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ANCORA UNA VOLTA LA GUERRA HA DIMOSTRATO DI ESSERE LA CONTINUITÀ DELLA POLITICA IN TEMPO DI PACE


Content:

Ancora una volta la guerra ha dimostrato di essere la continuità della politica in tempo di pace
Neo-liberismo e stato sociale
Il processo di centralizzazione e militarizzazione del potere dello stato
Segnali di recessione sempre più marcati
A chi sono serviti gli attacchi alle due torri e al pentagono?
Mass-media assunti a tempo pieno
La guerra per il controllo del petrolio
E la classe operaia?
Source


Ancora una volta la guerra ha dimostrato di essere la continuità della politica in tempo di pace

Neo-liberismo e stato sociale

Secondo le nuove teorie degli economisti il «neoliberismo» si distinguerebbe dal capitalismo «liberale» di ieri dal fatto che, mentre rivendica, oggi come ieri, l’utilizzo dello Stato come «capitalista collettivo» al servizio dell’economia nazionale, ripudia lo stato interventista nell’economia privata. Ciò ha come primo risultato lo smantellamento dello stato sociale e la svendita dei servizi pubblici alle imprese private con lo scopo di trasformare, quelli che erano considerati costi sociali, in occasione di sfruttamento e realizzazione di profitti. La privatizzazione neo-liberista non guarda in faccia nessuno: i servizi fondamentali, i trasporti, l’istruzione, la salute l’energia e le telecomunicazioni, tutto ciò che fino a poco tempo fa era considerato, pur se demagogicamente, bene collettivo, viene sottomesso alla logica del mercato. Negli Usa da tempo il denaro pubblico, in percentuale sempre più consistente serve per consolidare la conquistata fama di «potenza globale», decisa a sostenere i propri interessi anche con la forza militare. Il cuore pulsante della superpotenza statunitense è il complesso militare-industriale; e ciò garantisce la sua affidabilità agli occhi dei grossi investitori esteri, i quali continuano a finanziare un debito ormai di 18 800 miliardi di dollari, oltre il doppio del PIL Usa, insostenibile per qualsiasi altra nazione capitalistica. È evidente quindi che l’ America ha una vitale necessità della guerra, soprattutto in periodi di crisi e di eccesso di produttività in rapporto a un mercato interno e internazionale ridottosi per effetto di una crisi finanziaria globale che ha colpito anche le classi medie, come l’attuale. Principalmente questa guerra ha permesso all’amministrazione Bush di varare un piano a lungo termine per ridare fiato all’economia, improponibile in tempo di pace senza infrangere il sacro dogma del liberalismo, secondo il quale lo Stato non deve intervenire nella vita economica dei paesi per avvantaggiare le industrie nazionali: un primo pacchetto di aiuti sarà di 110 miliardi di dollari, 70 dei quali vanno ai maggiori gruppi economici (IBM, General Motors, General Electric, ecc.). sotto forma di riduzione di tasse. Inoltre per accrescere la propria forza militare inietta dosi ancor più massicce di denaro pubblico nelle industrie belliche private: la Lockheed Martin riceverà dal Pentagono oltre 200 miliardi di dollari per costruire 3000 caccia Joint Strike.

Il processo di centralizzazione e militarizzazione del potere dello stato

Grazie al clima di paura seminato ad arte fra la popolazione, prima con lo spauracchio del terrorismo islamico, poi con gli untori dell’antrace, l’opinione pubblica accetta senza fiatare qualsiasi limitazione della presunta libertà. Prima di tutto, così come nella seconda guerra mondiale in America tutte le fabbriche d’auto e di aerei furono requisite e dirette da Commissioni governative che fissarono quantità e qualità della produzione, oltre naturalmente i prezzi, se lo scontro si dovesse radicalizzare, ci si deve attendere nei paesi capitalistici la militarizzazione dell’economia.

In secondo luogo gli Stati imperialisti dovranno controllare qualsiasi dissenso interno e accelerare il processo di militarizzazione della vita sociale, che vuol dire, così come fu nell’ultima guerra, controllo poliziesco della popolazione, soprattutto immigrata, incentivazione dei blocchi stradali con sorveglianza armata, instaurazione della censura postale, telefonica e restrizioni dei mezzi di comunicazione di massa audio-video e stampa, divieto di usare mezzi di comunicazione non facilmente intercettabili quali la rete internet; quindi, così come insegna Genova, divieto di manifestare pubblicamente in massa. In quell’occasione la causa che ha fatto scattare la rabbiosa reazione dei carabinieri e della polizia, è stata lo sconfinamento di una «zona rossa», la quale, sperimentata con successo a Genova, verrà riproposta in ogni occasione del genere. Soprattutto quando a scendere in piazza saranno i proletari e magari per obiettivi più radicali o rivoluzionari di classe. Intanto in Italia, anticipando i tempi, si vara la nuova legge sull’immigrazione che introduce elementi peggiorativi alla legge 40 (quella dei «sinistri» Turco-Napolitano). Da oggi saranno più facili le espulsioni, più restrittivi i permessi di soggiorno perché direttamente legati a nuovi contratti di lavoro a tempo determinato e indeterminato che non potranno superare i 2 anni, dimezzata la durata di iscrizione al collocamento e aumentate le pene per immigrazione clandestina. Insomma, con le nuove norme introdotte dalla nuova legge Bossi-Fini, la vita del lavoratore straniero, disposto ad accettare qualsiasi ricatto per un tozzo di pane, diventerà un inferno nelle mani di padroni bisognosi di merce lavoro fresca e a basso costo, riserva abbondante di manodopera buona solo a calmierare il costo del lavoro.

Segnali di recessione sempre più marcati

La crisi economica mondiale cancellerà l’anno prossimo 24 milioni di posti di lavoro, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: lo prevede l’organizzazione internazionale del lavoro delle N.U., che sottolinea che la recessione, già in atto prima dell’11 settembre, si è ulteriormente aggravata. Negli Usa l’indice dei direttori degli acquisti (se supera quota 50 indica una fase di espansione, se resta al di sotto segnala che l’economia frena) è stato, nel mese di ottobre, di 39.8 punti.
«Si tratta dei declini più forti da quando questo tipo di indicatore è stato introdotto nel '31»
ha riferito il responsabile dell’istituto preposto a studiare i dati. Aumenta la paura anche in Germania e in tutta Europa in seguito al crollo degli indici economici, soprattutto quelli finanziari, i peggiori dal 1993. La conferma arriva con la dichiarazione del Ministro delle Finanze Hans Eichel il quale ha dovuto pubblicamente ridimensionare le sue percentuali di stima di crescita del PIL per il 2001, abbassando la previsione dal 2,0 % (già bassa rispetto al 3,0 % raggiunto nel 2000) allo 0,75 %. In Giappone il premier Junichiro Koizumi ha dovuto ammettere con molto rammarico che il Pil relativo all’anno fiscale 2001–2002 subirà a marzo un calo dello 0.90 % rispetto all’aumento dell’1,7 % stimato in precedenza. Già in agosto i dati sulla produzione americana erano pessimi (-0.80 %) e con agosto sono 11 le cadute consecutive dell’out-put industriale (termine tecnico per definire i fallimenti: e per trovare una serie negativa così lunga occorre tornare alla crisi del 1960). Su base annuale, la produzione industriale segna una flessione del 4.80 %, e ciò che preoccupa i padroni americani è che questi dati non erano stati previsti dagli analisti. Anche senza gli attentati alle torri gli ultimi indici macro-economici mostrano con chiarezza una fortissima decelerazione della crescita che quasi sicuramente spingerà sotto zero l’andamento del PIL americano nel terzo e quarto trimestre. Prima dell’apertura della borsa chiusa a seguito degli attentati, prima del lunedì che si prevedeva nero, la Federal Reserve si preparò a tamponare la crisi dei mercati finanziari con forti dosi di doping (abbondanti immissioni di liquidità), imponendo accordi di scambi drogati con la Banche Centrale Europea e Canadese (alle quali la Federal Reserve ha messo a disposizione oltre 100 000 miliardi di lire per intervenire sui mercati), oltre ad utilizzare una nuova riduzione dei tassi di interesse, una ricetta ultimamente molte volte applicata. Il cordone finanziario studiato per evitare un vero e proprio crack di Wall Street, il pericolo del quale ha risvegliato negli USA un clima di patriottismo economico senza precedenti, ha permesso di applicare provvedimenti estremi, come l’autorizzazione data alle società quotate in borsa ad acquistare azione proprie; quelle operazioni di buy back solitamente disciplinate da regole severe, che in questo caso non hanno sollevato alcun segnale di protesta fra gli operatori economici. A sottolineare la sacralità dell’evento e l’importanza di partecipare alla grande Messa in onore del Dio Denaro. al grido di «God Bless America», alla storica giornata d’apertura del NYSE, erano presenti il segretario al tesoro americano O’Neill, il governatore dello Stato di New York G. Pataki e il sindaco-sceriffo Giuliani. Tanta era la paura e nonostante tutto il Dow Jones, fra la «soddisfazione» degli astanti, chiuderà con un -7.05 %. Ma anche G. W. Bush sarà costretto ad ammettere che una forte crisi, che già si stava manifestando negli ultimi mesi dopo gli attentati, potrebbe registrare un’accelerazione. La fiducia dei consumatori tende ad essere in forte calo, le borse, dopo la chiusura della settimana più brutta dell’anno, se la vedono brutta; le grandi imprese americane, soprattutto automobilistiche, che stanno registrando una forte riduzioni di vendite, devono rivedere gli indici analitici e sono costrette a studiare piani di ristrutturazione che prevedono forti licenziamenti. Insomma gli USA sono in una fase di recessione di cui, ameno per ora, non si può conoscere la durata. Come rivela un servizio economico della Cnn alcuni operatori hanno confessato «di non sapere più che fare». Le uniche industrie a non conoscere crisi sono quelle che producono materiale bellico. Beneficiando del clima guerrafondaio, con la guerra hanno una grossa opportunità: Quella di sperimentare sul campo l’efficacia delle loro merci speciali e di progettarne di nuove, magari più micidiali di quelle batteriologice e chimiche che, secondo la denuncia dei talebani afgani (come prima in Iraq e in Kossovo), l’esercito americano sta utilizzando dai primi giorni di bombardamenti.

A chi sono serviti gli attacchi alle due torri e al pentagono?

Se non possiamo, anche se ci interessasse farlo, azzardare sui nomi dei possibili esecutori materiali (ma la nostra epoca ci ha troppe volte confermato che la realtà supera di molto la fantasia), la certezza è che i mandanti politici potrebbero essere molti, perché molti hanno tratto benefici da quella strage. Non ultima a non essere esclusa da sospetti è la stessa America, la quale, per voce del suo più illustre cittadino, il petroliere G. W. Bush, ha dichiarato che un’occasione più ghiotta di questa per sistemare la sua politica estera, non si ripresenterà tanto facilmente. E Bush all’indomani dell’attentato sarà investito di poteri imperiali assoluti dal Congresso americano, che lo autorizza ad utilizzare tutta la forza militare necessaria e gli mette a disposizione risorse finanziarie inimmaginabili. Infatti pochi giorni dopo l’attacco al cuore di N.Y. il Congresso approva un fondo straordinario di 40 miliardi di dollari per la ricostruzione, somma che, tanto per fare un confronto che dimostra la portata della posta economica in palio, corrisponde a due terzi del costo totale della guerra del Golfo. Anche il pentagono farà la sua parte richiamando il 14 settembre 35 000 riservisti.

«bin Laden è solo una scusa» anche secondo il muftì Jamel di Karachi, il quale in questa occasione esprime il comune sentimento di gran parte del popolo pakistano, e non solo di quello.
«La vera ragione di questa guerra è che Washington vuole imporre la sua supremazia su questa regione – se il problema fosse il terrorismo altrimenti perché non attacca Israele per quello che fa ai palestinesi, o l’India, o la Russia che stermina i ceceni? Le risoluzioni dell’Onu sulla Palestina o sul Kashmir sono inapplicate da 50 anni» («Il Manifesto», 23. 10. 2001).

Anche l’Onu sarà fra i primi a benedire la guerra santa americana. Prono al volere del suo associato più ricco e potente, in cambio di una manciata di dollari di cui era da tempo creditore, accetterà di limitare il suo intervento a soli compiti di croce rossa mondiale nelle mani dei paesi occidentali. Grazie a questa « ghiotta occasione» gli USA potranno mettere alla prova la raggiunta compattezza dell’unità politica in Europa, la quale alla prima seria prova, ovvero di fronte alla richiesta americana di supportare la sua economia e di sottomettersi in modo acritico alle sue esigenze imperialiste, dimostra di traballare. Infatti se da un lato, Germania e Francia, pur costrette ad aderire ai piani americani, mettendo in discussione la loro capacità di diventare leaders effettivi di una coalizione sempre più disorganica, fanno il muso duro brontolando contro gli ordini d’oltre oceano, dall’altra l’Inghilterra, dimostrandosi la più fedele serva del cugino più forte, potrà trarre vantaggio nel veder realizzata la sua ispirazione a diventare padrona dell’Europa. Non a caso Tony Blair, premier laburista inglese e maggiordomo di Bush, si dimostrerà ancora una volta il più fervoroso e incondizionato alleato degli americani. Verrà infatti spedito in giro per il mondo, specie nelle ex-colonie dell’impero britannico, per tentare di consolidare l’alleanza India-Pakistan-Medio Oriente, ricavandone solo «schiaffoni», nonostante avesse nella manica un asso del tipo:
«stiamo per studiare la possibilità di rilanciare con Israele accordi per un futuro Stato palestinese».
L’Italia invece ancora una volta dimostra tutta la sua debolezza «geografica», trovandosi ancora a svolgere la sua funzione di portaerei del Mediterraneo stretta fra la morsa di vicina di casa dei paesi arabi e di principale forza strategica del patto atlantico. Sicuramente gli Stati che avranno maggior giovamento dagli episodi dell’11 settembre scorso saranno Israele e India. Il primo perché, vedendo continuamente diminuire la solidarietà dei paesi occidentali e soprattutto di quello americano verso la sua causa nazionale, con la ventata di anti-arabismo improvvisamente «piovuta dal cielo» continuerà ancora per un po’ a svolgere funzioni di agente di un’area che, grazie anche alla sua spregiudicata politica nei confronti della Palestina, comincia a diventare sempre più elemento di instabilità geo-politica. Poi l’India che grazie ai problemi interni creati in Pakistan (il cui governo golpista è stato convinto ad allearsi agli americani grazie a lauti aiuti finanziari promessi) dall’ondata di sollevamento a favore dei «fratelli islamici» pashtun, avrà maggior libertà di repressione in Kashmir. Anche Russia e Cina in qualche modo beneficeranno della situazione e non solo perché sembrano aver ricevuto dagli USA l’autorizzazione a combattere liberamente contro i propri nemici «terroristi» del Caucaso e del Tibet. Per prima la Cina, la quale allo scopo di sistemare un’area esplosiva e aperta ai fondamentalismi religiosi che, con il loro credo di «fanatismo anti-americano», armano non solo ideologicamente le masse diseredate, vede la possibilità di soddisfare l’ambizione di essere riconosciuta una superpotenza regionale e mondiale che, dopo l’entrata ufficiale nel WTO avvenuta in questi giorni, nessuno ostacola.

Quindi la Russia, alla quale gli USA sono stati costretti a chiedere il favore di ottenere via libera nell’Asia Centrale, in cambio di concessioni politiche (non ultima la promessa di appoggiare l’entrata al WTO) e finanziarie. Chi avrebbe potuto immaginare vent’anni fa che gli Americani sarebbero stati costretti ad armare ed addestrare le forze afgane, i mujaheddin dell’Alleanza del Nord, appoggiati dai Russi? Certamente l’attacco alle torri è servito alle compagnie aeree, le quali già profondamente in crisi economica, sono riuscite ad ottenere, con il consenso dell’opinione pubblica, dei sindacati, dei partiti anche d’opposizione, grandi prestiti, piena considerazione dei gravi problemi che le attanagliano e ampia disponibilità ad affrontarli nel modo meno indolore per le compagnie. In Usa la Delta Airlines, terza compagnia nazionale, ha registrato nel terzo trimestre perdite per 295 milioni di dollari e ha confermato che taglierà 13 000 posti di lavoro (il 16 % degli impiegati) e la United Airlines, seconda compagnia. ha comunicato una perdita record di 1.16 miliardi di dollari nel terzo trimestre 2001.

In Europa, dopo il fallimento della compagnia di bandiera svizzera. c’è l’annuncio che la Crossair subentratale, a causa dell’incertezza sulle risorse finanziarie non potrà rilevare i voli della Swissair; la Lufthansa il 20 ottobre scorso ha annunciato nuovi esuberi e l’impossibilità di evitare tagli dai 6000 ai 7500 posti di lavoro a meno che non sia introdotta la settimana lavorativa di quattro giorni a salario decurtato (W. Mayrhuber, dirigente della compagnia. ha dichiarato che «i sindacati sono disposti a trattare»); la belga Sabena dichiara di trovarsi già sull’orlo del fallimento e l’olandese KLM si attende forti perdite per l’anno 2001. Intanto nel fronte interno esplode il panico per la minaccia antrace. Anche qui, materialmente e dal punto di vista economico, uno soddisfatto di quanto sta succedendo in America è facilmente individuabile. Se da un lato la paura per la diffusione della mallatìa, attribuita ai terroristi islamici, incrementa l’odio verso l’invisibile nemico e quindi la solidarietà patriottica verso la guerra, dall’altro il colosso farmaceutico tedesco della Bayer, che stava attraversando uno dei periodi finanziari più tristi dalla seconda guerra mondiale a causa del micidiale Lipobay, si trova «per caso» l’unico distributore autorizzato (secondo le leggi protettive del WTO volute soprattutto dagli americani) del Cipro, il solo farmaco anti-carbonchio oggi in commercio. Nonostante venga venduto a prezzo di monopolio, il Cipro va a ruba negli Usa subito dopo il primo allarme di pericolo di contagio, tanto che la casa tedesca sarà «costretta» anche a riaprire due fabbriche, una in America e l’altra nella madre patria, chiuse dopo lo scandalo Lipobay per far fronte alle tante richieste, e come per miracolo, le casse della Bayer si gonfiano. Quando si dice il caso!

Mass-media assunti a tempo pieno

«Si sa, nelle guerre la prima vittima è la verità, e (…) mai come questa volta mi sembra che lo si sia addirittura teorizzato e pianificato con grande abilità»,
afferma Curzi Maltese di «La Repubblica» in un intervista su «Carta» (n. 1612001)

In ogni occasione importante, quando i sacri valori del capitalismo e della patria sono messi in pericolo, e insieme ad essi anche il posto di lavoro e la paga dei prezzolati pennivendoli loro dipendenti, i mezzi di informazione, salvo qualche piccolissima eccezione, si danno il loro ben da fare per dimostrare che anche questa volta il «male» ha voluto mettere a dura prova la pazienza dello stato più democratico del pianeta, il quale. suo malgrado, ancora una volta sarà costretto a ripristinare la pace e la democrazia messe in pericolo. Un rappresentante della stampa «libera» italiana che ha il merito di parlare chiaro, dice:
«La riforma del giornalismo mondiale è virtualmente cominciata. Bush ha detto che non ne può più delle fughe di notizie, che questa guerra durerà anni, che nel frattempo dobbiamo prendere dal palazzo del potere politico e militare l’unica cosa a disposizione: la velina di guerra, il comunicato ufficiale, il commento autorizzato, un po’ di propaganda. Uscita criticabile? Non direi. (…) Se i governi e le istituzioni adotteranno una politica di riservatezza e di rigore, quello che riusciremo a raccontare avrà più valore, sarà filtrato da un setaccio più severo. Sarà più credibile» (Giuliano Ferrara, «Il Messaggero» del 12. 10. 2001).
E dato che la maggior parte dei giornali e delle Tv lavora soprattutto con le notizie delle agenzie di stampa internazionali, la maggior parte delle quali sono americane, non vediamo come qualsiasi giornalista anche in buona fede possa dar torto a Ferrara. La grave provocazione subita ad opera di un malvagio (il Satana di turno questa volta è Osama bin Laden) inchiodato da prove schiaccianti, anche se non ancora rese pubbliche, costringe la nazione depositaria dei sacri valori inviolabili della democrazia, in nome del libero mercato messo in pericolo, a dichiarare guerra. Pochi parlano del fatto che bin Laden è il prodotto di una serie di «giri» di soldi, contatti politici e sentieri del «sottobosco» mondiale, di una
«storia di un flirt, iniziato ai tempi di Nasser, (…) quando l’amministrazione Usa pensò che l’Islam radicale poteva essere usato contro il comunismo. (…) Fu matrimonio durante l’invasione sovietica dell’ Afghanistan». («Carta» n. 1612001).

Giornalisti di tutte le tendenze politiche avranno il compito di dimostrare che la guerra sarà il più possibile indolore per la popolazione civile (e se qualche bomba dovesse esplodere su scuole o ospedali si tratterà sicuramente di un errore umano), che le vittime occidentali saranno poche (anche se qualche sacrificio umano sarà necessario), che, nonostante tutto, la vittoria non potrà che essere quella dell’occidente, culla della civiltà sull’oriente oscurantista. Per ragioni strategiche, militari ed economiche, sarà inevitabile per televisioni e giornali, convincere l’opinione pubblica che ad essere attaccata è la fede americana nella libertà, nella democrazia e nel «american way of life», e nell’attuale clima di dolore, rabbia e sdegno, è un concetto facile da inculcare. Nel 1996 una rete televisiva americana chiese in un’intervista all’allora ambasciatrice americana all’ONU Madeleine Albright, cosa provasse sapendo che 500 mila bambini iracheni erano morti a causa delle sanzioni americane. Rispose che era «una scelta durissima» ma «un prezzo da pagare». Con la stessa noncuranza, sostenuto da una campagna pubblicitaria da far invidia alla Coca Cola, il presidente Bush attraverso i mass-media ha chiesto ad ogni bambino americano di versare un dollaro per aiutare i loro coetanei afgani più sfortunati.

Sul n. 407/2001 di «Internazionale». A. Roy giornalista indiana del quotidiano inglese «The Guardian» scriveva il messaggio – l’attacco dell’11 settembre, ndr – forse è stato scritto da bin Laden (chi lo sa?) e consegnato dai suoi corrieri, ma potrebbe essere stato firmato dai fantasmi delle vittime delle vecchie guerre americane.

«I milioni di persone uccise in Corea, Vietnam, Cambogia, le 17 500 persone uccise quando Israele – sostenuto dagli USA – invase il Libano nel 1982, le decine di migliaia di iracheni uccisi nell’operazione Desert Storm, le migliaia di palestinesi morti combattendo l’occupazione israeliana della Cisgiordania. E i milioni che sono morti in Jugoslavia, Somalia, Haiti, Cile, Nicaragua, El Salvador, la Repubblica Domenicana, Panama, per mano di tutti i terroristi, dittatori e responsabili di genocidi che il governo americano ha appoggiato, addestrato, finanziato e rifornito di armi. E non è certo un elenco completo».
Forse sta qui la differenza fra la «civiltà americana» e la «barbarie islamica», fra «la guerra inevitabile perché santa» e i «danni collaterali».

La guerra per il controllo del petrolio

Ipotesi suggestiva quella della Roy, la quale ci trova sostanzialmente d’accordo, se non fosse che purtroppo le guerre, oggi come ieri, si fanno per motivi meno nobili di quelli del ripristino di una giustizia da ogni campo avverso sbandierata. L’ Afghanistan non ha petrolio,. anche se è uno dei paesi più ricchi al mondo di gas naturale. E questo potrebbe far dedurre che, a differenza di quella contro l’Iraq di dieci anni fa, questa guerra non c’entra con l’oro nero. Invece, sfortuna per lui, l’Afghanistan si situa geograficamente al centro di tutti i progetti di oleodotti e gasdotti che dall’Asia Centrale e dalla regione intorno al Mar Caspio vanno verso l’Oceano Indiano, verso il Pakistan, l’India e soprattutto la Cina, che se continua il suo eccezionale progressivo sviluppo diventerà a breve termine la potenza asiatica più assetata di petrolio al mondo. Gli Usa, vistasi chiusa la via dell’Iran «integralista» e antiamericano, aiutati dal Pakistan, hanno caldeggiato per anni i talebani per aiutarli a cacciare il nemico russo e per aprirsi questa importante via energetica, fino a riempirli di dollari e di armi.

Se avessero controllato i talebani e con loro l’Afghanistan, potevano assicurarsi il controllo di un’area strategica per la fornitura di energia che contiene il doppio delle riserve di tutti gli Stati Uniti, Alaska compresa, e del Mar del Nord. Infatti il solo Kazakistan costituisce la quinta riserva di petrolio del mondo, il Turkmenistan è il quinto paese al mondo per riserve di gas naturale e lo stesso Afghanistan ha riserve di gas quasi simili al Canada che è considerato uno dei paesi decisivi per la «copertura» energetica mondiale.

Ora devono vincere la guerra:
«Un mercato petrolifero dominato dai seguaci di bin Laden» – ha scritto «l’Unità» del 5 novembre scorso – «rappresenterebbe oggi un colpo esiziale (gli Stati Uniti hanno una dipendenza esterna per il petrolio pari al 60 % e l’Europa per il 58 %) sia per le economie ricche dell’occidente che per i paesi in via di sviluppo privati di un fattore indispensabile alla crescita della loro produzione. (..) Ancora due dati: le riserve americane di petrolio hanno un orizzonte di vita ristretto (10 anni) e i giacimenti del Mar del Nord valgono solo 1'1.5 % delle riserve mondiali. Inoltre il percorso di emancipazione dal petrolio grazie ad una più ampia disponibilità di energie alternative è appena agli inizi. Sicché, nascondere la centralità della questione petrolifera in relazione all’attuale «economia della paura» rappresenta da un lato un inutile falso pudore e dall’altro una distorsione nel dibattito tra favorevoli e contrari agli interventi armati in corso».
Con l’Onu e la Nato completamente messe da parte. Con la pratica di un esercizio unilaterale del diritto alla guerra. Di fronte al documento del 30 settembre scorso «Quadrennial Defense Review Report» del Dipartimento della difesa americano, dove si parla esplicitamente degli Stati Uniti come del «global power» destinato a esercitare una egemonia globale e dove si sostiene che gli Usa devono porre sotto il loro controllo l’area caspica e caucasica, sede di immense riserve energetiche, che avranno sicuramente letto, chissà per quale vero pudore la maggioranza dei parlamentari Verdi o DS (ex-PCI) hanno votato a favore dell’intervento italiano?

E la classe operaia?

L’ordine imperialistico che sembrava aver ben assorbito il crollo del muro di Berlino con tutti gli sconvolgimenti che aveva prodotto nelle diverse aree prima controllate dal duopolio nato dalla cenere della seconda guerra mondiale, investito da una grave recessione, acutizzata dalla guerra in corso, sta ora conoscendo uno dei momenti peggiori della coesistenza pacifica.

Quell’ordine che sembrava regnare immutabile e sovrano è investito oggi da segni evidenti di recessione: i paesi di «nuova democrazia» che avrebbero dovuto essere un nuovo polmone per il mercato mondiale, sono attanagliati da una gravissima crisi. Le guerre nazionali sono alla porta di casa e l’imperialismo deve usare le armi per non perdere le sue sfere di influenza. La guerra fra l’Occidente coalizzato intorno agli Usa e l’Afghanistan dei Talebani è una guerra impari. Una vittoria dell’Afghanistan, anche se contribuirebbe a rendere ancor più difficile la ripresa dell’economia capitalistica, è estremamente poco verificabile. Per questo motivo possiamo dire francamente che se potessimo tifare per qualcuno la nostra simpatia andrebbe al paese straccione.

Già una decina d’anni fa, in occasione della guerra del Golfo, scrivevamo:
«… per questo, noi internazionalisti, non solo non paventavamo la guerra, ma, pur senza farci illusioni, ci auguravamo che il suo corso potesse essere tale da implicare la sconfitta o almeno l’indebolimento degli USA, nonché lo sfaldamento della coalizione da essi capeggiata, ci auguravamo che sull’onda di simili avvenimenti, le masse arabe potessero sollevarsi travalicando i limiti della servile strategia Irakena per travolgere così non solo l’aggressore imperialista, ma anche i suoi lacchè locali, Saddam compreso. Questo risultato – che localmente non avrebbe avuto nemmeno nel caso di una comunque assai lontana rivoluzione proletaria la possibilità di travalicare compiti rivoluzionari 'popolari' – avrebbe potuto contribuire a risvegliare la classe operaia occidentale, drogata da decenni di boom economico e di politica opportunista, e dunque succube come mai, purtroppo anche stavolta, del suo nemico, la borghesia capitalista« (ns. «Bollettino» del Gennaio 1992).
Ciò non significa dover rinunciare alla denuncia della politica arretrata e medioevale dei «Principi» orientali, i quali, alla pari del loro nemico occidentale, mirano a controllare il mercato petrolifero soprattutto dell’Arabia Saudita, titolare di un quarto della produzione mondiale di olio nero.

Il peso dell’imperialismo mondiale, i suoi legami con le nuove borghesie nazionali già corrotte ancor prima di nascere o, come in Afghanistan, con poteri ancora semi-feudali (di cui, ricordiamolo ancora una volta, la stessa America si è servita fino a qualche anno fa in funzione anti-russa), la presenza di enormi masse popolari nella maggior parte non proletarie, mantenute in uno stato di povertà crescente sia dallo sfruttamento delle loro classi dominanti che dalla politica di rapina delle borghesie d’oltremare, rende ragione delle periodiche esplosioni di furore popolare, che assumono le caratteristiche di vere e proprie rivolte talora con connotazioni formalmente religiose (islamismo, guerra santa) dove però il tema religioso nasconde fondamentalmente una tendenza antimperialista e nazionalista (come l’illusione di una grande rivoluzione «democratica» panaraba). Anche questa volta, dobbiamo assistere all’impotenza di una classe operaia delle grandi metropoli capitalistiche occidentali, che continua a seguire la politica criminale dei suoi governi.

Segni tangibili di questa mancanza di autonomia dal capitale si hanno in Italia soprattutto sul terreno politico: di fronte alla chiamata alle armi dei soldati italiani in appoggio alla coalizione occidentale la maggioranza della classe operaia viene attratta dalle parole d’ordine nazionaliste o di innocui pacifisti, i quali, se oggi hanno il compito di sviare le masse da prese di posizioni radicali, domani saranno coloro che dovranno disarmare le forze rivoluzionarie in nome di una comune civiltà capitalistica da difendere.

Sessant’anni di controrivoluzione e di opportunismo hanno corrotto il proletariato mondiale e hanno distrutto il suo partito e le sue organizzazioni economiche di classe, tanto che ancora non si intravede, non solo un minimo di reazione organizzata alla guerra, ma nemmeno un barlume di ripresa della lotta sul terreno della richiesta di migliori condizioni di vita e di lavoro. Ma la prospettiva, anche se non si vedono ancora chiari segni di una generale ripresa proletaria, non può essere che la saldatura fra movimento classista nelle metropoli e movimento dei popoli colorati.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE


Source: Flp a Schio, 13/11/2001.
Con l'aggiunta: la nostra sede di Schio, Piazzetta S. Gaetano 1, è aperta tutti i martedì dalle ore 20,30

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