LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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DIALOGATO CON STALIN (III)


Content:

Dialogato con Stalin
Giornata terza: antimeriggio
Prodotti e scambi
Profitto e plusvalore
Engels e Marx
Tasso e massa
Ottocento e novecento
Source



Sul filo del tempo

Dialogato con Stalin

Giornata terza: antimeriggio

Si tenne dibattito nella giornata prima sul punto che ogni sistema di produzione di merci è sistema capitalista, da quando si produce lavorando, in masse d’uomini, a masse di merci. Capitalismo e mercantilismo si ritireranno insieme dai successivi campi di azione o sfere di influenza nel mondo moderno.

Si riprese nella seconda, passando dal processo generale a quello dell’economia russa presente e, tenute per giuste le denunziate leggi della sua struttura, si affermò che ne scaturiva la diagnosi piena di capitalismo, allo stadio di «grandindustrialismo di Stato».

Secondo l’interlocutore Stalin, questo processo abbastanza definito e concreto, applicato ad area e popolazione immense, può condurre ad un’accumulazione e concentrazione della produzione pesante, non seconde a nessuna, senza che necessariamente debbano ripetersi le fasi di feroce riduzione alla nullatenenza dei ceti poveri chiusi in cerchie locali di economia e nella tecnica parcellare del lavoro – come in Inghilterra, Francia, ecc. – e sulla sola base della scontata (dal 1917) liquidazione dei grandi terrieri.

Se questo secondo punto si riducesse alla tesi che, a secoli di distanza, l’introduzione in profondità della tecnica del lavoro in grande e con le risorse della scienza applicata, si pone, in un tanto diverso quadro universale, diversamente, ciò potrebbe essere oggetto di studio a parte, in sede di «questione agraria» specialmente. Il contraddittore può venire ammesso a provare che raggiungerà il pieno capitalismo non in carrozza, ma in aeroplano; ma a sua volta confessi la «direzione del moto». Gli stiamo passando da terra, noi poveri pedoncini, i dati esatti di una serie di basi – ma anche il radar può impazzire.

Ed ora un terzo passo: il quadro dei rapporti mondiali in tutto il complesso orizzonte di produzione, consumo, scambio; rapporti di forza statali e militari.

I tre sono aspetti di un solo e grande problema. Il primo potrebbe dirsi l’aspetto storico, il secondo quello economico, il terzo e conclusivo quello politico. La direzione e il punto di arrivo della ricerca non possono essere che unitari.

Prodotti e scambi

Avviene, palesemente, al capo dello Stato e partito russo di dover cambiare il fronte delle sue rettifiche in dottrina, e delle correlative secche reprimende alle obiezioni dei «compagni», ogni qualvolta egli passa dalla circolazione economica entro la sua cerchia, a quella attraverso questa. Notammo già, lo ricordi il lettore, che questo punto di arrivo aveva fatto rizzare le orecchie ai vigili dell’occidente. Lungi dal cantare ancora una volta l’inno ad una millenaria autarchia, l’uomo del Kremlino aveva tranquillamente braqué il cannocchiale – domani, si chiesero quelli con aria studiata, il telemetro? – sugli spazi oltre cortina; e vecchie storie di spartizione di zone di influenza, in alternativa a sortite di rottura, rivennero a galla. Tasto, tuttavia, meno stridulo e fesso di quello del crimine di genocidio o del delirio di aggressione.

La maniera di far andare entro la Russia – e paesi connessi – articoli industriali agli agricoltori, e generi rurali ai cittadini, schiacciando con passi di Marx ed Engels i Pinchi Pallini, e quando era il caso rettificando d’ufficio termini, frasi e formule degli autori, fu affermata in tutta regola col Socialismo. I colcos vendono i loro prodotti «liberamente», e altro mezzo di averne non vi è; dunque via di mercato si, ma con regole speciali: prezzi di Stato (novità! specialità in esclusiva!), e perfino speciali «patti» di smercantilizzazione, in quanto non si dà moneta ma si «porta in conto» di controforniture delle fabbriche nazionali (originalità suprema! enfoncement del salumiere all’angolo, del marine americano che stabilisce lo equivalente tra amplessi e stecche, dei banali clearings dei paesi di occidente!). Veramente, il maestro dice, non direi smercantilizzazione ma scambio di prodotti. Non vorremmo che fosse colpa delle traduzioni; insomma, ogni sistema di equivalenti, più o meno convenzionali – dal baratto dei selvaggi alla moneta, come equivalente unico per tutti, ai centomila sistemi di registrazione delle partite contra-pareggiate, che vanno dal libretto della serva ai complicati schedari di banche, ove le addizioni le fanno i cervelli atomici, e migliaia di reclute al giorno ingrossano il flotto soffocante dei venditori di forza-lavoro-grattante-ombelico – perché nacquero e sono, se non per lo scambio dei prodotti, e per quello solo?

Ma Stalin vuole mettere a tacere il tarlo, che dai «saldi» degli scambi in equivalenza nasca privata accumulazione, e dice che le garanzie sono li.

Duro anche per i generalissimi stare in arcione su una simile tesi, e alternativamente schermire in due direzioni, un colpo alla rigidità dottrinale, un colpo alla concessione revisionista. Elasticità del vero leninista bolscevico? No, eclettismo, era la nostra risposta; e allora i bolscevichi andavano in bestia.

Comunque sia per il rapporto interno (il cui esame non finisce oggi né qui giusta il già detto) Stalin stesso apre ampia riserva quando parla del rapporto estero. Il compagno Notkin se ne sente delle belle per aver sostenuto che sono merce anche la varie macchine e strumenti costruiti nelle officine statali. Hanno valore, se ne annota il prezzo, ma merci non sono: vediamo il Notkin a grattarsi la pera.
«Ciò è necessario in secondo luogo per realizzare la vendita dei mezzi di produzione a Stati stranieri, nell’interesse del commercio estero. Qui, nel campo del commercio estero, ma solo in questo campo (corsivo in originale), i nostri prodotti sono effettivamente merci e vengono effettivamente venduti (senza virgolette)».

Nel testo rivestito dal formale imprimatur figura quest’ultima parentesi: pensiamo abbia l’incauto Notkin messo tra virgolette la parola venduti che ad un marxista e bolscevico puzza non poco. Non sarà uscito dai corsi delle classi giovani, si vede.

Tra un paio d’anni ci servirebbe questo dato: il quantum, per favore. La quota relativa del collocato all’estero e all’interno. E un’altra notizia: si considera utile che tale quota salga o scenda? Che il prodotto totale debba salire fino alla vertigine, lo sappiamo dalla legge dell’economia pianificata «proporzionale». Non sapendo il russo supponiamo che il senso giusto sia: piani contingentatori della produzione in modo che l’aumento sia di ragione annua costante, colla forma della legge dell’incremento demografico o dell’interesse composto. Il termine giusto che proponiamo è quello: sviluppo pianificato in ragione geometrica. Tracciata così correttamente la «curva», col nostro poco senno scriveremmo questa «legge»: comincia il socialismo dove questa curva si spezza.

Oggi annotiamo: quel tanto di prodotti anche strumentali che vanno all’estero, sono merci, non solo nella «forma» di contabilità, ma anche nella «sostanza».

E una. Basta discutere ad alcuni mille chilometri, e su qualcosa si finisce con l’intendersi.

Profitto e plusvalore

Ancora un poco di pazienza e verremo a parlare di alta politica ed alta strategia: vedremo le corrugate fronti distendersi, dato che in quei temi capiscono tutti al volo: attacca Cesares? Fugge Pompeo? Ci rivedremo a Filippi? Passeremo il Rubicone? Questa si che è robetta digeribile, in quanto «sfiziosa».

Occorre ancora un punto di economia marxista. La forza delle cose conduce il maresciallo sul problema esplosivo del mercato Mondiale. Egli dice che l’U.R.S.S. sostiene i paesi associati con aiuti economici tali, che ne esaltano l’industrializzazione. Vale per Cina Cecoslovacchia? Avanti.
«Si arriverà, grazie a simili ritmi di sviluppo dell’industria, rapidamente a ottenere che questi paesi non solo non abbiano bisogno di importare merci dai paesi capitalistici, ma sentano essi stessi la necessità di esportare le merci eccedenti della loro produzione».
Il solito inciso, o incluso: se producono ed esportano in occidente, allora sono merci. Se in Russia, che sono?

Il fatto importante, in questo rientro a bandiere spiegate del mercantilismo per forma e sostanza identico a quello capitalistico (se davvero fosse da credere al maquillage dei volti economici!), è che esso fonda sull’imperativo: esportare per poter produrre di più! Ed è lo stesso imperativo che vige in sostanza nel campo interno del preteso «paese socialista» ove invece si tratta di un vero affare da import-export tra città e campagna, tra i famosi ceti alleati, perché anche li abbiamo visto che si arriva alla legge della progressione geometrica, ed al: Produrre di più! Produrre di più!

Ecco quanto del marxismo è rimasto in piedi! Perché da quando «gli operai sono al potere» non vanno – Stalin pretende – più adoperate le formule offensive che distinguono tra lavoro necessario e sopralavoro; lavoro pagato e non pagato! E perché, fatta come vedremo qualche grazia alla legge del plusvalore (che è poi zoologicamente una teoria, a termini della giornata seconda, e non una legge) da oggi in poi:
«non è vero che la legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo è la legge della diminuzione tendenziale del tasso di profitto». «Il capitalismo monopolistico (ci siamo: che ne sapevi tu, povero Carlo?) non può accontentarsi del profitto medio, (che inoltre in seguito all’aumento della composizione organica del capitale ha la tendenza a diminuire) ma cerca il massimo profitto».
Mentre la parentesi del testo ufficiale sembra un momento richiamare in vita l’estinta legge di Marx, viene poi promulgata la nuova:
«la ricerca del profitto massimo è la legge economica fondamentale del capitalismo contemporanea».

Se va un poco più oltre il lanciafiamme in libreria, non restano neanche i baffi dell’operatore.

Questi controchiodi che si appuntano, storti come sono, da tutti i lati, sono intollerabili. Pretendono che le leggi economiche del capitalismo monopolistico si siano rivelate diversissime da quelle del capitalismo di Marx. Poi gli stessi pretendono che le leggi economiche del socialismo potranno benissimo restare le stesse di quelle del capitalismo.

La finestra, subito!

Eroicamente rifacciamoci ab ovo. Bisogna ricordare quale sia la differenza che passa tra massa di profitto e massa di plusvalore, tasso di profitto e saggio di plusvalore, e quale sia l’importanza della legge di Marx, minuziosamente esposta all’inizio del III libro, circa la tendenza alla discesa del tasso di profitto medio. Capire, leggere! Non il capitalista tende alla discesa del profitto! Non il profitto (massa del profitto) scende, ma il tasso del profitto! Non il tasso di ogni profitto, ma il medio tasso del profitto sociale. Non ogni settimana o ad ogni uscita del «Financial Times», ma storicamente, nello sviluppo tracciato da Marx al monopolio sociale dei mezzi di produzione tra gli artigli del Capitale, di cui è scritta la definizione, la nascita, la vita e la morte.

Se tanto si afferra, sarà dato vedere come lo sforzo, non del singolo capitalista di azienda, figura secondaria in Marx, ma della macchina storica del capitale, di questo corpus dotato di vis vitalis e di anima, per dibattersi invano contro la legge della discesa del tasso, è solo, è proprio quello che ci fa concludere sulle tesi classiche che Stalin, tra lo smarrimento occidentale, degna di bel nuovo riabbracciare. Primo: inevitabilità della guerra tra Stati capitalistici. Secondo: inevitabilità della caduta rivoluzionaria del capitalismo dovunque.

Questo sforzo gigante, con cui il sistema capitalista lotta per non affondare, si esprime nella consegna: produrre in crescendo!

Non solo non sostare, ma segnare ogni ora l’aumento dell’aumento dell’aumento. In matematica: curva della progressione geometrica; in sinfonia: crescendo rossiniano. E a tal fine, quando tutta la patria è meccanizzata, esportare. E saper bene la lezione di cinque secoli: il commercio segua la bandiera.

Ma è questa, Džugašvili, la vostra consegna.

Engels e Marx

Per la dimostrazione ancora una volta dobbiamo tornare a Marx e ad Engels. Non però a testi organici, completi, di getto, che ognuno dei due scolpì nel vigore più pieno e nella foga diritta di chi non ha dubbi e lacune e spazza gli intoppi dal suo cammino senza che urto se ne risenta. Si tratta del Marx di cui dà conto l’esecutore testamentario nelle prefazioni quasi drammatiche al II libro del «Capitale» (5 maggio 1885) e al III (4 ottobre 1894). Prima si tratta di giustificare lo stato dell’immane congerie di materiali e manoscritti (che vanno dai capitoli in forma definitiva ai foglietti di appunti, note, scorci, illeggibili abbreviazioni, promessa di future ricerche, ed anche pagine incerte e vacillanti nello stile) con la salute declinante di Marx, coll’effetto inesorabile dei vari ritorni della mallatìa che lo costrinse a pause in cui l’ansia divorava il fegato ed il possente cervello ben più di quanto li sanasse il riposo. Tra il '63 ed il '67 il lavoro fornito da quella macchina umana fu incalcolabile e tra esso il getto in una sola fusione di acciaio del I libro dell’opera massima. Già nel '64-'65 la mallatìa aveva dato i primi disturbi, e delle sue devastazioni l’occhio infallibile del grande aiuto segna le tracce nei fascicoli inediti. Ma poi lo stesso snervante lavoro: decifrare, rileggere, ridettare, riordinare il testo dettato, dare ordine alla materia, con l’ostinata decisione a non redigere del suo, vince anche la resistenza del robustissimo Engels: i suoi occhi generosi hanno troppo vegliato sulle pagine dell’amico, ed una preoccupante debolezza di vista lo condanna per vari anni a ridurre il lavoro personale, vietandogli di scrivere alla luce artificiale. Non vinto, non sconfortato, egli porge alla Causa le sue scuse umili e leali. Altro non gli era stato dato di fare. Con modestia egli ricorda tutti gli altri settori in cui «solo» ha retto sopra di sé tutto il peso. E la sua morte segue di un anno.

Questo non serve di contorno o di effetto. Vuole porre in rilievo che la istanza di tecnica fedeltà, che domina il compilatore, ha tolto quasi del tutto ai due libri quei capitoli di periodica sintesi e vista di insieme, che fiammeggiano in quello redatto in vita di Marx.

Alla penna di Engels se ne devono, di tali scorci, non pochi né di poco conto: ma sotto il nome di Marx egli non li volle estendere, e si limitò all’analisi. Se così non fosse stato, vana fatica sarebbero oggi certe duplicità di lettura (oggi e da mezzo secolo) e ad esempio la trista leggenda che nell’ultimo libro Marx avrebbe alcunché ritrattato; e chi vuol questo in filosofia, chi in scienza economica, chi in politica, a seconda dei personali equivoci gusti. Quanti richiami e connessioni espresse vi sono tra il I libro e le opere giovanili o il «Manifesto», tanti tra gli ultimi scritti e quello; e mille passi delle lettere lo ribadiscono.

Meno che quella di Engels è questa sede di analisi. Notiamo solo che in un passo Marx dice, con uno di quei tali scorci, perché lavora tanto su quella legge di discesa del tasso. Ebbene Engels esita a riportare il brano, lo inquadra in parentesi quadre perché pure essendo redatto secondo una nota del manoscritto originale, esso sorpassa, in alcuni sviluppi, i materiali che si rinvengono nell’originale…

«La legge dell’accrescimento della forza produttiva del lavoro non vale dunque in un modo assoluto per il Capitale. Questa forza produttiva è accresciuta dal capitale, non col mezzo di una semplice riduzione del lavoro vivente in generale, ma sol quando si risparmia, sulla parte pagata del lavoro vivente, più di quanto non vi si sia aggiunto di lavoro passato, così come lo abbiamo brevemente accennato al libro I, XII, 2 (valore trasmesso dalla macchina al prodotto: attualino, neh?). Qui il modo di produzione capitalista cade in una nuova contraddizione. Egli ha come missione storica quella sviluppare in una assoluta progressione geometrica (sic!) la produttività del lavoro umano. Ora, esso manca a questa missione dal momento che pone, come nel presente caso (resistenza del capitalista ad introdurre macchine di maggiore resa) ostacolo al rigoglio della produttività. Esso così fornisce una nuova prova della sua senilità e mostra che veramente non è più del nostro tempo»!.

Indifferenti all’obiezione filistea che passati altri sessant’anni di (fetente forte però) capitalismo, invece di toglierla, la parentesi quadra andava triplicata al solito imprudente Marx, noi rileviamo le solite tesi programmatiche che Marx amava intercalare regolarmente alle analisi acute e profonde. Il capitalismo crollerà. E il post-capitalismo? Eccolo: dato che la forza produttiva di ogni unità di lavoro aumenta, non aumentiamo la massa prodotta, diminuiamo invece il tempo di lavoro dei viventi. Perché non lo vuole l’Occidente? Perché la sola via per sfuggire alla «legge della discesa del tasso» è quella (superprodurre). E quanto all’Oriente? Idem. Ma giustizia vuole si dica che di là, è capitalismo giovanile.

Tasso e massa

Converrà riprendere, evitando qui sia il caso numerico, che il simbolismo algebrico, la deduzione della legge che, non avendo ancora perso il lume degli occhi, non ci adattiamo a mandare in pensione; salvando brevità e levità, quanto è possibile, col tono dell’apologo.
«Se le merci potessero parlare – così l’immenso Carlo in quel tale paragrafo-gioiello – direbbero: il nostro valore d’uso può certamente interessare l’uomo; noi, in quanto siamo oggetti, ce ne ridiamo. Quel che a noi interessa è il nostro valore. Lo prova il nostro mutuo rapporto quali cose di vendita e di compera. Noi reciprocamente non ci consideriamo che quali valori di scambio».

Abbiamo quindi portato per voi il microfono sulla piazza dove si incontrano le merci provenienti da un lato dalla Russia, dall’altro dall’America. Dall’alto è stato ammesso che esse parlano un comune linguaggio economico. per entrambe è sacrosanto – e in difetto non avrebbero fatto tanta strada – che il prezzo di mercato cui aspirano deve far premio sul costo di produzione. In ambo i paesi si aspira a produrle a basso costo e smerciarle ad alto prezzo.

La merce che viene dal paese a teoria capitalista parla: sono fatta in due pezzi, e si vede una sola attaccatura. Il costo di produzione, anticipazione viva e bruciante di chi mi ha prodotta, e il profitto, che aggiunto al primo dà esattamente la cifra per meno della quale, non illudetevi, non verrò meno ai miei principi. Mi appago di un profitto modesto per incoraggiare l’acquirente; potete verificare il tasso di esso con una piccola divisione: prodotto diviso costo di produzione. Se costai dieci ed appena per undici mi lascio possedere, sarete così spilorci da trovare esagerato il tasso del dieci per cento? Avanti, signori, ecc.

Passiamo il microfono all’altra merce. Così essa favella: Appo noi si usa far fede all’economia marxista. In me vedete (non ho ragione di nasconderlo) due attaccature; sono di tra e non di due pezzi. Nell’altra il trucco c’è ma non si vede. Per produrmi le spese fatte sono di due tipi: materie prime, consumo di strumenti e simili, che diciamo capitale (in me investito) costante – salari di lavoro umano, che diciamo capitale variabile. La somma forma il costo di produzione dell’altra signorina che ha parlato prima. Anche per me aggiungete un saldo, benefizio, profitto, che è il mio terzo ed ultimo pezzo, e si chiama plusvalore. Per la parte costante di anticipazione, non chiediamo nulla in aggiunta perché sappiamo che è sterile di forza produttiva di valore maggiore: questa sta tutta nel lavoro, o parte variabile dell’anticipo: vorrete dunque verificare per il saggio o tasso, non del profitto, ma del plusvalore, colla divisionetta di esso plusvalore per la sola seconda parte del capitale in me speso, quello per i salari.

Il compratore comunque risponde: andatelo a raccontare al portiere: quel che qui importa è il costo totale alla mia borsa di entrambe, ossia la cifra di vendita di voi due.

Un battibecco sorge tra le due merci, ognuna delle quali sostiene di voler fare un affare meno lucroso, contentandosi di un derisorio tasso di profitto. Siccome nessuna delle due lo può ridurre a zero, vince quella che davvero ha il costo di produzione più basso, come invoca anche Stalin ad ogni momento. Per la parte costante, occorre che le materie prime siano in quella quantità e qualità. La contesa si porterà, nei due campi esportatori, sulla parte variabile. Vi è il mezzo ovvio di pagare meno l’operaio e farlo lavorare molto, ma soprattutto gioca la produttività del lavoro, legata al perfezionamento tecnologico, all’uso di macchine più redditizie, alla più razionale organizzazione degli stabilimenti; ed ecco sciorinare la foto ad effetto dei grandi impianti da una parte e dall’altra, col vanto di avere sempre più abbassato, a parità di massa prodotta, il numero di lavoratori addetti. Una faccenda che all’agente delle compere sul mercato conteso importa ancora meno, è sapere in quale caso gli operai sono meglio pagati e trattati.

Non crediamo sarà penoso al lettore constatare la differenza tra i due metodi di analisi del valore. Il saggio, o tasso, del plusvalore è sempre molto più forte del tasso di profitto, e ciò tanto più, quanto più il capitale costante prevale sul capitale variabile.

Ora la legge di Marx sulla discesa del tasso di profitto medio considera tutto il profitto, ossia il globale beneficio sulla produzione di cui si tratta, prima di stabilire a chi andrà tale profitto (banchiere, industriale, proprietario). Marx nel capitolo XIII del II libro ribadisce di avere trattata la legge «a disegno» prima di passare alla ripartizione del profitto (o plusvalore) tra i vari tipi sociali, perché la legge è vera indipendentemente da tale ripartizione. È quindi vera anche quando è lo Stato a fare da proprietario, da banchiere ed imprenditore.

La legge si fonda sul processo storico generale, da nessuno negato, da tutti apologizzato, che con l’applicazione al lavoro umano di sempre più complessi strumenti, utensili, macchine, dispositivi, risorse tecniche e scientifiche, ne cresce in modo incessante la produttività.

Per una certa massa di prodotti, occorrono sempre meno operai. Il capitale che si è dovuto mettere fuori, investire, per avere per le mani quella data massa di prodotti, cambia di continuo quella che Marx dice la composizione organica: contiene sempre più capitale materia, e sempre meno capitale salari. Bastano pochi operai a dare una enorme «aggiunta di valore» alle materie lavorate, in quanto molto di più ne possono lavorare, rispetto al passato. Anche questo è concorde. Ed allora? Anche ammesso che il capitale come spesso avviene (ma non è necessaria legge marxista come per il rivoluzionario da operetta) aumenti lo sfruttamento, aumenti il saggio del plusvalore, pagando meno gli operai, il plusvalore e profitto ritratto aumenteranno, ma dato il molto maggiore aumento della massa di materie comprate e lavorate attraverso quel solo impiego di mano d’opera, il tasso di profitto scenderà sempre, in quanto il tasso è dato dal rapporto del profitto, cresciuto alquanto, a tutta la anticipazione per salari e materie, cresciuta, per la seconda partita, enormemente.

Il capitale cerca il massimo profitto? Ma certamente, lo cerca e lo trova, ma non può impedire che intanto il tasso di profitto discenda. La massa del profitto aumenta, poiché la massa della popolazione è di più, il proletariato di più ancora, le materie lavorate sempre più imponenti, la massa della produzione sempre più grande. Capitali piccoli divisi tra moltissimi all’inizio e investiti a buon tasso, all’arrivo capitali grandissimi, divisi tra pochissimi (e qui l’effetto della concentrazione parallela all’accumulazione) investiti si ad un tasso disceso, ma col risultato dell’incessante ascesa del capitale sociale, del profitto sociale, del capitale e profitto medio aziendale, fino ad altezze vertiginose.

Quindi nessuna contraddizione alla legge di Marx sulla discesa del tasso, che potrebbe essere fermata solo da una diminuita produttività del lavoro, da una degenerata composizione organica del capitale, cose contro cui Stalin tira con la più pesante artiglieria, cose sul terreno delle quali mira disperatamente a superare l’avversario.

Ottocento e novecento

Nel numero scorso di questo foglio sono apparse alcune sobrie cifre di fonte capitalistica sull’economia americana. Prendiamone la conferma dalla legge stabilita da Marx e negata da Stalin. Nel 1848, dice la statistica, al nascere del capitalismo industriale negli Stati Uniti, su mille di valore che veniva, nella produzione, aggiunto al valore del lavorato quando era grezzo, andava per 510 agli operai come salari e stipendi, per 490 ai padroni come profitti. Evitando dettagli sui logorii, spese generali, ecc., le due cifre danno proprio capitale variabile e plusvalore: il loro rapporto, o saggio del plusvalore, è il 95 per cento.

Quale sarà stato al modo di ragionare dei borghesi il tasso di profitto? Dovremmo conoscere il valore delle materie trasformate. Non possiamo che supporlo, ponendo che in una industria bambina ogni operaio mediamente trasformi un valore circa quadruplo della paga. La materia rappresenterà 2000 contro 510 di paghe e 490 di lucri. Spesa totale di produzione 2510. Tasso di profitto alto: 19,6 %. Notate tuttavia che è sempre al di sotto del tasso del plusvalore.

Dopo il grande ciclo di allucinante ascesa, nel 1929, su 1000 di valore aggiunto al prodotto gli operai non ricevono più che 362, e 648 i capitalisti. (Non incominciate ad equivocare: fino al venerdì nero le paghe erano salite ed il tenore di vita operaio salito anche fortemente, ciò non contraddice). Ecco che il saggio del plusvalore o di sfruttamento è aumentato fortemente: dal 95 al 180 %. (Se dopo aver usato per una vita le corde vocali c’è ancora chi non capisce che si è sfruttati di più pure avendo più soldi e mangiando meglio, vada a letto: egli non capisce l’effetto della cresciuta produttività della forza lavoro che sta nella carcassa dell’operaio e finisce nella borsa del curnutissimo borghese).

Cerchiamo ora di valutare tutta la produzione. Ammetto (con la certezza che garantisce chi ha un poco di familiarità di costruire sintesi di essere sempre prudente contro la sua tesi, a favore di qualche spaccator di peli in quindici che si spassi a controllare)che si sia decuplicata la possibilità di lavorazione di materie, grazie ai macchinari, a parità di impiego di mano d’opera, dal 1848 al 1929. E allora se con 362 dati ai lavoratori invece di 510 le duemila di materie sarebbero scese a 1440, ecco che salgono invece a 14 000. Con la spesa totale investita in Lire 14 762, il lucro noto di 648 è il 4,2 %. Ecco la discesa del tasso di profitto! Non fate solo tanto di cappello a Marx, evitate di trarre il fazzoletto per asciugare le lacrime capitaliste di Uncle Sam! Avrete capito che cercavamo i tassi non le masse. Per farci un’idea sulle cifre globali della produzione, sia pure non con il valore effettivo ma con rapporto figurato fra due epoche, noteremo che i due blocchi che per il 1848 danno il prodotto lordo 3000 e per il 1929 il lordo di 15 400 si riferiscono a gruppi non dissimili molto per numero di produttori. Ma nell’ottantennio la popolazione operai è almeno decuplicata, per andar sempre con cifre tonde, e quindi il prodotto totale può ben valutarsi in 154 000, circa 50 volte il 1848. Sebbene il tasso del profitto padronale sia calato al 4 % medio, la massa del profitto risulta passata da 490 a 6840: tredici volte tanto. È ben sicuro che le nostre cifre sono troppo moderate, l’essenziale era ribattere che il capitalismo americano ha ubbidito alla legge del tasso ed ha fatto la corsa al massimo profitto. Stalin non può scoprirgli nuove leggi. Né l’abbiamo portato in conto la concentrazione; diamo a questa un indice dieci e il profitto medio all’industria americana si sarà (come massa) moltiplicato per 130. Ecco la corsa alla crisi, ecco le conferme a Marx.

Ci concediamo un altro calcolo anche più ipotetico. La classe operaia di America prende il potere con una situazione tipo 1929: ripetiamo: 14 400 materie in lavoro, 362 mano d’opera, 648 benefici, 15 400 prodotto totale.

E allora gli operai leggono Marx e usano
«la forza produttiva accresciuta del capitale con la semplice riduzione del lavoro vivente».
Un decreto del comitato rivoluzionario schiaccia la produzione a 10 mila (dove tagliare…vedremo allora, pensate solo che non faremo più elezioni presidenziali o altre…). Su questo lotto il lavoratore si contenterà di aggiungere ai suoi 362 di salario non già tutto il profitto (che è lordo di tasse e servizi generali) ma ben poco, per ora, e lo portiamo a 500. Per la ritenuta generale di conservazione degli impianti pubblici e di amministrazione statale addirittura preleviamo più dei 648 dei cessati capitalisti, ossia 700. Fatto il conto sono solo 8800 di materie lavorate al posto di 14 400 e se il numero degli operai è quello la giornata di ognuno cala del 62 % e circa da 8 a 5 ore. Un bel primo passo. Se calcolassimo la remunerazione oraria vedremmo di averla alzata del 120 %: da 45 a 100.

Non sarebbe ancora il socialismo. Ma mentre Stalin dove vede nel socialismo una legge nuova pretende di identificarla con quella capitalista, che con l’aumentata produttività del lavoro cresca la produzione, noi gli opponiamo la legge inversa: con la aumentata produttività del lavoro diminuisca lo sforzo, e la produzione o resti costante, o, dopo averne stroncato i rami capitalistici di tosco e di sangue, prenda a ricrescere per dolce curva, con umana armonia.

Finché l’appello allo sforzo frenetico di produrre echeggia, esso non può avere altro senso che quello della resistenza esasperata alla legge marxista del tasso. Perché il tasso possa scendere, ma non cominci a scendere anche la massa del plusvalore e del profitto, interviene la retorica forcaiola-progressiva, e grida ad una smarrita umanità: si lavori di più, si produca di più, e se data la loro remunerazione i lavoratori interni non sarebbero acquirenti prevedibili del sopraprodotto, si trovi il modo di esportare conquistando i mercati di fuori al nostro consumo! Questo il girone d’inferno dell’imperialismo, che nella guerra ha trovato la sua soluzione inevitabile, e nella ricostruzione di tutta una secolare attrezzatura umana distrutta la provvisoria via d’uscita contro la crisi suprema.

Tutte queste stesse vie sono seguite da Stalin: ricostruzione delle parti devastate, costruzione prima dell’arredamento capitalista in paesi immensi, ed oggi marcia verso i mercati. Tale marcia, da chiunque intrapresa, si fa per due vie: basso costo di produzione-guerra.

Chiuderemo questa esposizione della basilare legge di Marx con una nuova enunciazione del capitalismo che egli pone in Appendice – e che come sempre vale di programma sociale comunista (fine Cap. XV, libro III).

«Tre fatti principali della produzione capitalista:
1. Concentrazione dei mezzi di produzione tra le mani di alcuni individui. Tali mezzi di produzione cessano così di apparire come proprietà del produttore immediato, e si trasformano in poteri sociali della produzione. Dapprima tali potenze sono, egli è vero, proprietà privata dei capitalisti che ne intascano tutti i benefici.»

Di poi…Marx non lo scrive, ma vuol dire che tali figure personali secondarie possono sparire, e il Capitale resta Potenza Sociale.

«2. Organizzazione del lavoro come lavoro sociale, a mezzo della cooperazione (lavoro associato), della divisione del lavoro, e del legame tra lavoro e scienza della natura.
In tali due sensi il modo di produzione capitalista, sopprime, sebbene sotto forma diverse, la proprietà privata, e il lavoro privato.
3. Formazione del Mercato Mondiale»
.

• • •

Come di norma il Filo ha condotto dove doveva condurre. Sappia il lettore che la giornata non è trascorsa, ma solo giunta al mezzodì. Antimeriggio forse duro, pesante, da sinfonia wagneriana.

Sarà il pomeriggio di chiusura un più facile canto sul cammino aspro? Forse. «L’après-midi d’un faune»? Il Fauno non potrebbe che avere le forme gregge e le minacciose movenze del sanguinoso Marte.



Source: «Il Programma Comunista», Nr.3, 1952

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