LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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DIALOGATO COI MORTI (VI)


Content:

Dialogato coi morti – VI
Giornata terza (sera)
Povera e nuda vai, filosofia
I dogmatici, i talmudici, ritornello di Josif
A voi scolaretti
Alzatevi, voi laggiù
Rumori fuori della classe
Losco impiego di Lenin
Che resta di intangibile
Come hanno arricchito Marx
Apporti bocciati di Stalin
La funzione del partito
Manuale dei principii
Schemetto elementare
Senso del determinismo
Dove le «garanzie»?
Cattiveria del l’uomo?
Ventata di ossigeno
Esperti da mercato
La prima Internazionale
La rivoluzione industriale inglese
Gli altri capitalismi
Legge dell’accumulazione
Marx e Gladstone
Gli estremi di un secolo
Prospetto statistico
Notes
Source



Il XX Congresso del Partito Comunista Russo

Dialogato coi morti

Giornata terza (sera)

Povera e nuda vai, filosofia!

Nel rapporto svolto da Chruščëv per il Comitato Centrale, testo base del XX congresso, dopo le corrosive critiche a decenni di lavoro teorico degli storici e degli economisti, sono stati colpiti a loro volta i «filosofi» di Stato. Che il marxismo vada considerato come una «filosofia» tra tante altre, ossia come tante altre, è cosa su cui abbiamo altra volta fatta ampia riserva, e quindi questo servizio governativo filosofico, di cui d’altra parte si proclama una bancarotta totale, non ci pare cosa assai seria.

Parli in ogni modo Chruščëv:

«I compiti inerenti alla preparazione e all’educazione dei nostri quadri, negli istituti di insegnamento superiore e nella rete di studio del partito, rendono necessaria la creazione di un manuale di studio sui principii del marxismo-leninismo, in cui siano esposte in modo stringato, semplice e chiaro le più importanti tesi della dottrina marxista-leninista, e la preparazione di libri che illustrino in modo popolare i principii della filosofia marxista. Tali libri avrebbero grande importanza per la propaganda della concezione scientifica materialista, per la lotta contro la filosofia idealista reazionaria».

Da questa situazione emerge che per evitare che i super-professori delle accademie filosofiche dicano corbellerie, bisogna porsi a dirozzarli sulla base di manualetti, manco a dirlo «popolari», di propaganda contro le filosofie, ohibò, reazionarie.

I borghesi stessi da tempo hanno abolito i corsi di filosofia teoretica per sostituirli con quelli di storia della filosofia, e se si vuole delle filosofie. In qualunque schema si intende per filosofia reazionaria quella che faceva da sovrastruttura alle forme feudali di produzione: il fideismo. L’idealismo è la filosofia della rivoluzione borghese, ed i pretesi materialisti scientifici di Mosca se ne mostrano ad ogni passo impeciatissimi: altro che bollarlo dall’alto come reazionario, e orrore! – antipopolare. È desso, per eccellenza, la sola filosofia popolare.

Qui, nel paese di Chruščëv, non funziona né la scuola popolare, né l’istituto magistrale, ne l’accademia suprema da cui escono i pedagoghi dei pedagoghi: meglio dire, in stile alla moda cosmopolita, i trainers, gli allenatori degli attivisti adibiti alla propaganda tra le masse.

In ogni modo ha detto lo storico congresso che questo apparato ha deviato: cerchiamo di vedere in qual senso.

Non è difficile trovare la chiave del quiz. Si tratta di fedeli allievi del maestrino di scuola di campagna Stalin, che nello stesso tempo lo squalificano come commissario all’istruzione popolare, e (forse inconsci) ripetono i pezzetti che fece loro mandare a memoria.

I dogmatici, i talmudici, ritornello di Josif

Chi qualcosa intende sa che tutto siamo fuor che «trotzkisti»; e pure ricorderemo qui che tutti ammettono essere stato Leone il più forte contemporaneo scrittore di lingua russa – del resto per scritti rivoluzionari poco preme la lingua nazionale, e può credersi che venga tolta di sacristia anche la «Linguistica» di Stalin, secondo cui la lingua madre «non è una sovrastruttura» e permane sovrana al mutare delle forme di produzione e dei rapporti di classe.

La forma di Stalin nello scrivere, senza essere debole né inabile, è, in modo insuperabile, pedestre. Ha uno stile da scuoletta elementare, appunto, e se vi pare da seduta di «lascia o raddoppia». Domandina e rispostina secca, con ripetizione in serie degna dei dischi microincisi.

Ora, se cerchiamo, da così lunghi discorsi di Chruščëv, Mikojan, Suslov, Šepilov ed altri minori, di tirare fuori il nuovo verbo filosofico del XX congresso, non ci troviamo altro tra le mani che tre o quattro parole di Stalin: dogmatico, talmudico, pedanteria, scolasticismo e simili, con cui tutti nel tono più monocorde colpiscono, qui non Stalin, ma un innumere gregge di filosofi e scienziati funzionari – e di capi politici – che accusano di mangiare a ufo lo stipendio. Contro questo deplorato andazzo tutti elevano bandiere – di antichissima conoscenza – che abbiamo visto in mano a tutti i veri «sgarratori»; realtà, vita, costruttività, concretezza, e se vogliamo proprio trarne fuori le più alte «nuove» tesi, troveremo solo queste, non meno fruste: il marxismo creatore, ossia quello che dir si può il marxismo «ricreato», e l’arricchimento del marxismo, fenomeni che si ripeterebbero ad ogni passo del cammino storico.

Orbene, dato che ci si irroga ultimativamente di essere chiari, semplici, e stringati, come quei polemisti riforniti in serie ai «quadri», siamolo.

Prendiamo noi la parte dei dogmatici, dei talmudici, anche degli scolastici e perfino dei pedanti; assumiamo la difesa di un marxismo che non crea mai niente di nuovo e costituisce una costellazione di precise tesi incrollabili, e rifiutiamoci risolutamente, unguibus et rostro, di darlo in preda a questi che lo vogliono arricchire, rivendicandolo rigido e povero come è nato non dalla inflessibile miseria di Marx ma dal grembo della storia, quando e soltanto quando doveva di lui essere gravida.

Coincide invece con periodi di controrivoluzione, di rinculo di classe, di storica lunga involuzione delle forme sociali, il discorrere vuoto dei creativisti, e pretesi creatori; dei rinvenitori vantati di ricche conquiste inedite, in quanto esso rimastica viete e miserabili formule di cui l’ultimo spacciatore fu Josif, e che mal travestono le notissime, colle quali il marxismo ha leoninamente lottato ai tempi – in ondate – di Proudhon, Lassalle, Bakunin, Dühring, Bernstein, Sorel, e della paurosa marea di fango del 1914, allorché, sopra tutti, un atleta, un gladiatore dell’ortodossia rivoluzionaria, fece mordere la polvere a quelli, innumeri, che volevano crearne le falsificazioni, arricchirla del prezzo giudaico dei tradimenti: Lenin.

A voi, scolaretti!

Fermiamoci a mostrare come gli allievi hanno nel sangue lo stile, il frasario, la maniera bolsa del maestrucolo.

Chruščëv, anzitutto:

«Lottando contro le manifestazioni di negligenza nell’ulteriore elaborazione [!] della teoria marxista, noi non possiamo guardare alla teoria in modo dogmatico, come gente staccata dalla vita… la teoria non è una raccolta di formule e dogmi morti… ma una guida combattiva per l’azione… la teoria staccata dalla pratica è morta».

Non parlò diversamente da questo tono, e da quello dei passi che seguiamo a spigolare, nessuno dei capì proletari che passarono al servizio dei governi borghesi, della guerra nazionale. Ma anche nessuno di coloro fraseggiò così triviale, come questi d’oggi.

E dopo:

«Coloro che pensano che il comunismo possa essere costruito soltanto con la propaganda [ma la bestia è chi pensa ad una qualunque ricetta per costruirlo in cantiere come un manufatto borghese!] senza una lotta pratica per aumentare la produzione [una tessera al ‹fustigatore› delle classiche galere!] per elevare il benessere [dieci tessere alla scuola di Keynes!] costoro scivolano sulla via del talmudismo e del dogmatismo».

A voi, Mikojan, demolitore di Josif:

«Il partito, il Comitato Centrale, applicano creativamente la teoria del leninismo nell’attuale fase di sviluppo della società e arricchiscono in pari tempo il marxismo-leninismo».

Di queste «ricchezze» sappiamo già molto: passaggio democratico del potere, imperialismo senza guerra, rinunzia alla violenza, disciplina costituzionale, imitazione delle vittorie del capitalismo come fabbrica di benessere, onesta gara con esso, cambiale firmatagli (oggi a Londra domani a Washington) di non sfotterlo più. Arricchite il marxismo un altro tantino (avete l’indice relativo nel Sesto Piano Quinquennale?), e lo avrete «mandato pezzendo»!

Mikojan è troppo brillante per citarlo senza interrompere.

«La maggior parte dei nostri teorici non fa che ripetere e travestire in forme diverse citazioni, formule e tesi già note».

Scandalo enorme! Ma teoria che vuol mai dire? Vuol dire seguito ordinato di conclusioni; letteralmente «corteggio» di gente di cui una fila non scavalca l’altra. Questa critica può andare ai poeti, non ai diffonditori di dottrina organizzata. Ma sappiamo che fanno schifo soprattutto gli artisti: lo dice altrove lui stesso, Mikojan. E prosegua.

«Può esistere scienza senza creazione? No, senza creazione si fa soltanto lo scolasticismo, l’esercitazione scolastica, non la scienza, che è anzitutto creazione, costruzione del nuovo, e non ripetizione del vecchio».

Se dovessimo noi poverini scrivere il manuale di filosofia marxista (da Mosca con questi prodromi è sicuro che verranno manuali scritti… coi piedi) vi accoglieremmo questa ben trovata formula; Scienza è ripetizione del vecchio. Quanto alla «scolastica» scriveremmo che è quella filosofia che si incardina sulla «creazione»; e senza creazione lo scolasticismo finisce. La teoria della creazione la mettiamo in ordine così. Dubitiamo che Dio abbia creato Mikojan: questi poi non ha creato nulla; a meno che non si legga quello che dice alla rovescia.

«Il XX congresso darà un serio impulso ai militanti del fronte ideologico [un fronte ove anche il caporale è invitato a militare improvvisando le mosse!] perché si accingano ad un lavoro creativoarricchiscano il patrimonio ideale del marxismo-leninismo… ([ed infine, in una terza battuta, creata… ruminando] per assicurare l’arricchimento creativo del marxismo».

Febbre di originalità!

Alzatevi voi, laggiù!

Basta, chiamiamo quelli dei banchi di dietro. Suslov:

«Il nostro lavoro si svolge… in una ripetizione meccanica di note formule e tesi, con il risultato che si formano dei pedanti, dei dogmatici, staccati dalla vita. La nostra propaganda era prima rivolta verso il passato, verso la storia [!], a scapito dell’attualità».

Ci siamo, per tutti i diavoli! Ecco un autentico emulatore delle disgustose mode dei parvenus borghesi, che non sanno un canchero, ma sono in grado di batterci con il loro idiota quesito: ah, non sapete l’ultima? Tenetevi aggiornato!

«Il partito non ha mai tollerato il dogmatismo, ma la lotta contro di esso ha oggi assunto una particolare acutezza».

E qui un grido del cuore, in cui è tutta la magagna del carrierismo, della corsa personale a «sfondare»:

«Non vi ha dubbio che alla diffusione del dogmatismo e della pedanteria ha fortemente contribuito il culto della personalità. I fautori di questo culto hanno attribuito lo sviluppo della teoria marxista soltanto ad alcune persone che seguivano ciecamente. Il solo compito degli altri mortali [chi erano costoro, dunque?] era quello di assimilare e popolarizzare le creazioni di questi singoli».

Magnifico! Questi signori hanno deciso di liquidare le «alcune persone». Ma non sanno recitare che la stessa lezione. Se hanno assimilato! Se hanno popolarizzato! Intanto disonorano Stalin, in quanto il peggio che lui dettò lo portano inchiodato nelle testucole proprio quando vaneggiano: via, largo a noi, vogliamo creare anche noi. Jehova, non sei che un miserabile demiurgo! dice il classico diavolo, esule sulla terra, di Anatole France.

Si «allinea» lo Šepilov: quando questi impazienti «creatori», tenuti finora al guinzaglio, ci porteranno un pugno di farina del proprio sacco? Essi non fanno che profittare del fatto che il maestro è stato imbalsamato, e non può urlare: zero in profitto: compito copiato parola per parola!

«Noi comunisti marxisti non siamo dei passivi custodi dell’eredità marxista-leninista, non siamo degli archivisti dell’ideologia [bravi! Siete eredi che per non essere volgari custodi dell’asse paterno lo arricchiscono mangiandoselo fino all’ultimo spicciolo!]. Il lavoro ideologico non legato ai compiti vitali dell’edificazione economica e culturale si trasforma o in una ripetizione talmudica e dogmatica di note verità e tesi, oppure in vaniloquio e incensamento».

Nella prima «giornata» abbiamo dato al lettore un modico saggio di «incensamento» a Stalin svolto da tutti i nominati suoi discepoli «ad litteram» di antitalmudismo e antidogmatismo.

Si chiude, o non piuttosto si inizia più fertile, la stagione del vaniloquio?

Rumori fuori della classe

Se tutti questi fedeli allievi hanno con mossa uniforme dato mano ad estintori della stessa marca, e lanciato getti della stessa equivoca schiuma, una ragione vi è certamente. Tutto non è morto nella Russia della Rivoluzione, ed una fiamma vi arde ancora! Vi sono ancora vecchi marxisti, compagni di lotta di Lenin, e di tutti gli altri che oggi con gesto supremamente farisaico sono «riabilitati», autentici bolscevichi di razza, credenti nel dogma della rivoluzione che travalica ogni frontiera: è viva nella giovane generazione la tradizione incancellabile di tutta questa dinamica del «passato», dinanzi al quale lo stamburato presente è sinistro, pallido e vile.

Vi sono fastidiose, pedanti, citazioni di Marx, Engels, Lenin, anche se da anni sono «illegali» quelle di altri teorici del calibro di Trotzky, Zinoviev, Bucharin. Vi sono ancora dei compagni che hanno fede in un archivio, e che non credono di «staccarsi dalla vita» alimentandosi alla storia della lotta mondiale del bolscevismo, quando i suoi traguardi erano Berlino e Vienna, Parigi e Roma, ed era sua la leniniana alternativa: nel mondo, o dominio della borghesia, o del proletariato! Nessuna via di mezzo!

Vi sono ancora, per fortuna, e per legge storica, dogmatici credenti in quanto Lenin scrisse e promise; e anche se quelle formule fossero ripetute con ingenuità, e cecità perfino, essi starebbero più in alto della congressuale cucina di atteggiamenti su misura, colle sue vomitive ricette moderne, ed occhiute.

La stessa stentata difesa, da parte dei «creativisti», di una residua fedeltà dottrinale, nel suonare falsa e stonata, conferma questa situazione.

Chruščëv:

«Salvaguardare scrupolosamente la purezza della teoria marxista, condurre una lotta decisa contro le sopravvivenze dell’ideologia borghese nella coscienza degli uomini».

Suslov:

«Il marxismo leninismo deve svilupparsi… rispettando i suoi principii intangibili, lottando in modo intransigente contro tutti i tentativi di revisionarli».

E così anche altri, dai banchi.

Altrettanto suona falso il tentativo poco fortunato di salvarsi, dopo aver tanto deplorato il considerare sacri i testi, con citazioni di Lenin, che si pretende di truccare come autore di tante «creazioni» infauste, a lui posteriori (ed oggi si confessa che a tale solo fine si è fatta una selezione; ed una grande massa dei suoi scritti è rimasta fuori dalla gigantesca Organizzazione per darne l’Opera Omnia).

Anche qui gli scolaretti mostrano la corda. La citazione base, più che sfruttata, è copiatissima da Stalin, e col sistema classico di Stalin.

Losco impiego di Lenin

È il vero sistema dei rigattieri della dottrina: indicare un volume della serie ufficiale, ed una pagina del volume, essendo certi che purga e censura hanno vagliata tutta l’edizione, come quando il cattolico cita il testo canonico degli Evangeli. E tacere ad arte la data e il tema dello scritto, ossia il suo sfondo storico, la direzione di battaglia in cui lo scrisse chi non era un costruttore di archivi, ma un lottatore, lui sì, dell’azione rivoluzionaria; Quando Lenin ha scritto[14] queste parole (salvo controllo):

«Noi non consideriamo affatto la teoria di Marx come qualche cosa di completo e di intangibile: siamo convinti soltanto che essa ha posto soltanto le pietre angolari di quella scienza che i socialisti devono fare progredire in tutte le direzioni, se non vogliono restare indietro dalla vita. Noi pensiamo che per i socialisti russi sia particolarmente necessaria un’elaborazione indipendente della teoria di Marx, poiché questa teoria ci dà solo le tesi direttive generali, che si applicano in particolare all’Inghilterra in modo diverso che alla Francia, alla Francia in modo diverso che alla Germania, alla Germania in modo diverso che alla Russia»?

Lenin era allora in fiera lotta con due ali del movimento anti-zarista russo: i populisti che rifiutavano di ammettere il marxismo, pretendendo che in Russia avessero compito socialista i contadini proprietari, e non gli operai – i «marxisti legali», che, colla solita versione dell’Inghilterra economica, e dell’Europa politica, deducevano, dal marxismo, la conclusione che in Russia, per lottare contro le imprese capitaliste, occorreva tenere una legalità neutrale verso il governo autocratico. A Lenin occorreva da allora costruire il metodo rivoluzionario che unisse l’azione immediata colle armi agli scopi proletari classisti, e poneva contro coloro le basi del suo monumentale edifizio storico.

Lenin giovane non poteva sapere, come noi, da Lenin adulto, che la teoria è proprio dall’origine «completa e intangibile», e che chi di leggeri ne molla un lembo, la perde tutta. Comunque già nella sua formula giovanile sono poste al centro della teoria di Marx le pietre angolari e le direttive generali valide ovunque. Quali sono queste? L’opera intera e la vita di Lenin rispondono, e non due frasi.

Quali, domanderemo al lontanissimo discendente Šepilov, sono dunque i «principii intangibili» anche in sede di creatività e di arricchimento? Che cosa è rimasto in piedi, per il XX congresso, delle pietre angolari di Lenin?

A questo modo sleale di citare Lenin abbiamo contrapposto lo studio in ordine storico dei suoi scritti, nello svolgimento della lotta rivoluzionaria di Russia, ed i lettori vi troveranno, ad esempio, abbastanza a proposito della frottola di Mikojan e C., di mano staliniana, sulla posizione di Lenin nel 1917 per una pacifica conquista del potere.

Qui ci basta dire che, come tutte le citazioni maneggiate al XX congresso sono di seconda mano da Stalin maestro (mentre proprio in forza di esse si pretende di lasciare Stalin per tornare a Lenin!), così quella prima data l’abbiamo presa dal discorso dello stesso Stalin al XVIII congresso, tenuto come già abbiamo detto il 10 marzo 1939.

Che resta di intangibile?

Il nostro diritto di tenerci Lenin dalla banda dei «dogmatici» sta nel fatto che egli stesso, fin che visse, tenne questo termine come titolo d’onore, e come contrapposto di opportunista e di «libero critico».

Il primo capitolo del classico «Che fare?», che è del 1902, si intitola appunto: «Dogmatismo e ‹libertà di critica›». È tutto un attacco contro il revisionismo russo e internazionale, e la nota a piè di prima pagina dice proprio:

«Ai nostri giorni fabiani inglesi, ministeriali francesi, bernsteiniani tedeschi, critici russi si armano insieme contro il marxismo ‹dogmatico›. È la prima battaglia veramente internazionale con l’opportunismo socialista».

Nell’esposizione della questione agraria, e nel mostrare l’ortodossia marxista di Lenin in questa, abbiamo altra volta riprodotta (da «La questione agraria e i critici di Marx», 1901) il passo di apertura e l’invettiva a Černov, che vantava di avere sloggiato il «marxismo dogmatico» dal campo delle questioni agrarie. Questo marxismo dogmatico, Lenin scrive, ha una strana proprietà: gli scienziati lo danno sempre per morto, e poi ricomincia il bombardamento contro di esso…

Successivamente la vecchia bombarda è passata nelle mani di Stalin, che di suo ha, genialmente, creato il supplemento: talmudico – poi a quelli del XX congresso che, per quanto in isterica fregola di arricchire, non hanno creato nient’altro.

A noi preme solo stabilire che facendo nostra questa bandiera del dogmatismo, non ci attribuiamo il merito di nessuna creazione, e tampoco arricchimento della teoria, e nemmeno della teoria e storia dell’opportunismo, tabe inesausta.

Eppure dalle manacce di Stalin si salvava ancora qualcuna delle «pietre angolari», e qualche principio veniva ancora lasciato intatto; mentre è chiaro che per i guanti glacés dei messi viaggiatori del XX congresso di intangibile non resta nulla, se, come da titolo dell’«Unità», Eden ha loro degnamente «donné la réplique» della pacifica coesistenza, colle storiche parole: «il mondo oggi può sentirsi più sicuro»!

Infatti in quello stesso testo Stalin non può non citare di nuovo Lenin nelle parole («Opere – quasi – Complete», XXI, 393):

«Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono, in un modo o nell’altro, ma in ultima analisi obbligatoriamente una dittatura della borghesia [qui ha sottolineato lui, ossia non noi: Lenin, o lo stesso Stalin!]. Il passaggio dal capitalismo al comunismo, naturalmente, non può che dare un’enorme abbondanza e varietà di forme politiche; ma la sostanza sarà inevitabilmente la stessa: la dittatura del proletariato [id. come sopra]».

Malafede porca dunque quando si dice che resta un qualche cosa, che non si vuole toccare, revisionare, ricreare, arricchire. E chi doveva essere il più pacchiano, e dire: «la via che voi russi, fedeli agli insegnamenti di Lenin, avete seguita, non è obbligatoria per gli altri paesi»?

Domanda facile facile; una lira per la risposta esatta: il delegato del partito italiano.

Come hanno arricchito Marx

I compagni di Francia hanno procurata, con salvataggio in extremis, una copia della seconda edizione del «Manuale di Economia politica», «achevé d’imprimer le 17 mars 1956»… pour vivre l’espace d’un matin; a cura dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, Istituto di Economia.

Testo stalinista spaccato, con mezza mole dedicata all’«economia politica del modo socialista di produzione». Può anche darsi che tutto ciò resti ufficiale, ma non quanto ne andiamo a trarre per chiudere questa questione dell’evolvere della teoria.

Prefazione: dato il loro a Marx ed Engels, bene o male formulando, a Lenin si attribuisce di avere arricchita la scienza economica marxista con la teoria dell’imperialismo, fornendo «i primi elementi della legge economica fondamentale del capitalismo moderno».

Che è ciò? Una legge che Marx non sognava nemmeno, e lasciò la cura di scoprire in pieno… a Stalin. Lenin poi è l’autore di una teoria nuova, completa, della rivoluzione socialista (si capisce salvo a vederne una più nuova di Stalin, e di ChruščëvTogliatti). Egli avrebbe poi data una soluzione scientifica ai problemi dell’edificazione del socialismo e del comunismo… e dopo tanto non ci stupisce che tra gli accademici di alto livello che hanno steso il testo vi sia il nostro Šepilov.

Infatti, a scanso di incensamenti, si aggiunge dopo che «Stalin, il grande compagno d’armi e il discepolo di Lenin, ha formulato e sviluppato un certo numero di nuove tesi» (!).

Le ulteriori, però, crediamo che l’Accademia le metterà a concorso con banda internazionale.

Naturalmente (a pag. 287 e segg.) vi è il capitolo sulla legge di ineguale sviluppo. Vi è la formidabile bugia che «Marx ed Engels, studiando a metà del secolo XIX il capitalismo premonopolista [vedi sopra la nostra citazione di Lenin sul capitalismo unico, di cui l’imperialismo è semplicemente una ‹soprastruttura›, politica, militare, dittatoriale, prevista in tutto da Marx], furono condotti a concludere che la rivoluzione socialista non poteva vincere che simultaneamente in tutti i paesi o nella maggior parte dei paesi civilizzati». Lenin sarebbe arrivato poi alla conclusione che la vecchia formula di Marx ed Engels non rispondeva più alle condizioni storiche, e non solo che la rivoluzione socialista poteva trionfare in un solo paese, ma perfino (udite!) che la vittoria in tutti i paesi o nella più parte di essi era impossibile (!!!) Ne abbiamo dunque sentite balle da quel filone di Vladimiro Lenin negli anni dopo il 1918, in cui per poco non ci prese tutti a sante pedate perché non gli portavamo la rivoluzione in tutta la Europa! Ma se aveva scientificamente scoperto che era impossibile? Per la legge dell’ineguale sviluppo?!

Sapete la legge dell’ineguale sviluppo delle accademie? Stalin non la doveva sapere: sta in una commedia italiana del buon Ferrari, ottocentesca: le accademie si fanno, oppure non si fanno!

Dobbiamo propinarvi altra prosa accademica. Nel pasticcio che segue, Lenin figura avere scoperto che nel periodo imperialista i paesi capitalistici formano una catena più stretta, e che la rivoluzione può afferrare l’anello più debole. Bene, ma a qual fine? Per dichiarare agli altri che è impossibile spezzarli? Per questo ci vuole Stalin e peggio di Stalin, ci vuole Chruščëv, Šepilov, Togliatti o Thorez. Una successiva palinodia attribuisce a Lenin una visione del cammino della rivoluzione mondiale, che è propinata come anticipo del metodo di distaccare satelliti per la Russia dal «campo imperialista».

Ma oggi perfino quelli, auspice Tito, pare si vogliano mollare, usare come zavorra!

Comunque qui si gioca sempre sull’equivoco fra trionfo della rivoluzione politica e trasformazione economico-sociale e si avanza coperta la carta falsa dell’edificazione dell’economia socialista, del socialismo «prefabbricato».

Apporti bocciati di Stalin

Alla fine della parte sull’economia capitalista il «Manuale» fa proprie le tesi di Stalin che hanno dato sui nervi a Mikojan. Per Stalin la crisi storica finale del capitalismo si è riaperta dopo la seconda guerra mondiale, ed è richiamata la formula della sottoproduzione cronica delle aziende capitaliste e della disoccupazione permanente; tesi imprudenti che al XX congresso, mano tesa alla scienza economica di occidente, vengono – esse sole – decisamente rimangiate.

Ne segue che il «Manuale» verrà ritirato e rifatto, come al congresso è stato annunciato; e che la stessa sorte dovrà avere il Programma del Partito russo.

Noi riteniamo che tutta la parte di falsa dottrina economica staliniana resterà, peggiorata, in piedi, ossia la descrizione della società russa come tipo di economia socialista. Resteranno in piedi l’apocrifa nuova teoria di Lenin sulla rivoluzione socialista, e di Stalin sull’economia, in cui le classi del proletariato e dei contadini figurano come classi definitivamente amiche, nella lotta politica come nell’«edificazione» economica.

Di passo in passo il «Manuale» cita le ben note dette frasi degli scritti di Lenin, per farne il governo triste che sappiamo.

Il lato più insidioso dello svolto tracciato al XX congresso consiste nel preteso ritorno ad un legame, più stretto che al tempo di Stalin, colla dottrina di Marx e Lenin. Ma questa viene trattata nella stessa maniera, che sotto Stalin e da tutta la banda è stata introdotta. È prevedibile senza dubbio alcuno che il passo che si fa oggi verso la dichiarazione di un’identità ideologica e di programmi sociali coi paesi capitalistici, verso quella che da anni noi abbiamo chiamata la Grande Confessione, sarà presentato con argomenti teorici tratti alla scuola marxista: ed infatti si dichiarerà un rapporto sostanzialmente autentico. Ma storicamente e politicamente sono andati nello stesso senso i due trapassi: dalla dichiarazione al capitalismo di volerlo abbattere ovunque sul fronte di classe, a quella di voler coesistere con esso sul fronte degli Stati, pure ritenendo che l’imperialismo lo conducesse alla guerra e al crollo – e poi da questa posizione a quella dell’emulazione pacifica e di confronto, nella previsione della definitiva pace degli Stati, e della interna pace democratica delle classi in ogni Stato.

L’uno e l’altro svolto storico danno per noi ragione a Marx e a Lenin. Ma è inevitabile, per quanto orripilante, che in tutto questo ancora per molto le pagine grandiose di Lenin, e anche di Marx, servano da foglie di fico sulle patologiche vergogne di un nuovo e più infame opportunismo, che grazie al fascino di quei nomi tenterà una volta di più di trascinare nell’abisso il proletariato mondiale.

La funzione del partito

A leggere i discorsi di Mosca sembra che una almeno delle pietre angolari di Marx e di Lenin resti al suo posto: la necessità e la funzione di prima linea del partito politico di classe.

La questione del partito e dei suoi rapporti con lo Stato fu al centro della lotta spietata con l’opposizione russa. Mentre questa reagiva al fatto che con l’apparato statale e la sua polizia si colpivano e mettevano fuori combattimento i membri del partito comunista, che doveva nello Stato essere considerato il portatore della dittatura di classe, e il vero «soggetto di sovranità», al solito si insultarono Trotzky e Zinoviev come quelli che volevano rompere il partito nella sua unità, e sabotarlo. Essi risposero fieramente rivendicando la dottrina di Marx e di Lenin sulla natura e la funzione del Partito politico di classe, cui erano stati da sempre fedeli.

Oggi, mentre nulla si dice (e pure Stalin affrontava nei precedenti congressi, per quanto infrequenti, il problema) sulla questione dello Stato e della sua permanenza massiccia, mentre contraddittoriamente si pretende di avere raggiunta una società senza classi destinate a sparire, e «oggetto di sovranità», oggi si afferma però ancora, e dopo avere trovato fra tutti il solito la, perfino pappagallesco, che il partito deve continuare ad essere l’organo supremo che maneggia, giuste le sue direttive programmatiche e le sue decisioni, la macchina statale.

Ma è chiaro che anche questa posizione si va scomponendo. Il sintomo si trova facilmente tra i caudatari dell’estero. Infatti come mantenere tal punto, e lanciare oltre frontiera, colle altre, la parola d’ordine di rimediare alle scissioni leniniste, ricostituendo l’unità dei partiti «operai», e traendo nel loro fronte anche quelli delle classi medie? La labilità anche in questo delle enunciazioni date a Mosca emerge dal contegno dei seguaci più cinici. Il peggio viene dall’Italia, al solito. Nenni ha fatto dure dichiarazioni su quello che, per lui e per la sua corta visione, forma il nuovo corso: nella stessa sua trivialità ha detto il vero. Non è al grado coi suoi pari di avere scrupoli teorici, e neppure ha e sa tanto da simularli.

Il concetto del rapporto tra partito e Stato, che è tutto solidamente contenuto nei testi marxisti e nella storia della lotta di classe, dal «Manifesto» in poi, viene scosso da coppie di calci. «Il concetto leninista della funzione dirigente del Partito nello Stato è ancora valido? È ancora il partito lo strumento adeguato» per guidare la vantata azione creativa delle masse? «Deve il partito stare, come sta, sopra lo Stato, anche nella gerarchia che colloca [ma vedete un po’che roba!] il segretario del partito prima del Presidente del Consiglio?».

La risposta è data senza esitare: il partito deve cessare di essere unico, deve allo stesso grado di ogni altro tornare sotto lo Stato parlamentare, e peggio, questo deve sottostare, più che al succedersi democratico dei partiti, alla superiore guida di una magistratura togata.

Queste cretinerie togate sono il colmo del ridicolo che la penosa vicenda di Russia attira, insieme all’infamia, sulle conquiste proletarie circa il partito, lo Stato, la dittatura, che splendevano trent’anni addietro di luce abbagliante, e che oggi si annebbiano se solo ondeggia la coda di un quadrupede ragliante.

Manuale dei principii

Non è giusto dire che il guazzabuglio ideologico venga solo da oltre cortina. La miseria teorica è insita nel trapasso che il XX congresso ha sbandierato tra la direzione personale di Stalin, sostenuta dal culto della personalità, e la nuova direzione collegiale, legata non si sa poi come ad una nuova legalità comunista nello Stato e alla democrazia interna nel partito. Qui non una sola parola è nel suo luogo, e questa lotta al culto della personalità non ci darebbe alcun motivo di soddisfazione, anche se non fosse, come abbiamo dimostrato all’inizio, soltanto una nauseante commedia.

Che mai vuol dire culto della personalità, e chi mai lo ha instaurato e affermato, in Russia o altrove? È veramente esistito questo strapotere individuale? Esso altro non è che una frottola romanzata al solo fine di diffamare il sano e robusto concetto della dittatura, che si vuole da filistei ridurre a quello dell’imposizione autocratica. Il fideista riserva il culto a figure di oltre natura ed oltre vita, e non divinizza il capo sociale. L’illuminista e l’idealista critico smontano l’autorità che sia trasmessa dal potere ultraterreno a un uomo che, anche se è Re travicello, personifica un istituto superato: mettono tutti sullo stesso piano di partenza, divinizzano se mai la volontà popolare, il dubbio personaggio di Demos. Il marxismo, e qui avreste bisogno del trattatino storico-filosofico, non fa pernio né su una Persona da esaltare, né su un sistema di persone collettivo, come soggetti della decisione storica, perché trae i rapporti storici e le cause degli eventi da rapporti di cose con gli uomini, tali che si portino in evidenza i risultati comuni a qualunque singolo; senza pensare più ai suoi attributi personali, individuali.

Siccome il marxismo respinge come risolvente della «questione sociale» ogni formulazione «costituzionale» e «giuridica» premessa alla concreta corsa storica, così non avrà preferenze e non darà risposta alle questioni mal messe: deve decidere tutto un uomo, un collegio dì uomini, tutto il corpus del partito, tutto il corpus della classe? Anzitutto non decide nessuno, ma un campo di rapporti economico-produttivi comuni a grandi gruppi umani.

Si tratta non di pilotare, ma di decifrare la storia, di scoprirne le correnti, e il solo mezzo di partecipare alla dinamica di esse, è di averne un certo grado di scienza, cosa assai diversamente possibile in varie fasi storiche.

E allora chi meglio la decifra, chi meglio ne spiega la scienza, l’esigenza? Secondo. Può essere anche uno solo, meglio del comitato, del partito, della classe. E consultare «tutti i lavoratori» non fa fare più passi che consultare tutti i cittadini colla insensata «conta delle teste». Il marxismo combatte il laburismo, l’operaismo, nel senso che sa che in molti casi, nella maggior parte, la delibera sarebbe controrivoluzionaria ed opportunista. Oggi non si sa se il voto andrebbe alla padella o alla brace: Stalin o gli Anti-Stalin. Difficile perfino escludere che sarebbe la seconda la fregatura maggiore. Quanto al partito, anche dopo la sua elezione da quelli che per principio negano le «pietre angolari» del suo programma, la sua meccanica storica neppure si risolve con «la base ha sempre ragione». Il partito è un’unità storica reale, non una colonia di microbi-uomo. Alla formula che dicono di Lenin di «centralismo democratico» la sinistra comunista ha sempre proposto di sostituire quella di centralismo organico. Quanto poi ai comitati, moltissimi sono i casi storici che fanno torto alla direzione collegiale: non qui dobbiamo ripetere il rapporto tra Lenin e il partito, Lenin e il comitato centrale, nell’aprile 1917 e nell’ottobre 1917.

Il migliore detector delle influenze rivoluzionarie del campo di forze storiche può, in dati rapporti sociali e produttivi, essere la massa, la folla, una consulta di uomini, un uomo solo. L’elemento discriminante è altrove.

Schemetto elementare

È noto che siamo schematici. Possono vedersi al riguardo le tesi dei congressi comunisti italiani e mondiali, sostenute dalla sinistra al tempo dell’Internazionale Comunista. Si videro anche rivolte sanissime di partiti ai comitati, come alla conferenza illegale del 1924 nelle Alpi del Partito Comunista d’Italia, da oltre un anno tenuto dalla corrente centrista: non solo votò per l’opposizione di sinistra la grandissima maggioranza degli iscritti, ma perfino quella dell’apparato centrale. Nessuno si meravigliò da nessuna parte e il comitato non «cadde» per questo. È caduto per ben altre vie: comanda ancora, con Stalin e senza.

Dunque la questione dell’azione e di che cosa la guida (?) si può ridurre in tre tempi principali.

Apparizione di un nuovo modo di produzione, come quello capitalista industriale. Rivoluzione politica con cui la classe che in esso controlla i mezzi di produzione va al potere, e fonda il suo Stato. Apparizione della classe che in quella nuova forma dà la propria opera senza partecipare al controllo sociale: il proletariato. Il concetto di classe per Marx non è in questa constatazione descrittiva, ma nel manifestarsi di azioni comuni (che sono determinate da comuni condizioni) in primo tempo non volute né deliberate da nessuno. Formazione di una nuova teoria-programma della società, che si oppone a quella apologetica della classe dominante. Solo da questo punto (si capisce con infinite complicazioni, avanzate e rinculi) abbiamo la «costituzione del proletariato in partito politico», e solo da questo momento una classe storica. Quindi, condizioni storiche perché agisca una nuova classe: teoria – organizzazione politica di classe.

Secondo stadio. Con queste condizioni la nuova classe conduce la lotta per scacciare l’altra dal potere. Nel caso che esaminiamo, costituzione del proletariato in classe dominante. Distruzione del vecchio Stato. Nuovo Stato. Dittatura di classe, il cui soggetto è il partito. Terrore (anche la rivoluzione borghese ha avuto tali fasi, come ogni rivoluzione).

Terzo stadio. Transitorio in senso storico ma lungo e complesso. Sotto la dittatura del partito sono successivamente infranti i rapporti di produzione difesi dalla vecchia classe, e che sbarravano la via a nuove forze produttive. Vengono gradualmente estirpate le influenze ideologiche di ogni natura e di costume cui la classe proletaria era soggetta. Le classi spariscono, dopo la rivoluzione del proletariato moderno, ma prima di sparire seguitano a lottare, in posizione rovesciata. Con esse sparisce l’apparato di forza dello Stato.

Tutto questo sembra inutile ripetizione. Abbiamo messi un momento tutti i pezzi bianchi e neri al proprio posto per farci fare la domanda antica: dove prendiamo la coscienza, la volontà, la «guida» dell’azione? E, se volete, l’autorità? Non abbiamo lasciato nessun pezzo disoccupato, fuori della scacchiera.

Nel citare Lenin non si sono accorti di una magnifica sua costruzione, che giunge a ben altro, che al… Comitato Centrale.[15]

«La classe operaia… nella sua lotta in tutto il mondo… necessita di un’autorità… nella misura in cui il giovane operaio necessita della esperienza dei combattenti più anziani contro l’oppressione e lo sfruttamento… dei combattenti che hanno preso parte a molti scioperi e a diverse rivoluzioni, che hanno acquistato saggezza per le tradizioni rivoluzionarie ed hanno quindi un’ampia visione politica. L’autorità della lotta mondiale del proletariato è necessaria ai proletari di ogni paese… Il corpo collettivo degli operai di ogni paese che conducono direttamente la lotta sarà sempre la massima autorità su tutte le questioni».

Il centro di questo passo sono i concetti di tempo e di spazio portati all’estensione massima; tradizione storica della lotta, e campo internazionale di essa. Noi aggiungiamo alla tradizione il futuro, il programma della lotta di domani. Come si convocherà da tutti i continenti e sopra tutti i tempi questo corpus leniniano, cui diamo il potere supremo nel partito? Esso è fatto di vivi di morti e di nascituri: questa nostra formula non l’abbiamo dunque «creata»: eccola nel marxismo, eccola in Lenin.

Chi ciancia ora di poteri e di autorità affidate a un capo, a un comitato direttivo, a una consultazione di contingenti corpi in contingenti territori? Ogni decisione sarà per noi buona se starà nelle linee di quella ampia e mondiale visione. Può coglierla un occhio solo, o milioni di occhi.

Questa teoria eressero Marx ed Engels, da quando spiegarono contro i libertari, in quale senso sono autoritari i processi delle rivoluzioni di classe, in cui l’individuo sparisce, come quantité negligeable, coi suoi capricci di autonomia, ma non si subordina a un capo, a un eroe, o a una gerarchia di passati istituti.

Altro che la storia fasulla e meschina degli ordini feroci e sinistri di Stalin, e della riverenza per lui, fattori che avrebbero costruito, a creder dei gonzi, decenni di storia!

Senso del determinismo

Per il determinismo conta nulla la coscienza e la volontà di un individuo: la sua azione è determinata dai suoi bisogni e dai suoi interessi, e poco importa come egli formuli la spinta che egli crede, a cose fatte, avere svegliata la sua volontà, di cui si accorge in ritardo. Questo vale per quelli in basso e in alto, miseri e ricchi, umili e potenti. Dunque non troviamo noi marxisti nulla nella persona, nelle persone; e nella «personalità», povera marionetta della storia, tanto meno. Più è nota, da più fili è tirata. Per il nostro grandioso gioco essa non è un pezzo, nemmeno una modesta pedina. Ma negli scacchi v’è il Re? Si, colla sola funzione di farsi fottere.

Nella classe l’uniformità, il parallelismo di situazioni crea una forza storica, una causa di sviluppo storico. Ma l’azione precede egualmente la volontà, e più la coscienza di classe.

La classe assurge a soggetto di coscienza (di fini programmatici) quando si è formato il partito, e si è formata la dottrina. Nel cerchio più stretto che è il partito, come organo unitario, si comincia a trovare un soggetto di interpretazione del cammino storico, delle sue possibilità e strade. Non sempre, ma solo in certe rare situazioni dovute a pienezza dei contrasti nel mondo della base produttiva, nel soggetto «partito» ammettiamo, oltre alla scienza, anche la volontà, nel senso di una possibilità di scelta tra atti diversi, influente sul moto degli eventi. Per la prima volta la libertà, non dignità di persone, appare. La classe ha una guida nella storia in quanto i fattori materiali che la muovono si cristallizzano nel partito, in quanto questo possiede una teoria completa e continua, un’organizzazione a sua volta universale e continua, che non si scomponga e componga ad ogni svolta con aggregazioni e scissioni; queste sono però la febbre, che costituisce la reazione di un simile organismo alle sue crisi patologiche.

Dove le «garanzie»?

Dove dunque trovare le garanzie contro la degenerazione, il disfacimento del corso del movimento, del suo partito? In un uomo è poco; l’uomo è mortale, è vulnerabile dai nemici. È, se unico, pessima fragile garanzia, anche se in un solo la si credesse mai insita.

Prenderemmo tuttavia sul serio il gran vantare di avere trovato la garanzia collegiale, dopo la scomparsa di un capo, che dirigeva a suo arbitrio? Tutto ciò non è serio. In Russia tutto è stato perduto, e nulla resta da salvare. Comunque il disfacimento sotto Stalin mostra lati meno deteriori di quelli che ora, deviando da lui, si vengono mostrando, mentre delle sue magagne nulla si vede, e non si potrebbe vedere, corretto.

Le nostre garanzie sono note e semplici.

1. Teoria. Come abbiamo detto non nasce in una fase storica qualunque, né attende per farlo l’avvento del Grande Uomo, del Genio. Solo in certi svolti può nascere: delle sue «generalità» è nota la data, non la paternità. La nostra dovette nascere dopo il 1830 sulla base dell’economia inglese. Essa garantisce in quanto (anche ammettendo che l’integrale verità e scienza sono obiettivi vani, e solo si può avanzare nella lotta contro la grandezza dell’errore) la si tiene ferma nelle linee dorsali formanti un sistema completo. Durante il suo corso storico ha due sole alternative: realizzarsi o sparire. La teoria del partito è un sistema di leggi che reggono la storia e il suo corso passato, e futuro. Garanzia dunque proposta: niente permesso di rivedere, e nemmeno di arricchire la teoria. Niente creatività.

2. Organizzazione. Deve essere continua nella storia, quanto a fedeltà alla stessa teoria e alla continuità del filo delle esperienze di lotta. Solo quando ciò per vasti spazi del mondo, e lunghi tratti del tempo, si realizza, vengono le grandi vittorie. La garanzia contro il centro è che non abbia diritto a creare, ma sia obbedito solo in quanto le sue disposizioni di azione rientrino nei precisi limiti della dottrina, della prospettiva storica del movimento, stabilita per lunghi corsi, per il campo mondiale. La garanzia è che sia represso lo sfruttamento della «speciale» situazione locale o nazionale, dell’emergenza inattesa, della contingenza particolare. O nella storia è possibile fissare concomitanze generali tra spazi e tempi lontani, ovvero è inutile parlare di partito rivoluzionario, che lotta per una forma di società futura. Come abbiamo sempre trattato, vi sono grandi suddivisioni storiche e «geografiche» che danno fondamentali svolti all’azione del partito: in campi estesi a mezzi continenti e a mezzi secoli: nessuna direzione di partito può annunziare svolti del genere da un anno all’altro. Possediamo questo teorema, collaudato da mille verifiche sperimentali: annunziatore di «nuovo corso» uguale traditore.

Garanzia contro la base e contro la massa è che l’azione unitaria e centrale, la famosa «disciplina», si ottiene quando la dirigenza è ben legata a quei canoni di teoria e pratica, e quando sì vieta a gruppi locali di «creare» per conto loro autonomi programmi, prospettive, e movimenti.

Questa dialettica relazione tra la base e il vertice della piramide (che a Mosca trent’anni addietro chiedevamo di renverser, capovolgere) è la chiave che assicura al partito, impersonale quanto unico, la facoltà esclusiva di leggere la storia, la possibilità di intervenirvi, la segnalazione che tale possibilità è sorta. Da Stalin a un comitato di sottostalinisti nulla è stato capovolto.

3. Tattica. Sono vietate dalla meccanica del partito «creatività» strategiche. Il piano di operazioni è pubblico e notorio e ne descrive i precisi limiti, ossia i campi storici e territoriali. Un esempio ovvio: in Europa, dal 1871, il partito non solidarizza con alcuna guerra di Stati. In Europa, dal 1919, il partito non partecipa (non avrebbe dovuto…) ad elezioni. In Asia e Oriente, oggi tuttora, il partito appoggia i moti rivoluzionari democratici e nazionali e un’alleanza di lotta tra proletariato e altre classi fino alla borghesia locale. Diamo questi crudi esempi per evitare si dica che lo schema è uno e rigido sempre e dovunque, ed eludere la famosa accusa che questa costruzione, materialista storica integralmente, derivi da postulati immoti, etici od estetici o mistici addirittura. La dittatura di classe e di partito non degenera in forme diffamate come oligarchie, a condizione che sia palese e dichiarata pubblicamente in relazione ad un preveduto ampio arco di prospettiva storica, senza ipocritamente condizionarla a controlli maggioritari, ma alla sola prova della forza nemica. Il partito marxista non arrossisce delle taglienti conclusioni della sua dottrina materialista; non è fermato, nel trarle, da posizioni sentimentali e decorative.

Il programma deve contenere in linea netta l’ossatura della società futura in quanto negazione di tutta la presente ossatura, punto dichiarato di arrivo per tutti i tempi e luoghi. Descrivere la presente società è solo una parte del compito rivoluzionario. Deprecarla e diffamarla non è affar nostro. Costruire nei suoi fianchi la società futura nemmeno. Ma la rottura spietata dei rapporti di produzione presenti deve avvenire secondo un chiaro programma, che scientificamente prevede come su questi spezzati ostacoli sorgeranno le nuove forme di organizzazione sociale, esattamente note alla dottrina del partito.

Cattiveria dell’uomo?

Che in avvenire risorti partiti proletari rivoluzionari abbiano a subire ulteriori involuzioni, crisi e degenerazioni, non lo si nega, e non vi saranno mai ricette per escluderlo.

Ma è scontato che, dopo avere ancora una volta proposte, e dopo che un avvenire non vicino abbia costruite, tutte le garanzie, che abbiamo così chiamate solo per accettare correnti inviti polemici, la più parte di quelli dell’altra banda, e molti dei nostri, credentisi tali, se ne usciranno collo scuotere di testa: «Inutile! Nessuna misura rimedierà alla libidine di potere dell’uomo. Lo Stato, il Partito, l’organizzazione, in ogni situazione, tempo e posto, finiscono nel consolidare privilegi della gerarchia suprema, che si abbarbica a ricchezza, benessere, soddisfazione di inesausta vanità. L’uomo è canaglia. Cerca gioia e dominio e passa sul suo simile, il suo corpo, e la sua fame».

Questo argomento non merita un rigo di risposta. Se a questo si crede, se questo fosse lontanamente vero, se l’uomo non fosse virtualmente tanto buono quanto la diffamata madre «bestia», e se la canaglia non è proprio l’organizzazione sociale (che dialetticamente nasce da una sequenza storica di inevitabili e per questo utili fasi di canaglieria) allora è finita, allora siamo belli e fritti; noi con Marx, Engels, Lenin siamo tutti crollati, e la nostra illustre o ignota letteratura può andare a un falò unico.

Quelli che riempiono il mondo di questa nuova leggenda della storia criminologista: «gli errori di Stalin erano evitabili; bastava che egli non fosse così duro, aspro e feroce», avranno un facile successo. Ma la storia del tremendo cammino della rivoluzione comunista scriverà che è questo il più infame scaracchio che finora abbiano lanciato sulle effigi di Marx e di Lenin, che scioccamente, oltre che mentitamente, affiggono ancora alle mura dei trivii, ove vendettero l’antica fede.

Alla figura immensa di Lenin questa gente vuole legare il trucco, con cui sperano di battere per altri anni marchette, che dalla linea ferma della dottrina sia giusto evadere per attuare creatività ed arricchimento, in quanto egli lo avrebbe per primo affermato. Ma è solo eliminando questa originale fallacia, che davvero il movimento andrà oltre le secche del culto della persona, e del peggiore culto e corteggiamento vile della folla, della massa.

Il vecchio marxista che, da lunghi decenni, sull’opera grande di Lenin, sulla parola viva e l’azione sua, lavora e studia, dimostra di averlo fatto profondamente in quanto spoglia il falso mito di Lenin stesso dalla leggenda che egli abbia ricreato ed arricchito la comune dottrina, laddove da leone ne difese ogni versetto, fino all’ultimo suo respiro.

Ma quando poi sente che un tale compito, che va contestato ai giganti, e non meno al non pigmeo Giuseppe Stalin, passerebbe con pari diritto di manipolazione agli odierni omuncoli, figli di un’epoca putrescente in cui teoria, scienza ed arte decadono, non trovano echi simili a quelli che schiere di voci squillanti sorsero a levare nelle epoche fertili della storia, ultimi i rinascimenti e le lotte di liberazione borghesi, che da un secolo sormontammo, ed ultima su loro ed oltre loro l’epopea russa e mondiale di Ottobre 1917… allora cadono dalle mani del semplice milite di una dottrina intangibile le armi dialettiche; egli poco eroicamente le abbassa a tenersi il ventre, per scongiurare il rischio di pisciarsi sotto.

Ventata di ossigeno

Non potevano i «provocatori» non avere buon gioco sul terreno allettante della «filosofia», e crediamo di avere trovato pane per i loro denti, gettando argini alti contro la mania di sciogliere il nodo di oggi colla solita insulsa tremebonda ricerca: chi sarà domani il padrone? E di dare nomi al dramma recitato sulle scene di Mosca. Noi gli abbiamo trovato altro, fondamentale senso.

Ritorniamo infine, per chiudere la nostra giornata, sul solido nostro terreno: la fisica dei fatti economici, la lotta corpo a corpo degli interessi materiali di classe, al vertice del cui ribollire la nostra scuola ha posto le chiavi del presente, del passato e del futuro, nel quadro unitario di cui abbiamo conquistata la totale visione, se non ci affligge totale cecità.

La colossale costruzione della «teoria» emulativa, secondo la quale il ritmo di progressione produttiva del sistema russo batte il ritmo del sistema del capitalismo di occidente contemporaneo e lo supererà tra un certo tempo in senso assoluto – rimettendo la decisione sulle sorti del mondo al platonico esito di questo confronto – si drappeggia di una tesi folle: che tale ritmo si veda per la prima volta nel mondo e nella storia, e che i suoi indici numerici attestino l’ingresso di un principio nuovo, al posto degli antichi.

Questa mistificazione gigante è tutta nel gioco della difesa e della conservazione del sistema capitalistico, che si ostenta voler sconfiggere. Come altrimenti spiegare che vi fanno eco le più schiette pubblicazioni e diffusioni occidentali?

Esiste in America un Research Institute, Inc., of New York (Istituto di ricerca) che ha diramato un rapporto speciale alle «trentamila ditte, la maggior parte delle quali corporazioni industriali, di cui l’Istituto è consulente in materia di economia, legislazione, dirigenza aziendale [management], relazioni industriali ed umane, tecnica delle vendite e conquista dei mercati [Sale and Marketing]». Il titolo e suggestivo «The toughest challenge» che si potrebbe tradurre forse «Il cimento supremo».

Al lavoro è premessa una significativa dichiarazione: questa ricerca è svolta sui fatti, al di fuori della adesione ad ogni scuola economica e ad ogni politica di governi.

Tutta la materia che qui da ben altra sponda abbiamo studiata, è esposta come cosa estremamente seria e fondata, e le cifre di Chruščëv e Bulganin sono soppesate con rispetto e con impegno estremo. Questi esperti del capitalismo chiudono ammettendo che la palma possa anche spettare al sistema sovietico, non invocano repressioni o guerra, studiano a fondo solo la risorsa per le firms delle ondate di ordini di armi, e consigliano infine l’accesso aperto all’invito al «marketing» coi temuti rossi. Si mettono anche essi a calcolare in quanti anni coi noti piani potrebbero gli indici occidentali di produzione, come massa, e pro-capite, essere scavalcati dall’U.R.S.S. Mentre non tacciono i punti deboli del sistema orientale, soprattutto nell’agricoltura, espongono anche quelli di occidente, valutano il decorso del ritmo economico, la possibile crisi, e si mettono decisi sul piano «distensivo».

La consulenza dell’alto capitalismo dice dunque che l’invito all’emulazione è da accogliere, per il parallelismo dei due sistemi; che per i due imperialismi vi è panno da tagliare, prima di combattere.

Ci ha colto in questo non disprezzabile studio una coincidenza di prospettiva con la nostra (venti anni di pace). Da calcoli sul volume delle materie prime disponibili nei due campi, e sull’entità dell’industrializzazione delle zone sottosviluppate del mondo, si presume che la duplice accumulazione capitalistica abbia sicuro sfogo per tutto il prossimo ventennio. Al 1975 deciderà la guerra, o la rivoluzione? Da qui ad allora la lotta teorica deciderà tra la economia della esplosione, e quella del crescente benessere. Due avversari progressivi si allineano nella «Challenge»: teoricamente, combattono a fianco.

Esperti del mercato

Gli economisti e gli istituti si offrono dietro compenso ad ambo le parti. Noi non crediamo che quelli del «Research» mandino la parcella anche a Mosca, ma certo la mandano gli autori dei pareri che, tra gli allineamenti degli stessi e ormai fastidiosi specchietti di cifre, sono riportati nell’«Unità» del 12 aprile. Questa rivista francese «La Nef» ha un’editoria sospetta: ma non ci importa. La falsità di scienza economica colossale è quella scritta sotto lo specchio che fissa al 10 per cento annuo e più il passo della produzione industriale e del reddito nazionale russo, dati ed accettati per tripli circa di quelli americani, come abbiamo già svolto. «Nulla di simile si è mai verificato nella storia delle economie capitaliste». Secondo questi esperti gli economisti borghesi hanno perduta la partita, sola loro salvezza era provare che le cifre russe erano false, e i ritmi più bassi.

Se la gentaccia che compila e che ospita tale materiale avesse mai soltanto aperto a caso il primo volume del «Capitale» saprebbe due cose: Primo: Cose del tutto simili si sono verificate nella storia di tutte le economie capitaliste. Secondo: Quando queste cose si sono la prima volta verificate, ne abbiamo dedotto che l’economia capitalista è destinata a saltare, ed il marxismo proletario le ha dichiarato la guerra a morte.

La prima internazionale

Vi sono marxisti-leninisti che ignorano l’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, scritto di mano da Carlo Marx?

Lo storico comizio alla Martin’s Hall si tenne il 28 settembre 1864. Il testo di Marx comincia così:

«È una grande verità di fatto che la miseria delle classi operaie non è scemata negli anni che vanno dal 1848 al 1864, benché proprio questo periodo non abbia confronti negli annali della storia per riguardo allo sviluppo dell’industria, e all’incremento del commercio dei suoi prodotti. Nel 1850 un organo conservatore della borghesia britannica, pare fornito di conoscenze più che ordinarie, profetizzò che, se il commercio di esportazione e di importazione dell’Inghilterra fosse salito del 50 per cento, il pauperismo, in Inghilterra, sarebbe sceso a zero. Ma, ah! il 17 aprile 1864 il signor Gladstone, il cancelliere dello Scacchiere inglese, commosse il suo uditorio con la dimostrazione che l’importo complessivo dell’esportazione ed importazione inglese nell’anno 1863 era salito a 443 955 000 lire sterline, una somma che equivaleva circa al triplo dell’importo del 1843, decorso relativamente da poco. Con tutto ciò, egli fu obbligato ad occuparsi ancora della miseria sociale».[16]

Fermiamoci. L’aumento del triplo in venti anni, col solito calcoletto, e senza fare il gioco (che fa talvolta oggi l’aulico Varga) di dividere duecento per venti, ottenendo il dieci per cento, vale la media annua del 5,7 per cento.

Non è ancora questo l’indice più alto, ma ci basta a stabilire come il capitalismo iniziale corra veloce, tipo russo di oggi, poi fatalmente rallenti.

Gioco inutile quello dei consulenti dell’«Unità» che danno i ritmi dei paesi capitalisti dal 1870 in poi. Essi stessi non possono nascondere che in dati periodi, che chiamano di «slancio ciclico» si è, anche da poco, verificato circa l’8 per cento di progresso annuo. Gran Bretagna 1946–50 (dopoguerra). Giappone 1907–1913 (dopo la guerra colla Russia; ma oggi il Giappone, non più vincitore ma vinto, vedemmo che corre anche di più, e supera la Russia). Stati Uniti 1880–85. E, guarda un poco: Russia 1890–1900, a sistema… zarista!

Che serve stabilire che in periodi ulteriori «a lungo termine» il capitalismo occidentale si pone sul passo dal 3 al 5 %? Lo farà anche la Russia, se in venti anni la sua produzione pro-capite adegua quella d’America, Inghilterra e Germania, e… salvo complicazioni. L’emulazione non può andare oltre.

Qui stiamo sbugiardando la parte inferiore della tabella che, riferendosi ai paesi «a uno stadio di sviluppo industriale iniziale», sceglie a fascio per Russia, Svezia, Stati Uniti e Germania il 1855–1913 (!) e trova il 5 per cento…

La rivoluzione industriale inglese

Il parallelo del capitalismo iniziale tra Russia odierna e Inghilterra ci riporta al mirabile trentennio 1830–1860 in cui la Gran Bretagna era quasi prima e sola a rovesciare nel resto del mondo manufatti dell’industria meccanica. L’Europa continentale era per essa ciò che oggi è per l’U.R.S.S. l’Asia immensa. Si era svolta nel secolo precedente la rivoluzione antifeudale politica, erano seguiti periodi di grandi guerre, era stata superata la successiva crisi internazionale del 1848. Le analogie sono notevoli: il rivoluzionario cerca le costanze delle funzioni storiche, che gli confermano (e tanto meglio se corrono secoli di mezzo) che si può imbrigliare la storia in linee generali di uniformità, per uniformi svolti della base economica. L’opportunista cerca le discordanze, per avallare i suoi sbandamenti: con lui il conservatore tripudia, se vede indebolirsi il fondamento della previsione, che all’alto industrialismo fiorente fa seguire una nuova potente sovversione sociale.

A Marx la considerazione dei ritmi, dei saggi di incremento, era cosa ben nota. Restiamo negli indici del commercio estero, sicuro parametro dell’irrompente industrializzazione. Marx ne tratta nel Primo volume del «Capitale», nel paragrafo 5 del XIII capitolo: «Illustrazione della legge generale dell’accumulazione capitalistica: l’Inghilterra dal 1846 al 1866». Volete nulla di più basale?

Il complesso di esportazione ed importazione è dato, a pag. 620 dell’edizione italiana per il 1854, in lire sterline 268 milioni e per il 1865 in lire sterline 490 milioni. Il solito calcolino dice che dal 54 al 65 il ritmo annuo medio fu del 6,2 per cento. Ma la tabella della sola esportazione in quel periodo ci porta ai ritmi di tipo… russo. Dal 1849 al 1856 si avanza da 66 a 116 milioni di sterline: ritmo 9,1 per cento. Dal 1865 al 1866 un balzo di corsa folle: 14 per cento in un solo anno (da 167 a 189 milioni di sterline). Engels osserva: questo era il preludio della crisi che scoppiò subito. Sappiamo che la crisi precedente era stata al 1856: prima ancora al 1846. Le cifre lo confermano, e i ritmi oscillano, ma non cedono nel periodo totale.

Vogliamo chiederci che è successo dalla tabella di Marx ad oggi? Nel 1953 il commercio totale britannico è stato di 5 miliardi 925 milioni di sterline. Dal 1863 di Gladstone è divenuto 13 e più volte maggiore. Ne ha avuto il sistema capitalista panno da tagliare! Ma il ritmo medio, debitamente ricercato, come sappiamo, è quello di capitalismo adulto: tre per cento.

Nella stessa pagina Marx studia le cifre della produzione di carbone e ferro, della lunghezza delle ferrovie. Ottiene tra il 1855 e il 1864 cifre che sarebbe lungo riportare, ma che danno ritmi intorno al 4 e al 5 per cento.

Marx stesso determina poi i ritmi totali e quelli annui, si capisce col giusto procedimento, per lo stesso periodo nel reddito di talune industrie: case 3,5 per cento; cave 7,7; miniere 6,3; ferriere 3,6; peschiere 5,2; gas 11,5; strade ferrate 7,6. Miracoli, ma non del sistema «socialista»!

Mette poi in evidenza che l’aumento dei redditi, quale risulta dalle imposte registrate, e quindi come sempre inferiore al vero, crebbe tra il 1861 e il 1864 annualmente del 9,30 per cento.

Non tratta però qui Marx delle cifre proprie del periodo iniziale, a partire dal 1830, e magari prima; di cui diffusamente tuttavia discorre in tutte le sue opere, e non meno fa Engels. Ma le cifre sono in tutti i libri di storia, ad esempio (per non andare lontano) il Barbagallo (antico marxista). Ne diamo alcune.

Cotone 1796–1800, 11.2 per cento. Lana 1829–30, 11,5 per cento. Macchine esportate 1855–65, 8,5 per cento. E così via.

Gli altri capitalismi

Il fenomeno, che si sarebbe visto solo in Russia un secolo dopo, è generale. I capitali che si investirono negli Stati Uniti nell’industria laniera prorompente salirono al ritmo del 31 per cento annuo (chi copia la tecnica altrui, dominio internazionale in tempo borghese, supera la velocità del primo esempio). Carbone estratto dal 1835 al 1850: da mezzo milione di tonnellate a 6266 milioni, 12 volte e mezza in 15 anni, ritmo 18 per cento. E se retrocedessimo al 1820 con le misere 365 tonnellate, calcoleremmo un ritmo sbalorditivo: 1500 volte in 15 anni. Oggi? Lo sappiamo: 465 milioni di tonnellate: più di un milione di volte tanto. Media, su 140 anni, solo il dieci per cento. Visto il giochetto Mosca? Spingere gli anni di partenza a quelli di produzione neonata.

Francia: nel trentennio 1830–1860 la ghisa aumenta 8 volte: passo del 7 per cento La forza in cavalli delle motrici a vapore di 58 volte: ritmo 15 per cento.

Germania: qui è giusto che gli anni passino. Dal 1871 al 1913 il carbone è 7,5 volte di più: ritmo nel lungo periodo 4,5 per cento. Se vogliamo di più basta andare indietro nel tempo: lo zucchero prodotto in Prussia fu nel 1831 circa mille tonnellate, nel 1843 circa 9 mila. Nove volte in dodici anni dà il ritmo del 19 per cento.

La balorda invenzione dell’emulazione è tratta dai «fenomeni nuovi» degli ultimissimi anni, che dovrebbero giustificare la tronfia idea di creare un nuovo marxismo, e arricchire il vecchio. Ma basta trattarla con la scienza marxista di cento anni fa, ed ecco l’emulazione capovolta e ridicolizzata!

Torniamo al Giappone: prima ancora della guerra con la Russia, tra il 1863 e il 1907, in 14 anni comincia a rovesciare sul mondo la sua magnifica seta: da 38 a 450 milioni di yen: circa 12 volte, e questo dà il ritmo annuo del 19 per cento Altri indici sono ancora più spettacolosi. Avrà forse il Mikado pensato fin da allora a edificare la società socialista?

Legge dell’accumulazione

La fondamentale legge marxista si leva più intangibile che mai. Più sono stranamente diversi i paesi e discosti i tempi storici, più la relazione tra le cause e gli effetti si delinea precisa, uniforme.

All’apparire dell’industria capitalista il ritmo annuo di accumulazione è massimo, va poi decrescendo.

Non essendo il ritmo uniforme ma molto saltuario, esso tende a risultare più basso in lunghi periodi, e ridiventa marcato dopo le crisi economiche, dopo le guerre, e soprattutto dopo le guerre perdute e devastatrici del paese considerato.

Il ritmo è più alto a parità di età della forma capitalistica, nei paesi che scendono dopo nell’agone industriale e meccanico. Ciò si deve alla più evoluta tecnica ad immediata disposizione, ed alla mutata composizione organica, in rapporto a tanto, del capitale; a parità di lavoro, più materie trasformate.

Notizie americane della citata fonte attendono ad un ritmo super-russo, nel tempo che viene, il Sud-america: sempre nel prossimo ventennio, se è di pace.

La storiella del miracolo della rapida accumulazione dovuta alla pianificazione, ossia alla forma monopolistica ed imperiale del capitalismo, e allo stesso industrialismo di Stato (può in questo esservi solo un certo uguagliamento del ritmo nel tempo, un certo compenso a scossoni di crisi: ma non solo in Russia, bensì ovunque: tema che lasciamo ora ad altra sede), è di fabbrica staliniana. Le solite tabelle ci sono anche nel discorso-rapporto del 1939.

A conferma delle nostre vecchie notissime leggi marxiste abbiamo formata una tabella unica di quelle di Stalin e di Bulganin – con alcune di Varga – per i vari paesi, e si va per i seguenti periodi: 1880–1900, pace; 1900–1913, pace; 1913–1920, prima guerra mondiale; 1920–1929, prima «ricostruzione»; 1929–1932, crisi generale; 1932–1937, ripresa; 1937–1946, seconda guerra mondiale; 1946–1955, seconda ricostruzione.

Seguiamo la corsa dei vari paesi in queste fasi, dando sempre i ritmi annui.

Gran Bretagna: 1880–1900, 3,5; 1900–1913, 3,0; prima guerra: zero (produzione invariata); prima ricostruzione: idem. Crisi 1929–1932: discesa all’11 per cento!; ripresa 1932–1937: aumento al 10! Seconda guerra: stasi, ritmo zero, propriamente: meno 0,6. Fase attuale: aumento del 4,8 %.

Francia: anteguerra 6.5 e 6 %; prima guerra: caduta, al 6,6 per cento; dopoguerra, salita, al 9,5 per cento! Crisi 1929–1932: discesa, al passo dell’11,6; ripresa 1932–1937, salita lenta (uno per cento); seconda guerra; altra caduta al 3 per cento; fase ultima: risalita, all’8 per cento.

Germania: primo anteguerra 7,5 e 7. Prima guerra: caduta, all’8,2 per cento; prima ricostruzione: ripresa al 7,3 per cento; crisi 1929–1932: precipizio al 13,8 per cento!; ripresa: risalita al 13,4!; seconda guerra: caduta al 12,2!; fase attuale: ripresa al ritmo record: 22,2 per cento! Senza nessun socialismo, e con poco dirigismo.

Stati Uniti: primo anteguerra 8,5 e 7; prima guerra: aumento al 3,4 per cento (ah vecchia e fessa Europa!). Dopoguerra: continua al 3,6; crisaccia del 1929: ruzzolata, al 18,5 per cento!; ripresa: all’11; seconda guerra: ulteriore ripresa (ed Europa come sopra) al 4,8 per cento; fase presente: impassibile avanzata allo stesso passo!

Giappone: violenta avanzata fino alla prima guerra; durante questa, avanzata a circa il 7 % (Europa, ecc.); dopoguerra: stesso ritmo. Sosta nella crisi, ritmo al 12 per cento nella ripresa; seconda guerra: discesa al 12,5 per cento; fase attuale: decisa salita al 18,8 per cento: tempo russo.

Russia: dal 1880 al 1913: ritmi di alta industrializzazione iniziale; dal 1913 al 1920: guerra, dissoluzione industriale. Dal 1920 al 1929 industrializzazione intensa, al ritmo del 34 per cento! (effetto di partenza dal fondo); dal 1929 al 1937, senza risentire la crisi estera, salita al 20 per cento; seconda guerra: praticamente, stasi. Fase attuale: 18 per cento, come il Giappone, molto meno della Germania.

Italia? Limitiamoci a dire che dalla crisi del 1929 alla seconda guerra è ferma (discesa e poi salita); nella guerra cala al 3 per cento; oggi sale al discreto 12 per cento. Nel 1955 automezzi prodotti in più 69 %; petrolio (fase d’inizio!) 83 %; capitale della FIAT aumentato oggi di 19 miliardi, 32 %.

Il quadro, sotto forma di prospetto, è inserito fuori testo in queste pagine.

Chi può nulla leggere, in questo quadro, circa il vantaggio del sistema socialista (russo) sugli altri? Nessuno: sono tutti dati di fonte russa, e perciò ben comparabili. Essi sgonfiano per sempre l’espediente esoso dell’emulazione, confermano la coesistenza di forme analoghe, capitalistiche, di varia età e di varia origine e storia.

Le chiavi per decifrare il quadro, eloquente di per sé nel suo significato di piattaforma del corso futuro, sono tre: Crisi, Guerra, Rivoluzione.

Il nostro lavoro è al termine, e la sua tesi di arrivo è la rotta della emulazione. Più i gareggianti si scavalcano, più diviene possibile la Rivoluzione, colla sua consegna, corollario dell’originaria teoria: blocco della produzione.

Per le conclusioni più vaste non oseremo una profezia, solo un auspicio.

Il decennio postbellico di avanzata della produzione capitalistica mondiale continui ancora alcuni anni. Poi la crisi di interguerra, analoga a quella che scoppiò in America nel 1929. Macello sociale delle classi medie e dei lavoratori imborghesiti. Ripresa di un movimento della classe operaia mondiale, reietto ogni alleato. Nuovissima vittoria teorica delle sue vecchie tesi. Partito comunista unico per tutti gli Stati del mondo.

Verso il termine del ventennio, l’alternativa del difficile secolo: terza guerra dei mostri imperiali – o rivoluzione internazionale comunista. Solo se la guerra non passa, gli emulatori morranno!

Marx e Gladstone

Abbiamo ridotto tutta la vanagloria statistica russa ad un fenomeno di capitalismo vigoreggiante, come quello che offriva a Marx l’Inghilterra di un secolo addietro.

Come Marx la guardò allora?

Fin da quell’epoca egli sapeva benissimo che all’inferno del Capitale non si grida il vade retro Satana, ma se ne attende la conquista del mondo. Egli attese che l’industrialismo britannico attaccasse, crescendo a dismisura, fuoco all’Europa. Noi abbiamo il diritto di attendere che la fornace di produzione russa infiammi tutto l’Oriente. Non è il fallimento che auguriamo ai piani quinquennali. È la dichiarazione di socialismo, che da quel sistema speriamo strappata.

I ritmi progressivi britannici misurati dall’occhio lungivedente di Marx gli fecero riconoscere il diretto nemico, ed egli dichiarò la guerra mondiale di classe, traendone gli accenti dalla lettura di quelle cifre.

Perché il discorso del 1864, il «Dialogato con Gladstone», non si ridusse a quanto abbiamo detto.

Al crescere folle delle cifre del commercio estero Marx, nell’indirizzo, contrappone i dati dello sfruttamento infame di quel modello dei moderni proletariati. Scrive l’equazione tra il grandeggiare del Capitalismo e la schiavitù del salariato. Leva la scomunica del tribuno contro il cinico cancelliere dello Scacchiere.

«Abbagliato dal ‹progresso della nazione›, illuso dalle cifre della statistica, il cancelliere esclama con commozione selvaggia: negli anni 1842–1852 il reddito (income) imponibile del paese è cresciuto del 6 per cento: negli otto anni, che vanno dal 1853 al 1861, e cresciuto del venti per cento rispetto alla cifra del 1853. Questo fatto è così stupefacente da essere quasi incredibile».

Marx scriveva lo stesso nel «Capitale» al 1866, salvo che allora nella sua tabella potrà annotare il salto del reddito nel solo anno 7 aprile 1864 – 7 aprile 1865 di oltre il dieci per cento! La sua citazione nell’indirizzo prosegue:

«Questo inebriante aumento di forza e di potenza – aggiunge il signor Gladstone – è limitato alle classi abbienti».

La dimostrazione del disagio del proletariato inglese e delle sue sfortunate lotte si conclude con la possente tesi:

«In tutti i paesi di Europa sta ora come irrefutabile verità che… sulla falsa base del presente, ogni nuovo sviluppo della forza creatrice del lavoro tende solo a rendere più profondi i contrasti, più acuto il conflitto sociale».

Nelle pagine del «Capitale» la citazione del discorso di Gladstone del 16 aprile 1863 si estende ancora alla sua asserzione:

«L’aumento di ricchezza… arreca un indiretto vantaggio alla popolazione operaia, perché fa diminuire il prezzo degli oggetti di generale consumo. Mentre i ricchi son diventati più ricchi, i poveri sono diventati meno poveri. Non voglio però affermare che gli estremi limiti della povertà siano minori».

Il duro sarcasmo di Marx si abbatte sulla ipocrisia di questa strana dichiarazione. Il capitolo finiva con una nota che invocava il proseguimento dello studio di Engels del 1845 sulle condizioni delle classi operaie inglesi. Engels tolse la nota e scrisse, a piè del suo manoscritto: ciò è stato fatto da Marx nel primo volume del «Capitale».

Ritornatori, per sfregio di Stalin, al «marxismo», avete di tutto questo saputo mai nulla?

Gli estremi di un secolo

Il ministro della prima borghesia del mondo accusò le potenti ceffate dell’ignoto dottor Marx, il red terror Doctor della stampa inglese, il povero e quasi solo emigrato che aveva ripetuto il grido del 1848: lavoratori del mondo, unitevi! alla chiusa del suo fiammeggiante indirizzo.

La polemica divenne famosa, e si stese su anni e su anni; dopo che Marx morì. L’antisocialista tedesco Brentano, messosi in corrispondenza col ministro inglese, insinuò in una sua pubblicazione che Carlo Marx era in colpa di «falsa citazione». Gladstone aveva detto che le cifre del reddito imponibile (la nostra ricchezza mobile) concernono le sole classi possidenti, in quanto i redditi di salario non sono tassati: le cifre non riguardavano quindi quello che oggi si dice «reddito nazionale» ma solo i redditi e profitti da proprietà e da impresa. Nulla aveva ammesso Gladstone, sulla miseria cresciuta delle classi operaie, come Marx sosteneva. Ma la dimostrazione di Marx non abbisognava di confessioni di Gladstone: restava e resta in piedi, e colpisce ogni forma di salariato. Miseria non vuol dire basso salario, vuol dire nullatenenza dei soli che la dilagante ricchezza hanno generato «remando» nella torva fabbrica dell’impresa industriale. Le cifre di Marx disegnano il passo della accumulazione, della concentrazione del capitale in mani e teste sempre più rare, fino alla sua spersonalizzazione, che oggi dovunque impera.

Ma non era allora cosa da poco l’accusa di falso! Eleanor, la figlia di Marx, replicò indignata, Brentano fece altra pubblicazione: finalmente Engels in una sua apposita trattazione riassunse il tutto, con riporto di tutte le opposte allegazioni, fac-simili dei testi tedeschi ed inglesi, delle pagine invocate dalle due parti del «Times», degli Atti della camera dei Comuni, di altri fogli di stampa. Oggi si corteggiano demagogicamente i membri del partito russo che si dichiarano scocciatissimi di queste rivangature di vecchie storie (che ce ne frega del Bund? dei populisti? sono le frasi di sapore esistenziale con cui i capoccia hanno fatto ridere di gusto il congresso): oggi tipi del genere, incitati dallo staliniano dalli al pedante: che forma di pedantone, direbbero, quel Federico Engels!

I giornali hanno recate le fotografie della tomba di Marx nel cimitero londinese di Highgate, alla cui nudità hanno i russi sovrapposto un pesante monumento: non paghi di quello inflitto a Vladimiro Lenin, altro modello indimenticabile di illimitata semplicità, schivo di ogni pompa e di ogni fasto.

Presso la tomba i signori Bulganin e Chruščëv si mostrarono certi di ribadire lo storico loro riaccostarsi a Marx, del XX congresso. Essi non mostravano dubitare di avere da quella assise squadernate al mondo le stesse glorie, che Marx aveva ricacciate nella gola del ministro inglese del tempo, all’apice della storica prima rivoluzione industriale, modello a tutte le altre, e a quella di Russia.

Marx contrappose allora all’orgia folle della iper-produzione meccanica la fondazione della Prima Internazionale Rivoluzionaria: i due che salutavano la sua tomba avevano, di fresco, sepolto gli ultimi poveri ruderi della Terza, di quella fondata da Lenin.

E mentre noi stendiamo le ultime cartelle di questo affrettato lavoro di semplici allievi di quella scuola gigante, che sola può fare richiamo ai due nomi, le radio diffondono da Mosca le dichiarazioni dei due viaggiatori, appena rientrati da Londra: il signor Eden, impeccabile ministro della sua Graziosa Maestà Britannica, allievo (lui sì a testa ben alta) del classico suo predecessore Gladstone, li ha ricevuti colla massima e amichevole cordialità.

Ben diversamente dai vivi contemporanei emulatori, i Morti dialogano…

— Fine —

Prospetto statistico

Le prime tre tabelle sono tratte dal «Rapporto del Comitato Centrale del CPSU al 20º Congresso del Partito».

Tabella A:
Volume della produzione industriale in URSS e nei paesi capitalisti (in percentuale rispetto al 1929)
  1929 1937 1943 1946 1949 1950 1952 1955
USSR 100 429 573 466 870 1082 1421 2049
Tutti i paesi capitalisti 100 104 —¹ 107 130 148 164 193
Stati Uniti 100 103 215 153 164 190 210 234
Gran Bretagna 100 124 —² 118 144 153 153 181
Francia 100 82 —² 63 92 92 108 125
Italia 100 99 —² 72 108 124 148 194
Germania Ovest 100 114 —² 35 93 117 150 213
Giappone 100 169 231³ 51 101 115 173 239
¹ – Dati insufficienti² – I dati non sono stati pubblicati³ – I dati si riferiscono all’anno 1944

 

Tabella B:
Produzione lorda di cereali e colture tecniche nell’URSS (in percentuale rispetto al 1950)
  1950 1951 1952 1953 1954 1955
Cereali 100 97 113 101 105 129
Girasoli 100 97 123 146 106 207
Barbabietole da zucchero 100 114 107 111 95 147
Cotone crudo 100 105 106 108 118 109
Fibre di lino 100 76 83 64 85 149

 

Tabella C:
Produzione di metalli e combustibili, generazione di elettricità e produzione di altri importanti settori dell’industria pesante
  1950 1955 Crescita 1950–1955
Ghisa¹ 19 33 174 %
Acciaio¹ 27 45 166 %
Metalli laminati¹ 21 35 169 %
Carbone¹ 261 391 150 %
Petrolio greggio¹ 38 71 187 %
Energia elettrica² 91 170 187 %
Cemento¹ 10 22 221 %
Trattori³ 109 163 150 %
Fertilizzante minerale¹ 5,5 9,6 175 %
¹ – (milioni di tonnellate)² – (miliardi di kWh)³ – (migliaia di unità)

 

Table D:
Incrementi totali e medi annui produzione industriale nei paesi e periodi tipici dello sviluppo storico del capitalismo (espressi in percentuali del prodotto annuo precedente)
Periodi
Paesi
Incrementi percentuali 1880–1900
Anni 20
Pace
1900–1913
Anni 13
Imperialismo
1913–1920
Anni 7
1ª guerra
1920–1929
Anni 9
Ricostruzione
1929–1932
Anni 3
Crisi
1932–1937
Anni 5
Ripresa
1937–1946
Anni 9
2ª guerra
1946–1955
Anni 9
Ricostruzione
Gran Bretagna Nel periodo 100 40 0 0 −30 55 −5 53
Annuo medio 3,5 2,6 0 0 −11,2 9,2 −0,6 4,8
Francia Nel periodo 250 130 −38 126 −31 5 −23 98
Annuo medio 6,5 6,6 −6,6 9,5 −11,6 1 −2,9 7,9
Germania Nel periodo 300 150 −45 87 −36 90 −69 510
Annuo medio 7,2 7,3 −8,2 7,2 −13,8 13,7 −12,2 22,3
Stati Uniti Nel periodo 400 150 26 37 −46 69 51 53
Annuo medio 8,4 7,3 3,4 3,6 −18,6 11 4,7 4,8
Giappone Nel periodo 800 250 57 89 0 75 −70 370
Annuo medio 11,6 10,1 6,7 7,3 0 11,8 −12,5 18,8
Russia Nel periodo −87 1300 85 150 0 340
Annuo medio ca. 13 ca. 10 −25,3 34,1 22,8 20,1 0 17,9
Produzione annuale precedente = 100 % in ogni caso
Periodo = tasso di crescita per l’intero periodo
Annuo medio = tasso di crescita medio annuale

Il presente quadro è elaborato solo su dati di fonte russa (Varga, Stalin, Chruščëv). Gli indici dei primi due periodi sono tratti dalle cifre relative alle industrie base, date da Varga.

Dalle verticali, essendo gli Stati disposti dall’alto in basso secondo l’età della forma industriale, emerge che il capitalismo più giovane ha incremento medio più rapido.

Dalle orizzontali emerge che in fase normale il ritmo d’incremento di ogni paese decresce col tempo.

Dalle fasi di guerra e di crisi emerge che i capitalismi maturi e vincitori resistono bene alle guerre (imperialismo) e perfino avanzano; ma cedono di più alle crisi.

Dalle fasi di dopo-guerra e dopo-crisi emerge che la ripresa è tanto più forte quanto più il capitalismo è giovane, e la discesa è stata violenta.

L’orizzontale russa conferma tutti gli andamenti delle altre forme capitalistiche.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. vol. II, pag. 492 ed. russa. [⤒]

  2. vol. II, pagg. 374–75, «Pravda», 28–3–1956. [⤒]

  3. La traduzione utilizzata da Bordiga sembra inadeguata. Presentiamo qui una traduzione di questo passaggio, che abbiamo basato sul testo originale tedesco (MEW, Vol. 16, p. 5, «Discorso inaugurale dell’Associazione Internazionale del Lavoro»):
    «È un dato di fatto che la miseria delle masse lavoratrici non è diminuita nel periodo 1848–1864, eppure questo periodo, con il suo progresso industriale e commerciale, non ha eguali negli annali della storia. Nel 1850, uno degli organi più informati della classe media inglese profetizzò: ‹Se le importazioni e le esportazioni dell’Inghilterra aumenteranno del 50 %, il pauperismo inglese scenderà a zero›. Bene, bene! Il 7 aprile 1864 il Cancelliere dello Scacchiere, Gladstone, deliziò il suo pubblico parlamentare dimostrando che le esportazioni e le importazioni totali della Gran Bretagna nel 1863 ammontavano a ben 443 955 000 sterline! ‹Una somma sorprendente, circa tre volte superiore al totale del commercio britannico nell’epoca quasi scomparsa del 1843!›. Nonostante tutto questo, parlò eloquentemente di ‹povertà›.» (sinistra.net)[⤒]


Source: «Programma Comunista», № 10, 1956

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