Nazione, e quando si vuole proprio commuovere al Popolo – nei discorsi poi di chiusura, suscitanti le ovazioni di rito, alla Patria socialista!

Fatto il bilancio della descrizione staliniana, non senza riconoscerle il pregio di essere brutalmente aperta (si perde il pelo… con quel che segue), la presa di possesso degli strumenti produttivi appare puramente giuridica, in quanto, ogni suo effetto si limita alle pagine dello Statuto dell’artel agricolo statale o dell’ultima (in revisione) Carta costituzionale dell’Unione, per ciò che riflette la terra, e il grande macchinario e attrezzaggio dell’agricoltura, atteso che alla declaratoria sulla proprietà legale non segue la disposizione economica dei prodotti agrari, divisi tra colcos collettivi e singoli colcosiani. È, tale presa di possesso, effettiva solo per la grande industria, perché solo dei prodotti di questa lo stato dispone, ed anzi rivende quelli che sono prodotti di consumo. Non esiste, la presa di possesso pubblica, non solo per i prodotti ma nemmeno per i mezzi di produzione, rispetto alla media e piccola industria, rispetto alle aziende commerciali, rispetto al minore attrezzaggio della incoraggiata coltura agraria familiare e parcellare. Poco dunque, malgrado le immense officine e le gigantesche opere di pubbliche costruzioni, sta veramente nelle mani e sotto il controllo della Repubblica, che si dice socialista e sovietica, poco è stato veramente statizzato, nazionalizzato in pieno. La dimensione relativa del demanio, rispetto a tutta l’economia, forse in alcuni Stati borghesi è maggiore.

Ma chi, ma quale ente e quale forza ha nelle mani ciò che alle mani private dopo la rivoluzione venne strappato? Il popolo, la nazione, la patria! Mai Engels e Marx usarono queste parole. «La trasformazione in proprietà dello Stato non sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive» afferma Engels nel citato capitolo. Quando sarà la società ad avocare a sé la disposizione dei prodotti, sarà chiaro che questa sarà la società senza classi, che ha superato le classi; e fin che le classi esistono sarà la società organizzata «di una sola classe» in vista dell’abolizione delle classi tutte, e poi anche di quella sola per dialettica conseguenza. Qui si innestò la magistrale chiarificazione della dottrina marxista dello Stato, cristallizzata fino dal 1847.
«Il proletariato si impadronisce del potere dello stato e trasforma prima ai tutto gli strumenti di produzione in proprietà dello Stato (parole di Marx nella citazione di Engels). Ma con ciò esso stesso si annulla come proletariato, con ciò si sopprime ogni differenza e contrasto di classe, e si abolisce anche lo Stato».
Ed allora, e in questo modo, e solo su questa via maestra, è la società che vediamo agire, disporre finalmente delle forze produttive e di ogni prodotto e risorsa.

Ma il popolo, che diavolo è questo? Una ibridazione tra classi, un integrale di succhioni e di schiavi, di professionisti dell’affare e del potere con le masse di affamati e di oppressi. Il popolo lo consegnammo, fin da prima del 1848, alle leghe per la libertà e la democrazia, il pacifismo e il progressismo umanitario. Il popolo non è soggetto di gestione economica, ma solo oggetto di sfruttamento e di inganno, nelle sue pietosamente famigerate «maggioranze».

E la nazione? Altra necessità e condizione base per la costruzione del capitalismo, esprime lo stesso miscuglio delle classi sociali non più nella scipita espressione giuridica e filosofica, ma in quella geografica etnografica o linguistica. Anche la nazione non si appropria di nulla: derise Marx in passi famosi le espressioni di ricchezza nazionale, e di reddito nazionale (importante questo nell’analisi di Stalin sulla Russia) e dimostrò come allora la nazione si arricchisce, quando il lavoratore è fregato.

Se le rivoluzioni borghesi e il dilagare dell’industria moderna al posto dei sistemi feudali in Europa e di ogni altro sistema nel mondo, si dovettero fare non in nome della borghesia e del capitale, ma in nome dei popoli e delle nazioni, se questo fu necessario e rivoluzionario trapasso per la visione marxista, se ne deduce la perfetta coerenza, nelle consegne di Mosca, tra la defezione dal fronte dell’economia marxista, e il ripiegamento dalla «categoria» proletaria, rivoluzionaria e internazionalista di società, usata nei testi classici, alle categorie politiche proprie dell’ideologia e dell’agitazione borghese: democrazia popolare ed indipendenza nazionale.

Nulla quindi da stupire che dopo 26 anni si ripeta la sguaiata consegna davanti alla quale e per sempre tagliammo il ponte: raccogliere le bandiere borghesi che, già in alto al tempo di Cromwell, di Washington, di Robespierre o di Garibaldi, sono poi cadute nel fango, e che invece la marcia della rivoluzione deve affondarvi senza pietà, opponendo la società socialista alle menzogne ed ai miti dei popoli, delle nazioni e delle patrie.

Legge e teoria

La discussione si è portata anche sul confronto delle leggi dell’economia russa con quelle stabilite dal marxismo per l’economia borghese. Il testo in questione si batte dialetticamente su due fronti. Alcuni dicono questo: ove la nostra economia fosse già socialista, noi non saremmo più deterministicamente avviati sull’inesorabile binario di dati processi economici, ma potremmo modificare il percorso: ad esempio nazionalizzando il colcos, sopprimendo lo scambio mercantile e la moneta. Se ci provate che questo è impossibile, lasciateci dedurre che, viviamo in una società ad economia del tutto capitalistica. Che cosa si guadagna a fingere il contrario? Altri invece vorrebbero che si abbandonassero decisamente i criteri distintivi del socialismo fissati dal marxismo teorico. Ad ambo i gruppi procura di resistere Stalin. Questi ingenui ricercatori evidentemente non sono elementi «politici» attivi: la riprova è che in tal caso una facile purga li avrebbe messi nella condizione di non scocciare. Si tratta solo di «tecnici», di esperti dell’attuale ingranaggio produttivo, che sono il tramite unico attraverso il quale può il governo centrale capire se il macchinone va o s’incanta; e se avessero ragione non servirebbe nulla il farli tacere: in una forma o nell’altra la crisi si presenterebbe. La difficoltà che oggi è sorta o meglio è venuta alla luce, non è di natura accademica, critica, o tampoco «parlamentare», perché a ridere di queste punzecchiature basta essere non diciamo un Hitler ma l’ultimo dei De Gasperini. La difficoltà è reale, materiale, sta nelle cose e non nelle teste.

Per poter rispondere bisogna sostenere, da parte del centro di governo, due punti: il primo è che anche in economia socialista gli uomini devono obbedire a leggi proprie dell’economia che non si lasciano trasgredire – il secondo è che queste leggi, se anche nel periodo futuro del comunismo perfetto saranno tutte e del tutto diverse da quelle del tempo capitalistico, stabilite da Marx, nel periodo socialista sono alcune diverse da quelle, alcune comuni alla produzione e distribuzione capitalistica. Ed allora, individuate le leggi che appaiono insormontabili, occorre, pena la rovina, non ignorarle e soprattutto non andare contro di esse.

È sorto poi il problema speciale per quanto essenziale: tra queste, la legge del valore si applica o meno nell’economia russa? E se si, non è capitalismo schietto ogni meccanismo che agisce secondo la legge del valore? Alla prima domanda risponde Stalin: si, da noi la legge vige, per quanto non su tutto il giro dell’orizzonte. Alla seconda: non vi può essere un’economia che, pur non essendo capitalista, rispetta la legge del valore.

In tutto il solenne «saggio» teoretico ci pare che la sistemazione sia alquanto difettosa, e soprattutto comoda per gli avversari polemici del marxismo, per quelli che usano armi «filosofiche» e avranno buon gioco a proposito della sommaria assimilazione tra l’effetto delle leggi naturali e di quelle economiche sulla specie umana, e per quelli economici che ansiosamente da un secolo anelano alla rivincita su Marx, che volevano chiuderci nel cerchio: inutile, alle leggi della resa economica e della concorrenza degli interessi come noi le vediamo, non potrete mai sfuggire.

Dobbiamo distinguere tra teoria, legge, e programma. Ad un certo punto Stalin si lascia andare a dire: Marx non amava (!) astrarsi dallo studio della produzione capitalistica.

Nell’ultima riunione del nostro movimento, il 6 e 7 settembre a Milano, uno dei temi principali è stato il dimostrare che ad ogni passo Marx mostra la finalità, non di descrivere freddamente il fatto capitalista, ma di avanzare il proposito e il programma della distruzione del capitalismo. Non si trattò soltanto di battere quella vecchia sudicia leggenda opportunista, ma di mostrare che tutta l’opera marxista ha natura di polemica e di combattimento, e quindi non si perde a descrivere il capitalismo e i capitalismi contingenti, ma un capitalismo tipo, un sistema capitalistico, sissignori, astratto, sissignori, che non esiste, ma che corrisponde in pieno alle ipotesi apologetiche degli economisti borghesi. Quello che importa è infatti l’urto – urto di classe, urto di parte, non banale diatriba di scienziati – tra le due posizioni: quella che vuole provare la permanenza, l’eternità della macchina capitalista, e quella che ne dimostra la prossima morte. Sotto questo profilo conviene al rivoluzionario Marx ammettere che davvero gli ingranaggi siano perfettamente centrati e lubrificati dalla libertà della concorrenza, dal diritto per tutti a produrre e a consumare secondo le stesse regole. Questo nella vera storia del capitale non fu, non è, e non sarà, e i dati di partenza sono enormemente più favorevoli alla nostra dimostrazione: tanto meglio. Se, per farla corta, il capitalismo fosse arrivato a campare l’altro secolo restando scorrevole e idillico, la dimostrazione di Marx crollava: splende di potenza in quanto il capitalismo vive si, ma monopolista, oppressore, dittatore, massacratore, e i suoi dati economici di sviluppo sono proprio quelli che doveva avere partendo dall’iniziale tipo puro; giusta la nostra dottrina, contro quella dei suoi serventi.

In questo senso, per tutti gli dèi, Marx sacrificò una vita per descrivere il socialismo, il comunismo, e ci sentiamo di dire che se si fosse trattato soltanto di descrivere il capitalismo, se ne sarebbe altamente fregato.

Marx studia e sviluppa dunque si le «leggi economiche» capitaliste, ma in un modo tale, che si sviluppa in pieno e in dialettico contrapposto il sistema dei caratteri del socialismo. Ha dunque questo leggi? Sono diverse? E quali allora?

Un momento, prego. Al centro della costruzione marxista noi poniamo il programma, che e momento ulteriore al freddo studio di ricerca.
«Abbastanza i filosofi hanno spiegato il mondo, si tratta ora di cambiarlo». («Tesi su Feuerbach», ed ogni colto fesso aggiunge: giovanili).
Ma prima del programma e anche prima della indicazione delle leggi scoperte, occorre stabilire l’insieme della dottrina, il sistema di «teorie».

Alcune Marx le trova belle e fatte nei suoi stessi contraddittori, come la teoria del valore di Ricardo, ed anche la teoria del plusvalore. Queste – non intendiamo dire che Stalin non l’abbia mai saputo – sono cose diverse dalle da lui a fondo trattate «legge del valore» e «legge del plusvalore» che, per non confondere i meno provetti, sarebbe meglio dire: «legge dello scambio tra equivalenti» e «legge della relazione tra saggio del plusvalore e tasso del profitto».

La distinzione che ci preme chiarire al lettore vige anche nello studio della natura fisica. Teoria e una presentazione dei processi reali, e delle loro corrispondenze, che vuole facilitare la loro comprensione generale in un certo campo, passando solo dopo alla previsione, ed alla modificazione. Legge è l’espressione precisa di una certa relazione tra due serie di fatti materiali in particolare, che si vede costantemente verificarsi, e che come tale consente di calcolare rapporti sconosciuti (futuri, signori filosofi, o presenti o passati, non vuol dire: ad esempio una certa legge se ben studiata mi può permettere di stabilire quanto era il livello del mare al Tempio di Serapide mille anni fa: sola differenza che non mi potete controllare, come avveniva per quello delle tante code di asino tra la Terra e la Luna). Teoria è faccenda generale, legge faccenda ben delimitata e particolare. La teoria è in genere qualitativa e stabilisce solo definizioni di certe entità o grandezze. La legge è quantitativa, e ne vuole raggiungere la misura.

Un esempio fisico: nella storia dell’ottica si sono alternate con vario successo due «teorie» della luce. Quella dell’emissione dice che la luce è l’effetto della corsa di minime particelle corpuscolari, quella della ondulazione dice che è l’effetto dell’oscillazione di un mezzo fisso in cui si trasmette.

Ora la più facile legge dell’ottica, quella della riflessione, dice che il raggio incidente sullo specchio fa con questo lo stesso angolo del raggio emesso. Verificata mille volte tale legge, il giovane galante sa dove mettersi per vedere la bella di fronte intenta alla toilette: il fatto e che la legge si concilia con tutte e due le teorie, e sono stati altri fenomeni ed altre leggi che hanno determinata la scelta.

Ora secondo il testo avverrebbe questo: la «legge dello scambio tra valori equivalenti» si concilia tanto colla «teoria» di Stalin che dice: vi sono forme mercantili in economia socialista, quanto colla teoria (modestamente) nostra che dice: se vi sono forme mercantili e grande produzione, si tratta di capitalismo. Verificare la legge: facile, si va in Russia e si vede che si scambia in rubli a dati prezzi come in qualunque banale bazar: la legge dello scambio equivalente vige. Vedere quale è la vera teoria è un poco complicato: noi deduciamo: siamo in pieno, schietto e autentico capitalismo; Stalin fabbrica una teoria – appunto: le teorie si inventano, le leggi si scoprono – e dice in barba a babbo Marx: dati fenomeni economici del socialismo avvengono normalmente secondo la legge di scambio (detta legge del valore).

Natura e storia

Prima di venire al punto – quali sono in Marx le leggi dell’economia capitalista, e quali di esse sono «discriminanti» tra capitalismo e socialismo, (eventualmente) comuni ai due stadi – va rilevata la troppo corrente assimilazione tra leggi fisiche e leggi sociali.

Combattenti e polemisti come dobbiamo essere alla scuola di Marx, non dobbiamo sciogliere un tale quesito con tono scolastico, ed insistere sull’analogia teorica, al fine «politico» di evitare che ci si dica: se le leggi sociali non sono poi così infrangibili come la legge ad esempio di gravità, sotto a levarne di mezzo taluna.

Come dimenticare che tra il colosso Marx e la schiera dei botoli prezzolati nelle università del capitale si svolge la lotta intorno al punto che le leggi dell’economia borghese «non sono leggi naturali», e quindi ne potremo e ne vogliamo spezzare il cerchio? È vero che lo scritto di Stalin ricorda che in Marx le leggi dell’economia non sono «eterne», ma ve ne sono proprie di ogni stadio ed epoca sociale: schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ma egli vuole poi giungere a dire che «certe leggi» sono a tutte le epoche comuni, e vigeranno anche nel socialismo, che avrà anche lui una sua «economia politica». Stalin deride Jarošenko e Bucharin che avrebbero detto che all’economia politica succede una scienza dell’organizzazione sociale, e Stalin, pungente, ribatte che questa nuova disciplina, abbordata da economisti russi pseudo-marxisti e timorosi della polizia zarista, è invero una «politica economica», di cui ammette la necessità come cosa diversa. Ebbene, pensiamo questo: se nel socialismo si avrà una scienza economica lo discuteremo, messi i termini al loro posto; ma quando vi è ancora una politica economica (come deve essere sotto la dittatura proletaria, anche) li sono presenti classi rivali, lì non si è al socialismo ancora arrivati. E ci dobbiamo alla Lenin ridomandare: chi ha il potere? E quindi: lo sviluppo economico – che é, siamo d’accordo, gradato – in che direzione va? Le sue leggi cel diranno.

Quanto al problema generale delle leggi della natura e della storia esso deve trovare posto nelle trattazioni della nostra rivista teorica, ove si risponde agli attacchi che il marxismo riceve – dato che su mille scrittori novecentonovantanove ne considerano Mosca come la sede ufficiale – a proposito della banalità dell’espressione data alla teoria (questa è una teoria e non una legge) del materialismo storico, a proposito dei problemi di determinazione e volontà, causalità e finalità. La posizione originale di Marx e sempre quella (tanto poco compresa e tanto scomoda a chi fa la politica del successo opportunistico) sempre quella della diretta battaglia tra le classi opposte e del loro antagonismo storico, che a volte adopera la macchina da scrivere a volte la mitragliatrice – non si dice più la penna e la spada. Per noi la borghesia quando vinse condusse avanti il metodo scientifico critico e lo applicò con audacia dopo il campo naturale a quello sociale. Scopri e denunzio teorie oggi nostre: quella del valore (il valore di una merce è dato dalla quantità e tempo di lavoro sociale che occorre a riprodurla) e del plusvalore (il valore di ogni merce contiene capitale anticipato e plusvalore: per la prima parte è restituzione, per la seconda guadagno). E disse trionfante: se voi ammettete (e lo ammette la stessa scienza di un secolo dopo) che le stesse fisiche leggi valgono per la nebulosa primitiva e per la nostra terra di oggi, dovete ammettere che agli stessi rapporti sociali obbediranno tutte le società umane future, dato che l’intervento di Dio o del Pensiero puro lo espelliamo d’accordo da ambo i campi. Il marxismo consiste nel di mostrare scientificamente che invece nel cosmo sociale si svolge un ciclo che spezzerà le forme e le leggi capitalistiche, e che il cosmo sociale futuro sarà regolato diversamente. Dato che a voi non importa per effetti «politici» interni ed esteri castrare e banalizzare fino al ridicolo questa potente costruzione, fateci finalmente la grazia di abbandonare gli aggettivi di marxisti socialisti e comunisti, chiamatevi economisti, populisti, progressisti: vi sta a pennello.

Marx e le leggi

Engels riconosce a Marx di essere il fondatore della dottrina del materialismo storico. Marx dichiara che l’apporto dato da lui nell’applicazione della dottrina al mondo attuale non consiste nell’avere scoperto la lotta tra le classi, ma nell’avere introdotto la nozione della dittatura proletaria.

La teorica si svolge così fino al programma di classe e di partito, fino all’organizzazione della classe operaia per l’insurrezione e la presa del potere. Su questo cammino gigantesco si trova l’indagine sulle leggi del capitalismo. Due sono le vere e principali leggi stabilite nel «Capitale». Nel I volume è stabilita la legge generale dell’accumulazione capitalistica, quella che va sotto il nome di miseria crescente – tante volte da noi trattata – che stabilisce come col concentrarsi del capitale in grandi ammassi cresce il numero dei proletari e dei «senza riserve» – e spiegammo mille volte che ciò non vuol dire che decresce il livello dei consumi e del tenore reale di vita dell’operaio. Nel II e nel III volume del «Capitale», che nella nostra rivista saranno oggetto di un’esposizione organica come fu per il primo, è svolta la legge della riproduzione del Capitale (connessa a quella, su cui più innanzi ci fermeremo, della diminuzione del tasso del profitto). Secondo questa una parte del prodotto e quindi del lavoro deve essere dal capitalista accantonata per riprodurre i beni capitali degli economisti, ossia le macchine logorate, le fabbriche, etc. . Quando il capitale destina a tale accantonamento una più alta quota, esso «investe», ossia aumenta la dotazione di impianti e strumenti produttivi.

Le leggi di Marx sul modo come si ripartisce il prodotto umano tra consumi immediati e investimenti strumentali, tendono a provare che fino a che resterà in piedi lo scambio mercantile e il sistema salariale, il sistema andrà incontro a crisi e rivoluzioni.

Ora la prima legge non si può certo applicare alla società socialista poiché questa si organizza appunto per far sì che la riserva sociale sia una garanzia individuale per tutti, pur non appartenendo a nessuno né essendo divisa (come nel pre-capitalismo) in tante piccole quote. La seconda legge, dice Stalin, persiste e pretende che Marx lo abbia previsto. Il marxismo stabilisce soltanto, e tra l’altro nel famoso passo della critica al programma di Erfurt, che un prelievo sociale sul lavoro individuale ci sarà anche in regime comunista, per provvedere alla conservazione degli impianti, ai servizi generali, e così via. Non avrà carattere di sfruttamento proprio in quanto non sarà fatto per la via mercantile; e proprio per questo l’accantonamento sociale determinerà un equilibrio stabile, e non una serie di sconvolgimenti, nel rapporto tra prodotti da consumare e prodotti da destinare a «strumenti» per la produzione ulteriore.

Il punto centrale di tutto questo sta in ciò. Stalin con preziosa ammissione dichiara che, vigendo anche nell’industria di stato la legge del valore, quelle industrie funzionano sulla base del rendimento commerciale, della gestione redditizia, del costo di produzione, dei prezzi ecc. Per l’eccetera scriviamo: remunerativo. Inoltre egli dichiara che il programma avvenire è di accrescere la produzione degli strumenti di produzione.

Ciò vuol dire che i «piani» del governo sovietico per industrializzare il paese richiedono che più che oggetti di consumo per la popolazione si producano macchine, arati, trattori, concimi, ecc., e si facciano colossali opere pubbliche.

Per la prossima riunione del nostro modesto movimento avevamo già studiato un suggestivo argomento: piani ne fanno gli Stati capitalistici e ne farà la dittatura proletaria. Ma il primo vero piano socialista si presenterà (intendiamo quanto ad immediato intervento dispotico: «Manifesto») finalmente come un piano per: crescere i costi di produzione, ridurre la giornata di lavoro, disinvestire capitale, livellare e quantitativamente e soprattutto qualitativamente il consumo, che in anarchia capitalistica è per nove decimi distruzione inutile di prodotto, solo in quanto ciò risponde alla «gestione commerciale redditizia» e al «prezzo remunerativo». Piano dunque di sottoproduzione, di drastica riduzione della quota prodotta di beni capitali. Spezzeremo facilmente la legge delle riproduzione, se finalmente la Sezione II di Marx (che fabbrica alimenti). L’orchestra attuale ci ha già rotto i timpani.

Gli alimenti sono per gli operai, gli strumenti per i padroni. Facile dire che essendo il padrone lo Stato operaio, i miseri lavoratori hanno interesse «ad investire» e a fare metà giornata per la Sezione I! Quando Jarošenko riduce la critica di questa tendenza all’aumento fantastico della produzione di strumenti, alla formula: economia per il consumo e non per la produzione, cade nella banalità. Ma vi cade altrettanto il ricorso, per far passare il contrabbando dell’industrialismo statale sotto la bandiera socialista, a formule di agitazione come: chi non lavora non mangia; abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; quasi che lo scopo della classe sfruttata fosse quello elegantissimo di assicurarsi di essere sfruttata da se stessa.

In realtà, e anche stando alle analisi del solo mondo economico interno, l’economia russa applica tutte le leggi del capitalismo. Come si può aumentare la produzione di beni non da consumo senza proletarizzare gente? Dove la prendono? Il percorso è lo stesso dell’accumulazione primitiva, e spesso i mezzi sono ugualmente feroci di quelli descritti nel «Capitale». O saranno colcosiani che resteranno senza la mucca, o pastori erranti dell’Asia strappati alla contemplazione delle vaghe stelle dell’Orsa, o servi feudali della Mongolia, avulsi dalla millenaria gleba. Certo che la consegna è: più beni strumentali, più operai, più tempo di lavoro, più intensità di lavoro: accumulazione e riproduzione progressiva del capitale a ritmo d’inferno.

È l’omaggio che a dispetto di una schiera di scemetti rendiamo al «grande Stalin» è questo. Appunto in quanto si svolge il processo di un’accumulazione capitalista iniziale, e se veramente questo arriverà nelle province dell’immensa Cina, nel misterioso Tibet, nella favolosa Asia Centrale da cui uscì la stirpe europea, ciò sarà rivoluzionario farà girare avanti la ruota della storia. Ma non sarà socialista, bensì capitalista. Occorre in quella gran fetta del globo l’esaltazione delle forze produttive. Ma Stalin ha ragione, quando dice che non è di Stalin il merito, ma delle leggi economiche, che gli impongono questa «politica», Tutta la sua impresa sta in una falsificazione di etichetta: anche questo, espediente classico degli accumulatori primitivi!

In occidente invece le forze produttive sono già molte volte di troppo e il loro mareggiare rende gli Stati oppressori, divoratori di mercati e di terre, preparatori di carneficine e di guerra. Li non servono piani di aumento della produzione ma solo il piano della distruzione di una banda di malfattori.

E soprattutto dell’immersione nella melma della loro puzzolente bandiera di libertà e di parlamentarismo.

Socialismo e comunismo

Chiuderemo l’argomento economico con una sintesi degli stadii della società futura, su cui il «documento» (eccola la parola che ronzava nei tasti!) di Stalin reca un poco di disordine. France press lo ha accusato di aver plagiato dallo scritto di Nicola Bucharin sulle leggi economiche del periodo di transizione. Ma questo scritto Stalin più volte cita, valendosi anzi di una critica che Lenin ne fece. Bucharin ebbe il grande merito, quando ebbe incarico di preparare il Programma del Comintern, rimasto poi progetto, di porre in rilievo il postulato anti-mercantilista della rivoluzione socialista, come cosa di primissimo piano. Seguì poi Lenin in un’analisi del trapasso «in Russia» e nel riconoscimento che si dovevano subire forme mercantili, sotto la dittatura proletaria.

Tutto si chiarisce ove si rilevi che lo stadio di Lenin e Bucharin viene prima dei due stadi della società comunista di cui parla Marx e che Lenin illustra nel magnifico capitolo di «Stato e rivoluzione».

Questo prospetto potrà ricapitolare, dunque, il non semplice argomento dell’odierno dialogo.

Stadio ad trapasso. Il proletariato ha conquistato il potere politico e deve porre le classi non proletarie fuori della legge appunto perché non può «abolirle» di un colpo. Ciò vuol dire che lo Stato proletario vigila su un’economia che in parte, sempre decrescente, non solo ha distribuzione mercantile, ma forme di privata disposizione e sui prodotti e sui mezzi di produzione, sia sparpagliati che agglomerati. Economia non ancora socialista, economia di transizione.

Stadio inferiore del comunismo, o se si vuole del socialismo. La società ha già la disposizione dei prodotti in generale e ne fa l’assegnazione ai suoi membri con un piano di «contingentazione». A tale funzione non provvede più lo scambio mercantile e la moneta – non si può passare a Stalin come prospettiva di una forma più comunista il semplice scambio senza moneta, ma sempre con la legge del valore: sarebbe una specie di ricaduta nel sistema del baratto. È invece l’assegnazione dal centro senza ritorno di equivalente. Esempio: scoppia un’epidemia di malaria e si distribuisce nella zona chinino gratis, ma nella misura di un solo tubetto per abitante.

In tale stadio occorre non solo l’obbligo al lavoro, ma una registrazione del tempo di lavoro prestato e l’attestato di questo, il famoso buono tanto discusso da un secolo che ha la caratteristica di non potere andare a riserva, sicché ad ogni conato di accumulazione risponde la perdita di una quota lavoro senza equivalente. La legge del valore è seppellita. (Engels: la società non attribuisce nessun «valore» ai prodotti).

Stadio del comunismo superiore, che non abbiamo difficoltà a dire del pieno socialismo. La produttività del lavoro è tale che per evitare lo sperpero di prodotto e di forza umana non occorre (salvo casi patologici) né coazione né contingentamento. Prelievo libero per il consumo a tutti. Esempio: le farmacie distribuiscono chinino gratis senza limite. E se taluno ne prende dieci tubetti per avvelenarsi? Evidentemente è tanto fesso, quanto quelli che scambiano per socialista una fetida società borghese.

In quale stadio dei tre è Stalin? In nessuno. È in quello della transizione non dal, ma al capitalismo. Quasi rispettabile, e non suicida.



Source: «Il Programma Comunista», Nr.2, 1952

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