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LA RUSSIA NELLA GRANDE RIVOLUZIONE E NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA


Content:

La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea
A) Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica
1. La lotta interna nel partito russo
2. Il grande scontro del 1926
3. I cinquant’anni di Trotzky
4. La posizione di Stalin
5. I «venti anni» di Lenin
6. Rivoluzioni che sbrigano compiti arretrati
7. Rivoluzione Americana antischiavista
8. Parallelo dialettico
9. Perché non si fece ricorso alle armi?
10. La burocrazia, mira sbagliata
11. Perché non ci si appellò al proletariato?
B) La mentita opposizione tra le forme sociali russe ed occidentali
12. Il passo della industrializzazione
13. Dantesco prospetto dell’inferno borghese
14. Leggi dell’accumulazione
15. Scorrendo il quadro
16. Peggio le crisi delle guerre
17. Obiezioni della controtesi
C) Il sistema socialista alla «FIAT»?
18. Un cenno dell’alma Italietta
19. Augustae taurinorum
20. Valletta-Bulganin
21. L’insidiata forza di lavoro
22. Piano quinquennale per la grande FIAT
Marxismo e autorità – La funzione del partito di classe e il potere nello stato rivoluzionario
23. Chi arbitrerà le divergenze?
24. Libertà e necessità
25. Dalla democrazia all’operaismo
26. Corso economico e rapporto di classe
27. Miseria dei rischi crescenti
28. La classe si cerca altrove
29. Interna vita del partito di classe
30. Le meschine comunità periferiche
31. Sfilata di cordiali nemicissimi
Notes
Source


La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea

A) Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica

1. La lotta interna nel partito russo

La storia non entra nell’uomo per la testa; non per tale via lo conduce ad agire; sì che il poverino si illuda che è lui a manipolare lei. È per questo che nell’assaporare e digerire le lezioni storiche ogni poverino di noi non può resistere al prurito di cambiare quello che fu l’inesorabile accadimento, e solo dopo ripetute masticazioni e ruminature riesce a trarre il costrutto di quel che è stato, perché così doveva essere.

Gli eventi stritolanti del dramma sociale non sono come alcune produzioni di Pirandello e alcuni films messi in commercio, che hanno il doppio finale, in modo che, nelle file del pubblico, l’isterismo, delle gagarelle e dei gagarelli magari stagionati, può scegliere quello che lo fa meglio vibrare.

Non ha quindi molto senso il chiedersi «come si sarebbe dovuto fare» ad impedire che Stalin, che lo stalinismo, avessero partita vinta, e il partito che aveva vinto la Rivoluzione di Ottobre, lo Stato che esso aveva fondato, facessero la miserevole fine, che abbiamo dimostrato in tutto il decorso.

L’impressione è più dura oggi che perfino gli apologeti dannati di quella soluzione, che la storia ha archiviato, sono stati costretti a non poter più dire che tutto era andato per il meglio nella migliore possibile rivoluzione, che una costellazione di sbagli, di nefandezze, di infamazioni, di inutili (!?) allucinanti stragi si è concatenata al processo dei fatti.[1]

La riunione ha avuto per tema l’insieme del lavoro e degli studi dedicati dal movimento alle questioni della Rivoluzione e della struttura sociale in Russia.

Se più ragionevolmente ci domandiamo le cause che hanno influito sulla diversa strada che il movimento in quel torno ha preso, possiamo anzitutto ravvisare la principale nella sconfitta del proletariato dei paesi occidentali che, ripetutamente battuto, mostrò chiaramente di non essere in condizione di vincere la lotta per il potere. L’Europa era già da vari anni entrata in una situazione più sfavorevole a tutti i partiti comunisti, e il potere borghese si era ovunque consolidato dopo il difficile periodo del dopoguerra, avendo raccolta l’alternativa fra la dittatura operaia e quella capitalista, avendo impiegato senza esitare i mezzi dì repressione, a cui chiaramente qualunque paese avrebbe ricorso nell’emergenza di evitare un potere comunista, e senza eccezioni.

Nella stasi della rivoluzione all’estero il problema della rivoluzione russa mostrava tutte le difficoltà, per intendere le quali non è necessario affatto modificare menomamente la sicura visione sostenuta da Lenin nelle lunghe tappe che abbiamo descritte. Essa era a cavallo su due forze, di cui una, la proletaria, era ancora menomata quantitativamente dal decomporsi dell’industria dopo la guerra nazionale e civile, l’altra, immane quantitativamente quella contadina, qualitativamente aveva efficienza rivoluzionaria solo in una fase di passaggio, fino a che erano da adempiere postulati non socialisti, propri di una estrema rivoluzione borghese, ma borghese. Sempre si era detto (e abbiamo provato quando è come) che nella fase ulteriore l’alleato sarebbe divenuto necessariamente nemico. Il contadiname interno come alleato non poteva sostituire l’alleato naturale della rivoluzione bolscevica, ossia la classe operaia dell’estero: era un sostituto inferiore, ed efficiente solo in un termine che consentisse di riprendere respiro, per ridare prevalenza di massa ai proletari autentici.

2. Il grande scontro del 1926

Era chiaro che per sorreggere l’energia proletaria nelle città occorreva ricostituire l’industria e aumentarla: questo era chiaro da prima della morte di Lenin – che noi non allineiamo affatto tra le «cause» di quel che sopravvenne. In questo tutti erano concordi. Ma nelle campagne si era costretti, in sostanza, se si voleva avere l’aiuto dei contadini nella guerra civile e nell’economia generale, a non procedere nella direzione di una proletarizzazione rurale. Lenin aveva duramente ammesso di aver dovuto sostare sul programma dei socialisti rivoluzionari, battuti dal bolscevismo in dottrina e sui campi di battaglia sociale. Infatti si dovette agire in modo che aumento il numero dei lavoratori nelle campagne aventi disposizione personale e familiare di terra coltivata, colla disposizione del prodotto. Scaturì da ciò l’enorme potenziale rivoluzionario della spezzata disposizione del prodotto da parte dei signori terrieri, semifeudali e semi-borghesi, e senza questo spostamento di forze non si sarebbe vinta la guerra civile: nessun posto per pentimenti. Come abbiamo mostrato e andiamo mostrando, scarso rimedio è la teorica dichiarazione che la terra era nazionalizzata, proprietà dello Stato operaio, perché non la proprietà giuridica, ma la gestione economica coi suoi taglienti rapporti, provoca i riflessi sociali di attività politica e combattiva.

Lenin aveva taciuto mai che, una volta battute le incursioni capitalistiche armi alla mano, per accelerare la ricostruzione industriale, ossigeno di vita rivoluzionaria, occorreva ottenere dall’industria estera macchinari, esperti, tecnici, e alla fine capitali in varie forme, che non si potevano avere senza l’offerta di contropartite (concessioni). Queste non potevano in altro consistere che in forza di lavoro interna, e materie prime interne.

La parte sana e proletaria, la sinistra (qui dobbiamo esprimerci con brevità) del partito russo, fedele alle tradizioni di classe, pose la questione nei più volte citati (e letti in brani suggestivi alla riunione di cui riferiamo) discorsi di Zinoviev, Trotzky, Kamenev (anche questo particolarmente deciso, esplicito e coraggiosissimo, contro le urla di rabbia dell’adunata) innanzi alla sessione di dicembre 1926 dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista.

Con decisive citazioni sull’argomento della rivoluzione internazionale, questi nostri grandi compagni provarono che fino alla vittoria della dittatura operaia in alcuni almeno dei paesi capitalisti sviluppati, la rivoluzione russa non poteva rimanere, più o meno a lungo, che in fase di compiti transitori. E ciò non solo nel senso che andava rigettata la formula di Stalin di «costruzione del socialismo in un solo paese»; anzi, e peggio, in un paese come la Russia. Infatti nel ritardo dell’Europa proletaria non solo non poteva in Russia apparire una società, una forma di produzione socialista, ma anche i rapporti di classe non avrebbero potuto essere quelli di una dittatura proletaria pura, ossia diretta contro ogni classe superstite, borghese e semi borghese. Compito dello stato proletario e comunista sarebbe stato quello di edificare un capitalismo industriale di Stato, indispensabile anche ai fini della difesa armata del territorio, e di condurre nelle campagne una politica sociale atta ad assicurare alle città i generi di prima necessità e ad evolvere, lottando contro il pericolo di una privata accumulazione capitalista rurale, verso una industria agraria di Stato, che era ancora ai primi albori.

3. I cinquant’anni di Trotzky

Non per la prima volta insistiamo sulla alta visione rivoluzionaria dello stroncato discorso di Trotzky, il quale mostrò con magnifica chiarezza come lo svolgersi della primordiale economia russa verso forme più moderne avrebbe reso sempre più tremende le influenze economiche e politiche del capitalismo mondiale, e questo avrebbe costituita una minaccia sempre capace di attentare alla vita stessa della Russia rossa, fin che il suo interno proletariato non lo avesse su alcuni fronti battuto.

Insistiamo qui ancora sul fatto già assodato che nei discorsi dì Bucharin e di Stalin (a parte le rifischiature dei vari scagnozzi centristi) nel vantare possibile l’avvento del socialismo integrale in una Russia accerchiata dal mondo borghese, non si escluse affatto, anzi si ritenne sicura, sulla scorta della dottrina di Lenin, una guerra micidiale tra Russia socialista e Occidente borghese, e si stabilì la linea da seguire in una tale guerra, mirando alla rivoluzione mondiale: guerra di classi e di stati, a cui Stalin (mostrammo) ha fatto riferimento in seguito, tanto sulla soglia della seconda guerra imperialista del 1939, quanto nel suo «testamento» del 1953, che il XX Congresso ha con tutto il resto gettato alle ortiche.

Trotzky e gli altri mostrarono senza esitare (vedi in ispecie Kamenev) che la vanteria di montar socialismo non altro era che ritorno del peggiore opportunismo, e che chi avesse levata tale bandiera (Stalin e antistalinisti di oggi) sarebbe in fatto finito nelle braccia del capitalismo imperialista, come fu. Posti davanti alla domanda insidiosa di che cosa «avrebbero fatto» nel caso di una lunga stabilizzazione del capitalismo, risposero che in quella virile e non ipocrita posizione poteva il partito, pure ammettendo di dirigere, col proprio stato politico, una economia ancora capitalista e mercantile, resistere sulla trincea della rivoluzione comunista anche decenni e decenni.

Era a qualche compagno sembrato che un simile termine ultimo fosse stato da Lenin formulato in venti soli anni, e ciò a proposito della nostra accettazione dei cinquanta anni di Trotzky che conducono al 1976, data che noi attribuiamo all’incirca al possibile avvento della prossima grande crisi generale del sistema capitalista nel mondo, ovvero alla terza immane guerra imperialistica. Fu quindi necessario dare le citazioni relative ad un tal punto. Non è grave che il rivoluzionario veda la rivoluzione più prossima di quello che è; la nostra scuola la ha già tante volte attesa: 1848, 1870, 1919. Visioni deformate l’hanno aspettata nel 1945. Grave è quando il rivoluzionario mette un termine per ottenerne la prova storica: mai l’opportunismo ha avuta altra origine, mai ha altrimenti condotte le sue campagne di sofisticazione, di cui quella del socialismo in Russia e la più velenosa.

Trotzky aveva parlato alla XV conferenza del Partito comunista bolscevico, difendendo la tesi della opposizione. Nella sessione dell’Allargato Stalin risponde al suo discorso di allora. Trotzky era giunto nella sua replica a questo punto quando gli fu spietatamente tolta la parola. Siamo costretti a ritrovare la tesi di Trotzky nelle parole del suo avversario.

4. La posizione di Stalin

Stalin in quello svolto, come sappiamo, attenuò la tesi economica (prova che questa è stata in partenza un demagogico posticcio) col dire che la sua formola di costruzione del socialismo significava vittoria sulla borghesia, e successiva edificazione delle basi economiche del socialismo. Gli avversari provarono ad usura quanto egli fosse, costretto dalla prova schiacciante che la sua formula non è in Lenin, e nemmeno in Stalin, o altro, prima del 1924, subdolo, e mascherato da (oggi possiamo dire) molotoviano.

Stalin preferì allora, come suo costume, darsi a diffamare il contraddittore con argomenti tanto banali quanto di facile effetto sul pubblico: gli oppositori non solo non credevano al socialismo in Russia ma nemmeno alla rivoluzione non lontana nei paesi capitalistici: essi volevano ammettere uno sviluppo capitalista in Russia, dunque simpatizzavano per il capitalismo estero.

Un Trotzky non poteva rispondergli come un buffone. Da gran dialettico gli disse che avrebbe creduto e lottato per la rivoluzione europea anche in un avvenire vicino, ma che, se questa non si fosse levata o non avesse prevalso, la Russia bolscevica poteva resistere senza falsificare tradizioni, dottrina e programma rivoluzionario anche cinquant’anni.

Fin dalla riunione di Genova noi rilevammo tra le risate dell’uditorio che tra i fieri stigmatizzatori del «pessimismo» di Trotzky verso la rivoluzione fu allora, tra altri farisei, l’Ercoli, che garentì per una rivoluzione vicinissima; laddove Ercoli non è che Togliatti, e laddove già l’anno scorso, ma con più pacchiana piattitudine oggi, dopo sputato anche su Stalin, fece e fa piani storici costituzionali e legalitarii, nel seno della repubblica attuale e in collaborazione con la democrazia nera, con scadenze ultra cinquantennali a partire da oggi; che diciamo? assicura, in unisono alla banda di Mosca, al mondo borghese una illimitata esistenza, nella pacifica ed emulativa coesistenza!

Citiamo allora Trotzky nella bocca di Stalin:

«La sesta quistione concerne il problema delle prospettive della rivoluzione proletaria. Il compagno Trotzky ha detto nel suo discorso alla XV conferenza: Lenin stimava che, dato lo stato arretrato del nostro paese contadino, noi non arriveremo in venti anni a costruire il socialismo, che noi non lo costruiremo neppure in trent’anni. Ammettiamo trenta-cinquanta anni come minimo.
Debbo dire, compagni, che questa prospettiva inventata da Trotzky non ha niente di comune colle prospettive di Lenin sulla rivoluzione nella Unione Sovietica. Alcuni minuti dopo, nel suo discorso, Trotzky si mette egli stesso a combattere questa sua prospettiva. Affare suo».

È evidente che Trotzky non si era contraddetto, ma aveva anzitutto auspicato una rapida rivoluzione estera. Aveva poi aggiunto che il ritardo di questa non vietava al partito di tenere la sua posizione integrale, senza la sciocca alternativa di Stalin: attuiamo subito il massimo programma socialista, o lasciamo il potere tornando alla opposizione, perseguendo una nuova rivoluzione. Trotzky aveva distrutta la insidiosa alternativa colla autorità di Lenin, che, pure avendo sempre e ad ogni istante dichiarato che la trasformazione sociale russa avrebbe potuto procedere rapida dopo la rivoluzione operaia europea, e anche solo germanica, aveva formulata la chiara eventualità della Russia sola, e previsto il tempo che occorreva, decenni e decenni, non a costruire il socialismo, ma a qualche cosa di ancora molto meno, e preliminare!

Non potevamo leggere alla riunione il discorso della XV conferenza, e ci limitammo a dare come prova il passo di Lenin, in quanto è Stalin stesso, che lo cita subito dopo.

5. I «venti anni» di Lenin

Ecco le parole di Lenin, come sono nello stenogramma del discorso Stalin 2 dicembre 1926, e che non vi è bisogno di riscontrare nel testo di origine, tanto sono eloquenti, e di importanza colossale per dissipare dubbi ed esitazioni di chicchessia. Sono riferite al Vol. IV pag. 374 delle «Opere complete» in russo:[2]

«Dieci, venti anni di buoni rapporti con i contadini e la vittoria è assicurata nel mondo intero [ci permettiamo leggere: davanti o contro il mondo intero], anche con un ritardo delle rivoluzioni proletarie che grandeggiano, altrimenti venti o quarant’anni di tormenti sotto il terrore bianco».

Qui preghiamo Stalin di farsi da parte colla risibile glossa che fa seguire, pur non volendo nemmeno per sogno essere tanto beceri quanto quelli del XX congresso, come prova il fatto che non abbiamo mandato i suoi testi fuori archivio.

Stalin infatti deduce che i venti anni sono un lasso di tempo per fare tutto il socialismo. Oh, que Nenni!

Lenin dice questo. Sono necessari i buoni rapporti coi contadini, e molto a lungo. Non osta a questo il fatto palese che quando vi sono contadini, rapporti coi contadini, e peggio rapporti buoni, non vi è né il socialismo, né la sua completa base. Ma intanto è la sola via per resistere, coll’appoggio armato dei contadini, rispettati nei borghesi loro interessi, ai conati del mondo capitalistico accerchiatore e aggressore, non rovesciato ancora dalla rivoluzione occidentale.

Altro non si può fare, e se si avesse scrupolo dottrinale o sentimentale di amplessi col contadiname, destinato (citammo cento passi di Lenin in merito) a futuro compito controrivoluzionario, le nostre forze armate sarebbero battute dalla reazione borghese e zarista, e ci papperemmo i 40 anni di terrore bianco.

Passati venti anni, Lenin ammette che ormai il nemico armato esterno ed interno non sarà più il pericolo n. 1. Allora, dice Stalin, ecco fatto il socialismo! Ma no, disgraziato idolo oggi infranto: allora si passa ad un’altra fase che nemmeno – sempre nella ipotesi del ritardo rivoluzionario occidentale – può dirsi socialismo. Si denunzia ogni buon rapporto coi contadini, si mettono, da compagni nella dittatura, sotto la dittatura, e sulla base della potente industria urbana di Stato si inizia una nuova fase di capitalismo di Stato totale, anche nella campagna. In altre parole anche i contadini aziendali sono espropriati e passano a proletari autentici. Ciò che la notizia dell’Associated Press attribuiva a propositi di oggi del regime sovietico: in teoria è giusto, perché i quarant’anni sono passati: ma quel potere è ormai declassato e borghese, e nemmeno la statizzazione borghese della campagna è più facoltà sua!

La prospettiva di Lenin è come sempre imponente di forza e di coraggio. Si lega all’antica previsione: dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Ossia dichiara: se non viene la rivoluzione in Europa noi non vedremo in Russia il socialismo. Non per questo lasceremo il potere, non per questo diremo, con formula tanto sfacciatamente menscevica del 1903 quanto staliniana del 1926 (puramente polemica!): «borghesia, governa pure, e noi passiamo buoni buoni a oppositori»; ma seguiremo la nostra luminosa via: alcuni decenni coi contadini alleati (che, se prima si leva l’alleato operaio estero manderemmo al macero in quarta velocità) e lotta, diretta dal proletariato, contro le rivolte al nuovo Stato, contro gli attacchi dall’estero, e per gettare le basi industriali del futuro socialismo. Indi, dopo questa prima fase transitoria ma senza altre interne rivoluzioni politiche, fase del capitalismo di Stato totale, urbano e rurale. Da questo classico ultimo gradino di Lenin al socialismo non mercantile, (al di là del rebus dello «scambio» tra industria e agricoltura, ridotto alla ovvia collaborazione di due rami industriali, nel piano generale sociale) si salirà un giorno al fianco dei lavoratori vittoriosi di tutta Europa.

E di qui lo sfavillante corollario dì Leone Trotzky: anche dopo cinquant’anni, se occorre, perché nemmeno la metà di un secolo ci vedrà mai, se non travolti colle armi nel pugno, abdicare il potere conquistato da una generazione di martiri proletari – e contadini –, ovvero compiere il passo ancora più vile di ammainare la Bandiera della dittatura e del comunismo!

Come avviene oggi, fitto nella vergogna lo stesso Stalin, con la disonorata offerta di pace al capitalismo universale.

6. Rivoluzioni che sbrigano compiti arretrati

Nel corso dell’esposizione il relatore volle dare alcuni esempi storici atti a togliere le eventuali ultime incertezze dialettiche circa la logica della soluzione abbracciata: potere proletario, socialista, comunista, che vive e lotta col suo partito e nello Stato rivoluzionario, mentre tutti i compiti economici sono di contenuto inferiore, capitalista, e perfino precapitalista.

Un simile quesito va distinto dall’altro, del tutto naturale nel suo sorgere, cui da non pochi anni abbiamo risposto con esempi di natura storica: Dato che si sostiene che il potere di classe oggi in Russia non è più del proletariato, e nemmeno di una alleanza tra proletariato e contadini poveri, ma è potere borghese e capitalistico (malgrado l’assunta fisica distruzione dei componenti una classe sociale borghese), come non si è assistito ad uno svolto di aperta lotta per il possesso e la conquista del potere, che evidentemente poteva solo compiersi in forme armate? A questo secondo quesito (a parte il notare che la distruzione della opposizione nel seno del partito al potere fu sanguinosissima e di massa, anche se non si manifestò una resistenza collettiva alla repressione) rispondemmo allora anche col metodo storico, citando casi di classi che sono decadute dal potere senza perderlo in una lotta, tra essi quello dei Comuni italiani, primo esempio di dominio della borghesia come classe, che scomparvero senza una lotta generale cedendo il posto a Signorie di tipo feudale e ad una nobiltà terriera venuta dal contado delle città. Per ben altra via doveva poi la classe borghese, dopo secoli, risalire al potere, e stavolta dopo insurrezioni e guerre guerreggiate.

Ora non vogliamo solo provare non contraddittorio alla teoria generale l’accadimento storico in esame, della degenerazione del potere sociale, ma l’altra ipotesi storica costruita in dottrina e non verificatasi per le ripetute condizioni; cioè la persistenza di un potere di classe, che per lunga fase non attui le forme sociali sue caratteristiche, e sia costretto dalla determinazione storica ad attuare forme diverse, e storicamente anteriori, più arretrate, e compiere quella che vorremmo definire un’onda di rigurgito delle rivoluzioni. Poiché non è conforme alla nostra difesa della validità di una dottrina della storia sorta col marxismo materialista l’ammettere un decorso eccezionale per un paese singolo, la Russia; o per una storica fase singola, come la distruzione del sistema zarista all’inizio del secolo in corso.

Ed assumiamo che altre classi, diverse dal proletariato, e in altri paesi che non la Russia, hanno dovuto attendere ad analoghi compiti, loro imposti dal procedere delle cause economiche e sociali e dallo svolgersi dei rapporti di produzione. Ci siamo pertanto riferiti agli Stati Uniti d’America ed alla guerra civile del 1866.

7. Rivoluzione Americana antischiavista

Sotto altri riflessi abbiamo avuto a parlare della rivoluzione nazionale americana della fine del secolo XVIII. Marx poneva un parallelo tra questa guerra di indipendenza che chiamò segnale della rivoluzione francese-europea a cavallo dei due secoli, e la guerra di secessione tra Stati del Nord e del Sud, da cui attendeva altro segnale ad un movimento sociale proletario dell’Europa, che con le guerre nazionali di quegli anni 1866–71 non si scatenò.

La guerra di liberazione dagli inglesi dei coloni della Nuova Inghilterra fu una guerra di indipendenza, ma non si può nemmeno dire propriamente una guerra-rivoluzione nazionale come quelle europee di Italia, Germania, ecc. Mancava l’elemento di razza poiché i coloni erano di nazionalità mista, e prevalentemente identica a quella dello Stato metropolitano, e soprattutto fattori economici e commerciali li sollevarono all’emancipazione politica.

Tanto meno una tale guerra può dirsi una rivoluzione borghese, in quanto in America il capitalismo non sorgeva da locali forme feudali o dinastiche, non eranvi aristocrazia e vero clero, e d’altra parte l’Inghilterra contro cui si insorse era compiutamente borghese dal XVI–XVII secolo e aveva abbattuto il feudalismo radicalmente da allora.

La teoria della lotta tra le classi, e quella della serie storica dei modi di produzione percorsa analogamente da tutte le società umane, non vanno mai intese come banali e formali simmetrie e la loro applicazione non può farsi senza un engelsiano allenamento al maneggio della dialettica. Sempre a proposito dell’indipendenza nordamericana la scuola marxista notò ripetutamente come la Francia ancora feudale di prima del 1789 simpatizzò in forme positive con gli insorti, contro la capitalista Inghilterra; la quale doveva poi ripagarsi nelle coalizioni antirivoluzionarie, e infine vincendo a Waterloo con la Santa Alleanza feudale.

Nell’esempio della guerra civile del 1866 non sono in gioco fattori di libertà nazionale e nemmeno in fondo un fattore razziale. Gli Stati del Nord combattevano per abolire la schiavitù dei negri diffusa e difesa nel Sud, ma non si trattò di una ribellione dei negri, che di massima combatterono nelle formazioni sudiste a fianco dei loro padroni. Non si trattò di una rivoluzione di schiavi per abolire il modo schiavista di produzione, a cui succedessero la forma aristocratica e il servaggio nelle campagne, il libero artigianato nelle città. Nulla di paragonabile al grande trapasso storico tra questi due modi di produzione, che si ebbe alla caduta dell’Impero Romano e con l’avvento del cristianesimo e le invasioni barbariche, tutti fattori conducenti all’abolizione, nel diritto, della proprietà sulla persona umana.

In America la borghesia industriale del Nord condusse una guerra sociale e rivoluzionaria non per conquistare il potere a danno dell’aristocrazia feudale, che non era in America mai esistita, ma per provvedere ad un trapasso nelle forme di produzione assai ritardato rispetto a quello con cui storicamente nasce la società borghese: la sostituzione della produzione a mezzo di manodopera schiava con quella a mezzo di salariati, o di artigiani e contadini liberi, mentre le borghesie europee avevano dovuto lottare solo per eliminare la forma del servaggio della gleba, molto più moderna e meno arretrata della schiavitù.

Ciò prova che una classe non è «predestinata» ad un solo compito di trapasso tra forme sociali. La borghesia americana non dovette dedicarsi ad abolire i privilegi feudali ed il servaggio, ma tornare indietro e liberare la società dallo schiavismo.

8. Parallelo dialettico

Vi è in questo esempio l’analogia col compito della classe proletaria russa, che non fu il passaggio dalla forma capitalista a quella socialista, ma il precedente rigurgito storico del salto dal dispotismo feudale al capitalismo mercantile; senza che ciò menomamente urti la dottrina della lotta di classe tra salariati e capitalisti, e della successione della forma socialista a quella capitalista, ad opera della classe salariata moderna.

I terrieri del Sud furono battuti nella rivoluzione 1866 dalla borghesia industriale, sebbene più indietro nella storia dei nobili feudali in quanto padroni di schiavi, e sebbene più avanti di essi in quanto già esisteva una trama sociale mercantile. La borghesia nordista non esitò ad assumersi un compito rigurgitato, ed assolto altrove da ben altre classi; dai cavalieri feudali e germanici, o dagli apostoli di Giudea: liberare gli schiavi.

Può obiettarsi che tale lavoro di pulizia storica non lasciò al capitalismo del Nord altri compiti di rivoluzione. Ma se il Sud avesse vinto nella guerra civile, come ve ne fu una certa probabilità, da una parte il compito sarebbe rimasto per l’avvenire, dall’altra ben diverso sarebbe stato il prorompere del capitalismo d’America lanciato al primo posto nel mondo.

In Russia il compito di distruggere l’ultimo feudalesimo non era poco per una classe operaia vittoriosa tra così terribili prove, mentre era certamente troppo quello che Stalin finse si volesse da lei, cioè l’abbattimento del capitalismo di tutti i paesi. Questo doveva rimanere, rimase, e rimane il compito proprio della classe operaia nei grandi stati industriali più avanzati del mondo.

9. Perché non si fece ricorso alle armi?

Questa domanda ebbe a porsela Trotzky, il quale aveva con altri valorosi bolscevichi, fino alla morte di Lenin e dopo, le forze armate a sua dipendenza. Né egli né altri della corrente con lui solidale allora e dopo ricorsero alla forza, né pensarono di scatenarla colle formazioni di Stato o di organizzarne di nuove. La polizia ufficiale, e il pieno controllo dell’esercito, permisero alla corrente che aveva prevalso nel partito di battere i suoi avversari ed operarne in seguito il vero sterminio, in quanto i passati ai plotoni di esecuzione furono ben lungi dal limitarsi ai soli notissimi processati, ma giunsero a migliaia e diecine di migliaia di lavoratori e di bolscevichi, vecchi e giovani.

Le armi dunque decisero, ma questa volta ebbero le bocche in una direzione sola. Stalin disse, e doveva dire, che era una direzione di classe: ma oggi, 1956, ai suoi sodali di allora viene meno la tentata prova che i battuti militavano per la borghesia straniera. Grandeggia oggi la prova di Kamenev, potente oratore, che la destra opportunista erano i vincitori, e che la sanguinosa battaglia fu vinta dallo stalinismo, dalla parte «solorussista», oggi più che mai avvinta a quelle origini, in servizio del capitalismo internazionale.

Stalin giocò molto, collo sventurato Bucharin, nel sostenere che la opposizione mancava di una linea decisa ed era un informe blocco di sabotatori. Bucharin pagò l’errore, non con pentimenti da imbecille o da pusillo, ma passando poi in quel che non era blocco, ma era il solo partito della rivoluzione, per aggiungere la fiera testa a quelle cadute; e fu quegli che non la piegò di un centimetro nelle più feroci inquisizioni.

Ma in effetti la linea delle opposizioni russe non era continua. Al tempo di Lenin, di Kollontaj, della pace di Brest Litowsk (sempre Bucharin!), della resistenza alla NEP di Lenin dipinta come debolezza verso i contadini, della rivolta oscura di Kronstadt, coi motivi di opposizione ai primi atti di governo del partito bolscevico sì unirono, tra generose ingenuità, errori gravi, anarcoidi, sindacalisti e laburisti; avversioni ai cardinali principii: dittatura, centralismo, rapporto tra classe e partito.

Nella prima opposizione di Trotzky nel 1924, in cui Zinoviev e Kamenev condussero con Stalin la lotta che lo scalzò dai comandi militari, la posizione non era esauriente. Non fu denunziato il pericolo di destra nel partito e non ancora individuata, come magnificamente al 1926, la insidia radicale della teoria edificatrice del socialismo russo, terga volte alla rivoluzione internazionale. Si denunziarono le sopraffazioni staliniste colla giusta reazione alla imposizione di stato contro membri dissenzienti del partito, mentre nella dittatura rivoluzionaria il partito è sovrano rispetto allo stato. Ciò si prestò a equivocare con rivendicazioni banali di «democrazia».

10. La burocrazia, mira sbagliata

Ma si enunciò anche, allora, una teoria sbagliata e pericolosa. Il potere in Russia era oramai tolto alla borghesia e pienamente proletario, ma cadeva nelle mani di una nuova e terza classe, la burocrazia statale e anche di partito.

Abbiamo dedicato molto lavoro a provare che la burocrazia non è una classe e non può divenire soggetto di potere, come nel marxismo non è soggetto di potere il capo, il tiranno, la cricca, o l’oligarchia! La burocrazia è uno strumento di potere di tutte le classi storiche, e viene primo a putrefare quando queste sono decrepite, come i farisei e scribi di Giudea, i pretoriani e liberti di Roma. Amministrare il trapasso da zarismo a capitalismo industriale, frammisto ad agricoltura libera, nulla può farsi senza un vasto apparato burocratico, che contiene debolezze e pericoli. Un partito centralizzato e di forti tradizioni non dovrebbe temere la burocrazia in sé, e può fronteggiarla con le misure della Comune esaltate da Marx e Lenin: governo poco costoso, rotazione e non carriera, salario di grado operaio. Tutte le innumeri degenerazioni sono state effetto e non causa dei capovolti rapporti di forze politiche.

Non il socialismo dovrà temere il peso della burocrazia, sì la economia diretta basata su aziende isolate contabilmente ma statizzate; il capitalismo di stato che nuota nella vasca mercantile.

Questo statismo-dirigismo mercantile non sfugge a tutte le inutili anarchiche operazioni della contabilità in partita doppia e dei diritti individuali di persone fisiche e giuridiche. In ambiente mercantile l’ingombrante pubblico apparato non si muove che su iniziativa singola e privata: tutto si fa su domande che vengono dalla periferia al centro, si contendono il campo, esigono penosi confronti e conteggi anche per essere rigettate. Nella gestione socialista tutto è disposto dal centro senza discussioni, tanto più semplicemente quanto il prelievo di seicento razioni ad opera del furiere di compagnia lo è rispetto a seicento acquisti di cose diverse di qualità e quantità, alla loro deliberazione, registrazione, incasso, reclamo, accettazione o rifiuto e sostituzione e via per mille altri vicoli.

Un sistema capitalista e monetario può temere come male sociale, ma non come terza forza classista, la burocrazia. Il socialismo anche dello stadio inferiore e non comunista, ossia a consumo razionato ancora, in quanto fuori dallo strumento monetario e di mercato, lascia la burocrazia nel solaio tra i ferri vecchi, come farà, giusta Engels, dello Stato.

L’opposizione russa tardi vide il suo nemico, e perciò dovette soccombere senza adeguata lotta. Nel 1926 non potette che consegnare alla storia le sue armi dottrinali, ed eroicamente cadere. Ma quelle bastarono a distanza di anni a farci assistere alla morte di molti dei boia, e alla liquidazione del condottiero Stalin che, uscito male da quest’ultimo scontro di teorie, aveva però trionfato sui cadaveri dei suoi avversarii, in modo che il mondo credette non solo feroce, ma anche inappellabile.

11. Perché non ci si appellò al proletariato?

Quest’ultima ingenua domanda può riferirsi al proletariato mondiale e a quello russo. Fu appunto accusato il gruppo Trotzky dì appellare contro la decisione del partito russo alla Internazionale comunista: mentre erano stati dal partito diffidati a non farlo, e furono accusati di avere promesso e mancato. In altri punti abbiamo riferito come fin dal febbraio 1926, in precedente Esecutivo allargato del Komintern, la lotta era aperta nel partito russo e la si portò in una commissione, ma non al Plenum. Presenziavano per l’ultima volta, prima degli arresti in massa, i delegati della sinistra italiana. Allora non si parlava del «blocco» con Trotzky, e noi fummo i soli a prevederlo, o meglio a definire identica la posizione di Trotzky, Zinoviev e Kamenev, derisi dai conoscitori dei segreti della vita bolscevica.

Ebbene, i delegati italiani di sinistra, dopo essere stati i soli a sostenere contro Stalin che il problema dell’indirizzo della Russia era problema internazionale, furono diffidati dal sollevarlo nel Plenum allargato con l’argomento, molto «politico», che ne avevano diritto, ma la discussione (che si ebbe poi nel dicembre successivo) avrebbe provocato più severe misure disciplinari contro i compagni oppositori nel seno del partito russo. Sebbene paralizzati da questa pesante responsabilità i sinistri italiani andarono alla tribuna del congresso ma il loro intervento provocò solo un tumulto e la chiusura della discussione, sotto pretesto che tanto chiedeva il partito russo, unanime tra maggioranza ed opposizione!

In quegli stessi mesi gli oppositori germanici – tra i quali tuttavia le tendenze anarcheggianti e sindacaliste non mancavano – proposero agli italiani di uscire dalla Internazionale, denunziandola come non rivoluzionaria e fondando un nuovo movimento (più tardi i trotzkisti dovevano fondare la Quarta).

La sinistra italiana, che prima aveva da anni denunziato il pericolo opportunista, prevedendone il dilagare, tuttavia allora non così manifesto come oggi, sulla base della sua precisa linea marxista, non si credette in condizione di accettare un simile invito. Né, dopo, quello dei trotzkisti.

Quanto al demandare il giudizio sul grave tema storico ad una consultazione non della massa del partito ma di quella del proletariato russo, tale proposta apparentemente ovvia non ha alcun fondato contenuto. Da allora, e sempre più, congressi del partito e dei Soviet inneggiarono a Stalin e ai suoi metodi, che non erano ubbia personale ma indirizzo di collettive forze storiche, in grado, nella vicenda, di prevalere.

La vittoria dello stalinismo, forma moderna e deteriore del tradimento alla rivoluzione comunista, era dunque colla lotta del 1926 scontata, ed era chiaro fin da allora per la opposizione comunista internazionale che la lontana salvezza non poteva venire che traverso al ciclo totale della degenerazione dello Stato e del partito russo, e degli avanzi della Internazionale; non prima di poter fare il bilancio, teoricamente allora già impostato, del gettito fuori bordo uno dopo l’altro di tutti i principii cardinali della rivoluzione di Marx e Lenin.

Dopo le vergogne della terza guerra mondiale e del fornicare con i due imperialismi borghesi, è venuta quella più grave della tregua, della pace e domani della identificazione con essi.

Ciò, dopo tanto amaro e lungo travaglio, rende la grande riscossa non immediata, ma certamente meno lontana.

B) La mentita opposizione tra le forme sociali russe ed occidentali

Andremo oltre la esigenza di un equilibrio di proporzioni tra le varie parti di un ben condotto discorso. Quanto segue ripete in altra forma il contenuto della «Sera» della Terza Giornata del «Dialogato coi morti», il cui testo sta nelle pagine precedenti. Tuttavia non eliminiamo né modifichiamo nessuna delle due redazioni, se non nella rettifica di alcune cifre aritmeticamente non rigorose, che sono state messe in armonia. Non ha importanza, anzi è un vantaggio, la ripetizione, il bis in idem. Nella riunione di Torino è stato esposto in forma poco diversa quanto concernerà punti, indicati dai convenuti lettori del periodico in cui il «Dialogato» era apparso a puntate, seguendo da vicino quella che è stata chiamata dagli sciocchi crisi del comunismo, mentre è crisi dell’anticomunismo, nel suo svolgimento rumoroso.

Non essendovi dunque qui figura di autore, ma lavoro impersonale, che non chiamiamo «collegiale» per non usare nemmeno da lontano la terminologia dei farisei del tempo, possiamo violare le norme della Retorica, che in tempi degni fu disciplina scientifica, oggi è pratica malsana di droga. La classe dominante in agonia vi si dedica nei templi, come quello di Roma, cui aveva alzata in epigrafe la scritta espressiva: «La Fogna».

Ci perdoni l’ombra di Cicerone, di cui hanno fatto tradurre ai maturandi italiani questo passo solenne:

«Hoc in omnibus item partibus orationes evenit, ut utilitatem et prope necessitatem suavitas quaedam et lepos consequatur».

Che si tradurrebbe:

«Questo [ossia il legame trattato nei periodi precedenti, e da… materialista storico, tra la dignità decorativa di un’opera, e la sua migliore corrispondenza agli scopi pratici, a quella che oggi dicono funzionalità] accade anche per le parti diverse di una orazione, per modo che dalla efficacia e quasi dalla obbligatoria costruzione di essa consegue una certa gradevole e saporosa eleganza».

Siamo qui muscolosi operai battitori di chiodi, non da noi concepiti e forgiati; possiamo violare i «moduli» estetici che legano le parti dell’orazione, ma non rinunziare a ribattere il chiodo massimo, sulla natura capitalista della società russa: giù compagni, altri colpi!

12. Il passo della industrializzazione

Il centro della questione sta nella pretesa dei russi attuali che la dimostrazione della diversità del sistema sovietico rispetto a quello capitalistico, e inoltre della superiorità del primo, sta nel fatto che di anno in anno la produzione industriale della Russia si incrementa di più, e con un tasso percentuale maggiore rispetto al prodotto totale del precedente anno, che in qualunque paese del mondo e in qualunque epoca della storia.

Si è dimostrato a quelli che, in ben altre faccende affaccendati (amplessi nelle Giunte in Italia, con i Titi a Mosca), non risponderanno, e che non possono nulla rispondere, quanto segue:
1) Falso che quell’alto ritmo sia solo in Russia.
2) Falso che quell’alto ritmo sia solo oggi nella storia.
3) Falso che anche se la Russia fosse al ritmo massimo, e ad un ritmo maggiore di ogni caso storico, sorgerebbe da questo la prova che non è capitalista.

Rimessi in ordine fatti e cifre, la conclusione è una e sicura: la struttura economica sociale in Russia è squisito capitalismo.

Ed abbiamo, nella parte finale del «Dialogato», poggiata sulle fredde cifre un’ardente deduzione: proprio perché il primo capitalismo inglese, modello al mondo, presentò quei fenomeni che oggi grandeggiano in Russia e sono stati esaltati con pari impegno al tempo di Stalin semidio e di Stalin semi-uomo, Carlo Marx nel 1866 mosse impetuoso storico assalto all’ebbro di satanica gioia borghese, precursore dei padroni odierni del Kremlino, cancelliere di S.M. il Capitale, signor William Ewart Gladstone.

Di questo suo quasi coetaneo (1809–1898), vecchio e capitale nemico, Marx nella nota 185/a al primo volume del «Capitale» dice così:

«I capitalisti minacciati di venir sottoposti alla legislazione sulle fabbriche, e di ‹perdere la libertà› di sfruttare senza limitazioni le donne e i fanciulli, hanno trovato nel ministro liberale inglese Gladstone un servitore di buona volontà».

Vantare le meraviglie pirotecniche della prorompente produzione industriale, non è dunque prova storica di essere socialisti, ma lo è invece di essere devoti servitori del capitalismo, e nulla muta il luogo, Londra o Mosca, la data, 1856 o 1956. Quanto meno se lo devono tenere detto sulla faccia quelli che tuttora osano parlare a nome della dottrina di Marx, cui noi qui abbiamo attinto nell’opera massima e cardinale, e nell’indirizzo di fondazione dell’internazionale Operaia.

13. Dantesco prospetto dell’inferno borghese

Le cifre che furono in quella occasione pubblicate, e che furono rilette e commentate nella riunione torinese, sono qui raccolte in un quadro d’insieme, cui i gruppi dell’organizzazione dedicheranno certo ulteriore lavoro.

Abbiamo indicate le fonti, tutte russe, e vogliamo avvertire una sola cosa. In genere noi non riportiamo gli indici annui delle tabelle da cui partiamo, ma solo gli incrementi relativi. Per esempio nella tabella al principio del rapporto Chruščëv l’indice della produzione industriale russa è posto 100 al 1929. Troviamo la cifra 466 per la produzione del 1946 e la cifra 2049 per quella del 1955. Senza ripotarle, noi diamo l’aumento nel corso dei nove anni che le separano, e che è il 340 per cento (in altre parole nel 1955 si è prodotto 4,40 volte il prodotto del 1946) e ne deduciamo l’aumento medio annuo che è il 18 per cento (al che, sia detto la decima volta, nulla osta che nove volte diciotto dia 162 invece di 340).

Il metodo per elaborare il nostro semplice quadro non è risibilmente tutelato da brevetti depositati al nome di un dato fesso. Noi abbiamo solo separato tra loro cronologicamente i periodi tipici, anzitutto per rilevare che essi, se provano il fatto (non legge) dell’ineguale sviluppo capitalista, provano anche la marxista scoperta dell’internazionalità del processo.

Abbiamo con tale sistema del tutto ovvio eliminati i giochetti che si fanno da Mosca (e sotto-servizi) a tutto spiano, frammischiando i periodi. Ad esempio la produzione russa è venti volte maggiore che nel 1929, mentre quella americana lo è solo 2,34 volte. Passando al 1913 il rapporto russo diventa 36 contro quello americano 3,5. La relazione è non troppo diversa. Ma cambia se partiamo dalle maggiori depressioni: dalla russa del 1920 la corsa è ancora più spettacolosa: 160 volte (!) in 35 anni.

Se prendiamo la depressione massima americana 1932 abbiamo però anche un balzo forte: 4,4 volte in soli 23 anni (da 54 a 234). Ma leggiamo nella tabella Chruščëv (soppresso «Bollettino» № 7, «Per una pace stabile», del 1956) un altro vertice della produzione americana: 215, nel 1943 (in piena guerra, quando si producevano armi per farle impiegare dai proletari russi) che, rispetto al 1932, danno il rapporto di 4 volte in soli 11 anni. Nello stesso tempo la Russia va da 185 (in quanto la produzione 1932, giusta le tabelle Varga, varia rispetto al 1929, anno base della tabella Chruščëv, di 233 diviso 126, ossia 185 diviso 100) a 573. Ecco che i rapporti sono ben diversi, anzi inversi: Russia 3,1; America 4,0.

E se infine si prende la sola tabella Chruščëv, fresca fresca, tra 1937 e 1943, in sei anni, avremo per la Russia da 428 a 573, rapporto 1,33, mentre per gli Stati Uniti da 103 a 215, rapporto 2,1, molto maggiore La tesi «à sensation» si è capovolta.

Incrementi totali e medi annui produzione industriale nei paesi e periodi tipici dello sviluppo storico del capitalismo
(espressi in percentuali del prodotto annuo precedente)
Periodi
Paesi
Incrementi percentuali 1880–1900
Anni 20
Pace
1900–1913
Anni 13
Imperialismo
1913–1920
Anni 7
1ª guerra
1920–1929
Anni 9
Ricostruzione
1929–1932
Anni 3
Crisi
1932–1937
Anni 5
Ripresa
1937–1946
Anni 9
2ª guerra
1946–1955
Anni 9
Ricostruzione
Gran Bretagna Nel periodo 100 40 0 0 −30 55 −5 53
Annuo medio 3,5 2,6 0 0 −11,2 9,2 −0,6 4,8
Francia Nel periodo 250 130 −38 126 −31 5 −23 98
Annuo medio 6,5 6,6 −6,6 9,5 −11,6 1 −2,9 7,9
Germania Nel periodo 300 150 −45 87 −36 90 −69 510
Annuo medio 7,2 7,3 −8,2 7,2 −13,8 13,7 −12,2 22,3
Stati Uniti Nel periodo 400 150 26 37 −46 69 51 53
Annuo medio 8,4 7,3 3,4 3,6 −18,6 11 4,7 4,8
Giappone Nel periodo 800 250 57 89 0 75 −70 370
Annuo medio 11,6 10,1 6,7 7,3 0 11,8 −12,5 18,8
Russia Nel periodo −87 1300 85 150 0 340
Annuo medio ca. 13 ca. 10 −25,3 34,1 22,8 20,1 0 17,9
Produzione annuale precedente = 100 % in ogni caso
Periodo = tasso di crescita per l’intero periodo
Annuo medio = tasso di crescita medio annuale

Ordinando il nostro quadro, tutto fatto con dati russi, abbiamo quindi messa la questione fuori dei giochetti disonesti, propri di tutte le diffusioni ufficiali dei centri politici, da est o da ovest che sia. Qui tutto.

14. Leggi dell’accumulazione

Abbiamo riportate nelle diciture in calce al prospetto le armoniche e regolari deduzioni che può trarne chi lo consulta avendo un occhio sulla carta geografica del mondo e un altro sui 60–70 anni di storia, che si sono incisi sulle valide o fragili carcasse della generazione che sta per mandarle in conserva.

Tali concomitanze ripetono con altre parole la legge generale dell’accumulazione capitalistica stabilita all’inizio di tutto il ciclo dal marxismo.

Questa semplice legge, snaturata dalla più parte di quelli che la invocano, e paurosamente nello scritto senile economico di Stalin (che il XX congresso non ha rettificato, ma all’opposto ulteriormente deviato dalla linea di Marx), si può così esprimere: la produzione capitalista fa crescere la «ricchezza» sotto forma di una sempre maggiore «accolta di merci», col continuo aumento della produzione. Ma la misura di un tale aumento non solo non dà la misura di un vantaggio della società (quando non si intenda per questa una classe minoritaria) bensì quella del rischio di maggiori rovine e miserie. La corsa all’accumulazione si fa con la concentrazione della ricchezza in «un numero sempre minore di mani» ed alla fine (Marx) in una sola mano, che non è più di uomo (Russia). Le mani degli ex possessori di parti di ricchezza ingrossano l’armata di lavoro, ossia di coloro che campano, se e quando lavorano, e (col tempo) un po’meglio se e quando lavorano, di sola vendita di forza lavoro. Qui il senso della crescente miseria.

Con vicende alterne il passo dell’accumulazione si rovescia in un rinculo, con immane distruzione di prodotti e di strumenti di lavoro, sia per crisi di sovrapproduzione, sia per sanguinose guerre di gara mercantile (imperialismo).

Il segreto del passo dell’accumulazione, per cui si eccitano i Gladstone e gli Stalin-Chruščëv, è questo. Sia il passo positivo: il capitale si concentra, e formandosi altre masse di espropriati (artigiani, contadini, piccoli imprenditori), cresce, con la ricchezza, la miseria perché i depauperati crescono a dismisura (in Marx: «die Masse des Elends»; letteralmente: «la Massa della miseria»). Sia ora il passo negativo: la diminuita produzione significa disoccupazione, la crisi mercantile fa ugualmente cadere le aziende minori e i redditieri minori: tutti bruciano le ultime riserve. La ricchezza non sale, ma discende. Grazie al capitalismo, la miseria, in questo come nell’altro caso, cresce, ovunque e sempre!

Quindi l’euforia per i periodi di salita, in ogni tempo e luogo, è un’euforia appropriata solo per gli amici e i servitori del Capitale.

Indipendentemente dagli effetti e dai cicli delle crisi generali del mercato e delle guerre mondiali, la legge «geometrica» o della proporzione progressiva della produzione, cara a Stalin quanto a Bulganin (ma che nelle loro mani, quanto in quelle di BenthamGladstone, si torce come vipera quando dal campo manifatturiero si va a quello agrario) condurrebbe a tale favolosa montagna di merci inconsumabili che la vita del capitalismo è solo possibile grazie alla sua legge interna della discesa storica del suo saggio medio di profitto.

Per l’economia marxista il saggio del profitto è proporzionale a quello dell’accumulazione. Noi chiamiamo profitto la parte che resta al capitalista del prodotto totale, sia che la si destini al consumo della classe dominante, sia che la si avvii a nuovo investimento in capitale. È chiaro che in tutto il corso prevale la seconda destinazione. Saggio del profitto è il rapporto di tale parte padronale – in Marx – al totale del prodotto (per noi capitale, per i borghesi fatturato) e non al valore, reale o nominale, degli strumenti di produzione (impianti dell’azienda produttrice) che i borghesi confondono a volte col patrimonio, a volte col capitale stesso dell’impresa – nelle anonime espresso dall’insieme delle azioni, che però danno cifre diverse secondo il valore nominale a cui furono emesse, o secondo il loro valore venale quotato in borsa.

Comunque il profitto che una azienda ricava, e quella parte che ne distribuisce, variano come il prodotto ogni anno ottenuto dedotta ogni spesa (in Marx dedotto capitale variabile e costante).

La legge generale del rallentare storico dell’incremento produttivo esprime quindi in principio l’altra legge base della tendenza a scendere del saggio di profitto medio, che con errore gigantesco si crede da Stalin e Figli sostituita da una legge del profitto massimo. E con bestialità più vasta ancora si pretende da costoro leggere tale buaggine nella storia leniniana dell’imperialismo, del sovrapprofitto, del profitto di monopolio, teoria in cui tutti i teoremi dell’economia di Marx restano fermi ed immutabili, per chi non abbia bevuto. Questi economisti sbronzi non lessero in Marx come il Capitalismo, lungi dall’essere salvato per l’eternità dall’Angelo della Libera Concorrenza, è dannato a cadere sotto la Nemesi del Monopolio. Questo processo si legge – in scienza economica – non colla sola legge del profitto, ma con la stessa, combinata alla Teoria della Rendita.

15. Scorrendo il quadro

Le date indicazioni non abbisognano di altro commento: il quadro, al solito, è uno strumento: ognuno lo può maneggiare.

In esso, è chiaro, non figurano i primi passi dei capitalismi più anziani, e soprattutto di quello inglese. Questo entra in scena già a ritmo lento di accumulazione: circa il tre per cento, minore di tutti i concorrenti. Le guerre non capovolgeranno il ritmo: qui viene a galla la nostra vecchia disperazione per l’imbattibilità militare di quell’isola. Se credessimo al se nella storia, diremmo che la carta girata male da Bonaparte ci costa un secolo di socialismo.

Nella prima guerra rovinano tutti i combattenti europei, anche la vincente Francia, ma quelli di oltremare fanno di più dell’Inghilterra: non solo non stazionano, ma avanzano con un incremento frenato, ma positivo! America, Giappone.

Il capitalismo inglese sazio di ricchezza e di potenza dorme per 17 anni sugli allori del tempo di Gladstone. Mostrammo che Marx calcola verso il 1860 incrementi del 7–8 per cento e anche più, pari a quelli con cui nel nostro quadro esordiscono, alla fine del secolo, Francia e Germania. Ma mostrammo anche come prima ancora, nel trentennio 1830–1860, si avevano anche in Gran Bretagna ritmi più alti, pari a quelli della fine secolo di Stati Uniti, Giappone, Russia.

Gli Stati Uniti traverseranno anche la seconda guerra con andatura di profitto deciso, e la conserveranno nella fase presente di ricostruzione: più bassa però di quella dell’inizio del 900. L’Inghilterra avrà una piccola flessione in questa, meno grandiosa per lei, seconda guerra, e risponderà con una relativa accelerazione contemporanea, a ritmo pari allo statunitense, o quasi.

La Francia, una seconda volta vincitrice ma fieramente provata, avrà diminuzione in guerra, e poi riprenderà con un incremento eccezionale, come nella precedente ricostruzione del 1920.

La poderosa Germania, dall’attrezzatura modello, cadrà paurosamente nelle due guerre, ma altrettanto audacemente risalirà. Nella seconda riscossa batte tutti, e anche la stessa Russia, col 22,2 annuo medio contro 18. Ma vi è di più: nell’ultimo anno la Russia è a 12, e per i prossimi cinque anni pianifica 11,5. Il 1955 invece in Germania ha dato il massimo ritmo, e quindi più del 23 per cento. Oggi la Germania di Bonn industrializza a doppia velocità della Russia. Nella produzione agraria la quadruplica, a dire poco. Ebbene, dov’è il socialismo? Né nell’una, né nell’altra: ma verrà prima in Germania!

È sul Giappone che l’effetto della seconda guerra inverte quello della prima. La discesa è precipitosa quanto la tedesca. L’attuale ripresa è un poco meno di quella, ma pari a quella russa. Con la stessa differenza, che in Giappone gli ultimi anni fanno premio sui precedenti, e la cosa continuerà. La Russia invece ripiega, come ritmo incrementale: ripiega, e lo dice il quadro – ossia lo dicono i governanti russi – dal 1920, quando riprese a salire il precipizio in cui era caduta nella prima guerra, seguita dalla terribile se pur vittoriosa guerra civile 1917–20. Il peggiore ritmo negativo che vediamo nelle due guerre è il 12: la Russia nella prima presentò il 20, che in dieci anni stritolò la produzione dall’indice 100 a quello 12,5: l’ottava parte.

16. Peggio le crisi delle guerre

Il quadro ha una verticale più impressionante di quelle di guerra. È relativa al venerdì nero americano, del 1929, che dal 1930 al 1932 fece indietreggiare la produzione in modo disastroso, con corteggio di fallimenti, chiusure di aziende, disoccupazione generale.

La crisi ebbe il suo massimo effetto negli Stati Uniti, e dette il solo indice negativo del loro percorso storico. Ma è un negativo tremendo: 18,5! Quale la spiegazione? Per noi è chiara: il solo paese che nella guerra non solo ha vinto ma ha seguitato a sviluppare la macchina della produzione industriale, è dannato dalla legge di Dante-Marx a scendere in un peggiore girone dell’Inferno. E così sia.

La Germania, che già era crollata nella guerra, risente fieramente la crisi, e cade, all’alta velocità 13,8. La Francia cade, alla minore velocità 11,6. La Gran Bretagna, allora strettamente legata all’economia americana (più assai di oggi) può resistere appena appena un po’meglio. Tuttavia tra la crisi 1932 e la nuova guerra vi è una nuova generale ripresa. Gli Stati Uniti risalgono col poderoso 11 per cento annuo positivo. La Gran Bretagna li affianca col 10, uscendo dal suo sonno economico, per troppa pienezza, di mezzo secolo, e Gladstone dalla sua tomba sembra sollevarsi ansioso. La Francia, dopo tante dure prove, reagisce invece assai poco. La Germania fa altro miracolo, e risale (siamo al tempo di Hitler e di un capitalismo statale, che ricorda la struttura russa) col 13,4.

Quale l’effetto della crisi americana fuori anche d’Europa? Il Giappone l’avverte sostando in quei tre anni sulle posizioni, per rimediare, riprendendo velocemente, negli anni buoni: 12 per cento. Applichiamo l’incremento totale 75 al periodo 1929–37 di 8 anni: la velocità di avanzata media è un po’meno del 7 per cento annuo e si inserisce nella legge storica della decrescenza orizzontale. In questi stessi 18 anni ultimi gli indici del Giappone, prima cedendo poi riprendendo, variano (Chruščëv) da 169 a 239, incremento totale 41 per cento. Il ritmo medio è più basso: 2 per cento. L’impressionante risalita del Giappone non smentisce la legge del rallentamento. E nemmeno quella tedesca: 18 anni da 114 a 213 danno l’87 per cento; annualmente solo il 3,5 per cento circa. Ma la stessa Russia dal 1937 al 1955, da 429 a 2049, col 370 per cento, ha il ritmo annuo di soltanto il 9 per cento, mentre nei periodi a ritroso leggiamo 20, 22,8, 34 per cento. La legge generale sussiste in pieno.

17. Obiezioni della controtesi

Imbattutosi il contraddittore in questo robusto 34,0 per cento, potrebbe contestarci che è pur questo numero russo il più alto della tabella. Come si spiega il fatto?

Anzitutto abbiamo a che fare col più giovane dei capitalismi concorrenti, ed è un primo elemento concomitante col processo generale. Infine siamo immediatamente di seguito alla più spettacolosa scivolata di tutto il quadro: 20 per cento annuo, per le già dette ragioni. E se, come abbiamo fatto in altri casi, sommiamo i due periodi contigui, formandone uno solo dal 1913 al 1929 di anni 16, gli indici estremi giusta i nostri dati sono 72 e 126 ovvero 100 e 175. Il 75 per cento di incremento in 16 anni non è enorme: risponde all’annuo medio 4 per cento circa; ritmo che rallenta regolarmente dopo quelli precedenti del capitalismo zarista. L’alta cifra 34 deriva dal bassissimo livello del 1920. In effetti il nuovo capitalismo russo è addirittura bambino. Il vecchio capitalismo zarista nel 1920 era estinto: una discesa di 87, riduzione in sette anni ad un ottavo, non la troviamo in nessuna parte del quadro: Germania e Giappone, stritolati nella seconda guerra, hanno pure salvato il 30 e il 31 per cento della produzione dopo 9 anni, ed avevano una pedana per risalire.

Ma vi è un’altra obiezione che, siccome nessuno ci paga, non taceremo di certo. La Russia passa attraverso la crisi mondiale di interguerra del 1929–32 come una salamandra. Non fa come il Giappone, che si limita a stare tre anni a pari produzione, ma continua la sua avanzata ad un ritmo sostenutissimo: 22,8 per cento, pari ai migliori, che conosciamo anche in casi eccezionali; e solo più ribattuto rispetto a quello di primato or ora discusso per il periodo 1920–29, che era stato di ripresa mondiale, salvo la sola Inghilterra.

Questo fenomeno di «indifferenza alla crisi» può bastare per parlare di un’economia a carattere non capitalista?

Nel 1929 il nascente e super-giovane capitalismo sovietico non aveva canali di comunicazione con il capitalismo e il mercato internazionale. Essi ricominciarono in misura apprezzabile dieci anni più tardi, colla guerra 1939.

Questo spiega come la crisi non si comunicò alla Russia, che era in fase di grave sottoproduzione (il ventesimo dell’attuale, un decimo, e meno, di quella pro-capite dei paesi capitalistici di allora). Una crisi di sovrapproduzione dunque non poteva in Russia né comparire all’interno, né entrare dall’estero. La crisi si svolse in tutta la sua tragedia fuori dalle sue frontiere. Per spiegare ciò non occorre affatto ammettere il benefizio di un ipotetico sistema economico, diverso nella sua interna struttura. Il merito di questo fenomeno originale nella storia (moderna) risale a… Giuseppe Stalin.

Tra il 1926 e il 1939 la chiave della politica russa, che la forza della storia detta al «dittatore», è quella del sipario di acciaio. Goda il vecchio mondo di Occidente che non ne passano fuori le fiamme della rivoluzione: godrà la Russia, neonata ad una rivoluzione capitalista senza precedenti storici, che non vi possono passare fiamme dell’incendio anarchico dei capitalismi troppo maturi. Moriva il vecchio Capo credendo che, se un giorno la cortina si fosse levata, sarebbero come nel 1939 passate le fiamme di guerra, credeva, forse, che venisse presto l’altro venerdì nero, prima che il capitalismo tedesco fosse di nuovo vestito di acciaio, oltre che di dollari; allora sarebbe ripassato in armi per il «secondo colpo», che in un momento geniale aveva nel 1939 profetizzato, e avrebbe azzannata alla gola un’America in crisi, guardata nel bianco degli occhi nel dramma di Yalta.

Il culto di questo mito, che noi considerammo nei decenni macchiato di sangue dei rivoluzionari e destinato a crollare vilmente, come oggi avviene, ha ceduto il posto ad una posizione ancor più vile: la crisi di occidente non verrà più, giusta le teorie emulatrici e coesistenziste dei Mikojan.

Se la crisi non venisse mai, essi, a braccetto con Keynes e Spengler e l’avvinazzata scienza d’America, ci avranno battuti, Marx, Lenin e noi, lontani pollastri del rosso Chanteclair. E abbasseremo la cresta.

Ma se crisi verrà, come verrà, non avrà solo vinto il marxismo. La risata feroce di Stalin non potrà più squillare dietro il sibilo dei primi missili, ma non varrà a nulla che, giusta la loro sporca moda, Chruščëv e C. bestemmino se stessi. Per il sipario, divenuto un’emulativa ragnatela, la crisi mercantile universale morderà al cuore anche la giovane industria russa. Ciò sarà il risultato di avere unificati i mercati e resa unica la circolazione vitale del mostro capitalista! Ma chi ne unifica il bestiale cuore, unifica la Rivoluzione, che potrebbe dopo la crisi del secondo interguerra, e prima di una terza guerra, trovare la sua ora mondiale.

C) Il sistema socialista alla «FIAT»?

18. Un cenno dell’alma Italietta

Nel quadro non abbiamo compresa l’Italia, di cui nel «Dialogato» al detto luogo è qualche cifra. Anzitutto non abbiamo cifre russe prima del 1929, e su quelle indigene vi è troppo da distinguere e sceverare; cosa da farsi in altro tempo. E poi, quale età dare al capitalismo italiano, e a quale orizzontale collocarlo? È (come in Russia) altro caso di capitalismo nato due volte: non siamo i primi a paragonare il capitale e l’araba fenice: deve averlo fatto babbo Marx. Alla nostra patria spetterebbe il più alto gradino della scala, in omaggio alle grandi e fiere repubbliche marinare e commerciali della costa, e alle città di banchieri dell’interno, per tacere delle prime monarchie a Stato centrale nel Sud e nel Nord, con antichissimi e secolari lignaggi, con nomi altisonanti, Federico di Svevia, Berengario, Arduino, Cesare Borgia

Poi su tutto questo è passata, più che un ritorno di feudalismo in struttura profonda, la servitù nazionale e provinciale politica; ed il sistema borghese è rinato come pallida importazione politica di Francia nell’aprirsi del XIX secolo, e d’Inghilterra alla metà dello stesso: un capitalismo dalle tonalità coloniali passive, tardi e malamente salito ad imperiali velleità, ed oggi caduto in servitù d’America, e in attitudini da media bottega.

Intrigante non poco, la scaletta storica di questo paese dai lucenti titoli, che ancora più lungi vide vertici del primo capitalismo schiavista, dalla Magna Grecia alla plutocratica Urbe!

Non ci si taccerà di boria nazionale se non lo abbiamo ammesso nei cerchi dell’inferno borghese; resti in attesa del nuovo Dante che l’indulgente zio Engels si spinse a vaticinargli, in omaggio alle sue glorie arrugginite.

Tuttavia leggiamo d’Italia nelle tabelle di Chruščëv, che ci fanno da vangelo in questo valico.

Tra il 1929 e il 1937 il mondo borghese fece un’affondata del suo maledetto toboggan. Rotolò il pendio della crisi 1929–32, e risalì allegramente tra il 1932 e il 1937 verso la guerra. A detta di Chruščëv tra questi estremi di 8 anni, mentre la Russia prendeva l’abbrivio quadruplicando la sua produzione al passo di circa il 21 per cento annuo, Satana-Capitale altrove dormiva. E come dormi in America, così fece in Italia: da 100 a 99. La Francia addirittura cedette da 100 a 82, mentre dai termini della stessa tuffata-risalita la Germania dava 100 a 114, la Gran Bretagna 100 a 124, e il fremente Giappone 100 a 169.

Benito, che sognava eclissare Pirgopolinice, fu il solo pacifista serio che mai abbiamo conosciuto. Nel fragore degli anni 1937–46 l’Italia (di cui in altra occasione discuteremo il soggiacere alla crisi 1929 delle allora diffamate «demoplutocrazie») non calò che da 99 a 72, una bazzecola, un negativo annuo di appena 3,5. Una «guerre en dentelles».

Dal 1946 al 1955 è una marcia trionfale. Mentre i miserevoli sette od otto partiti e i venti partitini si rinfacciano la rovina della patria, nella gara ad andare a rovinarla loro, i dati dell’euforia (borghese, e quindi di tutti loro) salgono a tempo di galoppo. In tutto il periodo, da 72 a 194, abbiamo un premio del 170 per cento che vale l’annuo medio 12 per cento bello tondo. L’ordine della corsa (alla rovina futura di tutti) si pone oggi così: Germania, Giappone, Russia, Italia, Francia, Stati Uniti, Inghilterra.

I passi intermedi in Italia sono interessanti. Dal 1946 al 1949 si avanza col 14,3 per cento! Poi un po’meno: 1949–50 all’11,5; 1950–52 al,1; 1952–55 al 9,5

Si ripiega forse? Italia, sirena del mar, sorridi ma non tremar. Il governatore della Banca d’Italia ci ha teste narrato (il che vuol dire che le cifre di Chruščëv non procedono poi a vanvera: non ci è accaduto napoletanamente che «si hanno ditte na fesseria a me, ve ne dico doie a vuie») che la produzione industriale nel 1955 è aumentata dello stesso grado che nel 1954: 9,3 per cento.

Ha aggiunto una cosa notevole: che nello stesso anno 1955 la produzione agricola è salita del sei per cento. In un piano quinquennale (ma in gamba col gelido 1956!) avremmo il 134 contro 100, cui ogni Bulganin metterebbe la firma.

Presto però Menichella si è messo a parlare del piano Vanoni, che più che in termini di indici di produzione industriale parla in termini di reddito nazionale e di occupazione di manodopera. Il confronto tra i due metodi va rinviato al nostro futuro lavoro di partito sull’economia di occidente. In ogni modo per Vanoni in dieci anni si deve avanzare al 5 per cento all’anno (163 contro 100) negli investimenti capitalistici e nell’impiego di operai. Avendo il 1955 visto salire il reddito nazionale totale del 7,2 per cento (primo posto in Europa dopo la Germania, che è a 10), del reddito 1955 si è consumato il 78,8 per cento, investendone in nuovi impianti il 21,2 per cento, se si comprende l’edilizia, e il 15,8 se si esclude. Con tali margini gli impianti fissi nell’industria vera e propria si sono potuti incrementare nell’anno del 6,9 per cento (1,9 per cento più del piano Vanoni) e se sì include l’edilizia di ben il 9,7 per cento.

La questione dell’edilizia è questione chiave dell’economia italiana moderna. La casa è capitale fisso, o è bene di consumo? Ad altra sede l’elegante quesito. Ci basti ora aggiungere che, tornando agli Stalin-Chruščëviani indici industriali di prodotto (fatturato), ci sovviene altro personaggio, Fascetti, con il progresso degli indici delle aziende che gestisce l’I.R.I. Spettacoloso: media nel 1950–55 il 6 per cento, nell’anno finale, 19 per cento.

Ad altra trattazione l’analogia dell’I.R.I. italiano col «sistema» sovietico, per il suo disdegno dei profitti; per il primo anno, è andato oggi in pareggio.

19. Augustae taurinorum

La capitale industriale d’Italia, che ha ospitata la nostra ultima riunione, ha meritato un trattamento di riguardo.

Il relatore si riferisce al rapporto alla riunione di Asti, tenuta il 26 e 27 giugno del 1954. La FIAT aveva da poco tenuta la sua assemblea annuale degli azionisti, e il prof. Valletta aveva esposto i risultati e bilanci dell’anno 1953. Quest’anno eravamo a breve distanza dall’assemblea e bilanci 1955.

Fu letto alla riunione il brano del rapporto di Asti che illustra il significato di Torino e della FIAT nella storia del movimento operaio e del comunismo italiano. Il titolo generale è «Vulcano della produzione o palude del mercato?»; il paragrafo, nel numero 15 del 7 agosto 1954, era «La mostruosa FIAT».

Si trattava della critica alla matrice dell’attuale opportunismo comunista italiano: l’ordinovismo, il gramscismo. Ancora un’autocitazione:

«Questi gruppi, appena messo il naso fuori dei capannoni ordinati e lucenti della torinese fabbrica di automobili, e preso contatto colla parte meno concentrata in senso industriale di Italia, colle piaghe agrarie e con quelle arretrate, col problema regionale e contadino, caddero di colpo in una difesa delle stesse posizioni dei più scoloriti partiti piccolo-borghesi di mezzo secolo prima, non si occuparono più di rivoluzionare Torino, ma di imborghesire l’Italia, in modo che fosse tutta degna di portare il marchio della fabbrica torinese, di essere amministrata e governata coll’impeccabile stile di essa».

Torniamo oggi su detto stile, che è lo stile dei miti, dei culti. Il mito di Stalin ha avuto brutti colpi; sta per averne anche quello delle super-aziende, e dell’isterismo motorizzato: già oggi le miracolose «catene» di montaggio della FIAT d’oltre Atlantico, della General Motors, hanno dovuto essere fermate nell’insonne e perpetuo loro rollare.

Per ora qui si erigono nuove fabbriche, e un flusso crescente di macchine si rovescia sulle strade già ingorgate, e sempre più spesso fa pista della carne pedona. Ma il morto consacra se stesso al mito del moderno Jaggernaut gommato. Si bestemmiano i vecchi dèi, non il Progresso!

20. Valletta-Bulganin

Ci è subito dato allineare le cifre del «fatturato», ossia del valore della produzione di un anno, e le due relazioni ce le forniscono per quattro annate. Nel 1952, 200 miliardi, nel 1953, 240 miliardi: scatto annuo 20 per cento. Nel 1954, 275: scatto annuo 14,6 per cento. Nel 1955,310 miliardi, scatto annuo 12,7 per cento. Nei tre anni, 155 contro cento: media dell’incremento annuo 15,7 per cento, ben maggiore dell’11,5 per cento russo. Valletta supera Chruščëv.

FIAT batte DYNAMO 15 a 11!

Nel rapporto di Asti i dati FIAT non ci servirono per la discussione della pretesa definizione di socialista di ogni sistema industriale ad alto ritmo di progressione incrementale del prodotto, ma alla contrapposizione della terminologia e della calcolazione economica in Marx e nei borghesi.

Il fatturato della FIAT è per noi il «capitale» di essa: oggi 310 miliardi. Dobbiamo, come ad Asti, scomporlo tra capitale variabile, capitale costante, e plus-valore. Allora determinammo, servendoci dei dati Valletta sul personale e sugli investimenti in nuovi impianti, questa partizione: Capitale variabile o spesa personale, 70 miliardi. Capitale costante, ossia materie prime e logorii, 110 miliardi; plusvalore 60 miliardi. Capitale totale o prodotto alla fine del ciclo annuo: 240 miliardi.

Del plusvalore 10 soli miliardi andarono agli azionisti, gli altri 50, come allora annunziò Valletta, a nuovi impianti.

Le cifre del nuovo anno danno analoghi risultati; ma prima ricordiamo come è diverso dal nostro il linguaggio borghese. Il capitale nominale della FIAT, di cui demmo allora la lunga storia, passa oggi a 152 milioni di azioni da 500 ed è di 76 miliardi contro i 57 del 1953 e i 36 del 1952. Ha guadagnato il 58 per cento nel primo dei tre anni, nel secondo ha sostato, nel terzo ha guadagnato il 33,3. Il ritmo medio è stato del 28 per cento all’anno. Ma il capitale effettivo dipende dalla quotazione in borsa delle azioni. La stessa, che era 660 nel 1953, è oggi ben 1354 lire, sempre contro le nominali 500. Il capitale reale, anche nel linguaggio corrente, è dunque andato da 75,5 miliardi a 205 miliardi. Incremento biennale 272 per cento, annuo 65 per cento.

Se questa cifra indica l’effettivo «credito» degli azionisti «contro» l’azienda, di cui sono i «padroni», il loro dividendo annuo, o profitto nel senso dell’economista ufficiale, avrebbe dovuto crescere del pari. Mai più! I Valletta e C. non hanno elargito agli azionisti che 7,3 miliardi nel 1953 e 10,6 nel 1955. Ossia il profitto azionario è sceso dal 9,7 per cento al 5,1. Frenesia dell’investimento produttivo, legge della discesa del saggio di profitto!

Tutta la FIAT oggi però non vale né il nominale di 76 miliardi né il reale di 205. Ad Asti la «stimammo» non meno di mille miliardi, come patrimonio di immobili e macchine, che noi marxisti chiameremmo: valore dei mezzi di produzione; da non confondersi col capitale costante, prima indicato.

Valletta oggi ha detto che tra il 1946 e il 1955 hanno investito 300 miliardi in nuovi impianti, ed ha annunciato per il 1956 la prestigiosa «Mirafiori Sud». La cifra di 50 miliardi vale anche oggi come ritmo annuo. La FIAT di oggi varrebbe 1100 miliardi, a colpo sicuro, più e non meno. Fate sparire gli azionisti, che coprono coi loro pezzi di carta meno di un quinto del vero, e passerete dal socialismo-FIAT al più elevato socialismo-IRI.

21. L’insidiata forza di lavoro

Ad oggi una cosa è notevole: il personale non è cresciuto che da 71 000 unità a 74 000, ossia del 5 per cento, appena del due e mezzo all’anno! Ed allora il capitale variabile sarà passato da 70 a 80, anche esagerando sulle vantate elargizioni al personale, lodatissimo per non aver fatto in un anno un’ora di sciopero (ah, la rossissima Torino!). Ponendo anche 12 agli azionisti, e 50 agli investimenti in nuovi impianti, il conto «alla Marx» del 1955 diviene: Capitale variabile 80 miliardi. Capitale costante 168 miliardi. Plusvalore 62 miliardi. Totale 310 miliardi, come noto. Il plusvalore si divide in 12 di profitto agli azionisti, e 50 di nuovi impianti; il saggio totale di esso è di 62 contro 80, ossia 78 per cento, nel senso di Marx.

La composizione organica del capitale sarebbe andata da 11070 (ossia 1,57) nel 1953, a 16880 (ossia 2,10) nel 1955. Mostrammo che essa è bassa perché la FIAT è un’incastellatura verticale che compra le materie prime originali e le trasforma più e più volte. Comunque, non vi è forse un trucco nelle cifre di Valletta, se il capitale costante, che era il 46 per cento del prodotto nel 1953, è nel 1955 il 64? Cominciamo a vedere i benefici dell’automazione? Anche se una larga fetta di plusvalore da portare a nuovi impianti è stata nascosta (in effetti la cifra 1956 stavolta non è stata detta), resta il fatto che il prodotto sale del 30 per cento, nei due anni in cui la forza lavoro sale del 5 per cento soltanto.

E qui casca l’asino – diremmo l’asino Vanoni, se il poveraccio non fosse morto. Abbiamo certamente superato il 5 per cento di nuovo investimento, ma con l’impiego di lavoro non ci siamo, restiamo al 2,50 per cento, soltanto!

Resta, italiaccia di sotto, a zero, e rimirati l’aristocrazia proletaria di Torino, stretta attorno al suo Valletta! Che poco dopo compie il sovietico miracolo delle ore settimanali e, surclassando ancora una volta i Bulganin, le riduce da 48 a 46, da 45 a 44, e da 42 a 40. Senza diminuire in nulla i salari, viene proclamato; ma anche senza aumentare in nulla il numero dei lavoratori.

22. Piano quinquennale per la grande FIAT

Dalla clandestina saletta di Torino partì l’omaggio, ai meriti socialisti degli Alti Amministratori, di un Piano Quinquennale, alla Russa, bello e fatto.

Se il ritmo tenuto nel triennio testé decorso è stato del 15,7 per cento, lo stesso corrisponde in un quinquennio all’incremento della produzione del 106 per cento. Dall’indice cento, si dovrà passare a quello 206. I 200 miliardi-fatturato del 1952 dovranno essere 412 nel 1957, e, se si vuole, nel 1960 i 310 del 1955 dovranno essere ben 640.

I 250 mila mezzi motorizzati di oggi diverranno 515 mila, anche non volendo tenere conto che in un anno sono andati da 190 142 a 250 299, salendo del 30,5 per cento (e come mai le vendite solo del 14 per cento? I depositi sarebbero ingorgati, quanto alla General Motors?)

Sono novecentomila ivi le macchine invendute della produzione 1955. La G.M. ha cinque marche: «Chevrolet», «Pontiac», «Oldsmobile», «Buick» e «Cadillac». Quattro annate di lavoro Fiat! Quale il fatturato 1955 G.M.? 9 miliardi e 924 milioni di dollari, oltre 6000 miliardi di lire. Venti FIAT! Il personale? 577 mila unità. Otto FIAT. La composizione organica, la meccanizzazione, l’automatismo, sono solo due volte e mezzo la FIAT.

Come contano fermare questa marcia demente?
1) Duecentomila licenziati a Detroit.
2) Cinque milioni di tonnellate d’acciaio domandati in meno (e lo sciopero dei lavoratori dell’acciaio in mano a traditori!)
3) Il terzo della pubblicità alla televisione lo sborsano le fabbriche di automobili.
4) «Basta essere impiegati da due sole settimane per poter entrare in un negozio a piedi ed uscirne pochi minuti dopo al volante di una fiammante vettura, senza avere versato un solo dollaro di anticipo».
5) «Il Centro Tecnico della G.M. è costato 10 milioni di dollari; è un monumento al Progresso».
Ne esce, mentre si pianifica di buttare nella spazzatura un milione di macchine nuove, l’automobile a turbina – disegni segreti – detta «Firebird» Uccello di Fuoco.

Può l’equazione storico-economica di questo Progresso non dimostrare quando viene il nodo, la catastrofe, la Rivoluzione, il sociale «Uccello di Fuoco»?

Non ci interessa ora – tornando alla Fiat – stabilire quanto, giusta il piano, saranno i dividendi del 1960, gli aggiornamenti di capitale nominale, e il suo peso a valori di borsa. E il mistero dell’automazione avanzante ci consente di porre solo le domande: quanti gli operai? quanto la loro remunerazione? quante le ore settimanali?

L’economia borghese sa una cosa sola: che avranno tutti l’utilitaria, il frigorifero, la televisione, e forse un certificato di azioni FIAT.

E faremo tali conti un’altra volta; meglio li faranno i nostri nipoti.

In ragione di cotante prospettive l’economia di stile sovietico sa (è ben chiaro) un’altra cosa; che a Torino si vive in… sistema socialista, alla FIAT si produce col… sistema socialista!

Anzi è il primo posto del mondo sovietico che spetta all’industria giovane e gigante dell’automobile in Italia. Il capitalismo automobilistico, checché ne sia del misterioso anno di nascita del capitalismo italiano, è giovanissimo; il veicolo stradale a motore ha poco più di mezzo secolo: dicemmo ad Asti che la data di nascita della FIAT è 1899 (il capitale di costituzione fu di 800 mila lire! che oggi sarebbero al più 300 milioni, ossia un millesimo di oggi. Mille volte in 56 anni si ottengono col 13 per cento annuo, che in periodo così lungo è altra sconfitta dei ritmi russi; dal 1899 la produzione russa è aumentata solo circa 400, e non 1000 volte).

Il confronto decisivo è questo.
Piano quinquennale russo 1955–1960: da 100 a 170, 12 per cento;
Lo stesso, realizzazione; da 100 a 185, 13,1 per cento;
Piano quinquennale russo 1960–1965; da 100 a 165, 11,5 per cento.
Piano quinquennale FIAT 1960–65: da 100 a 206, 15,7 per cento.
E gloria alla grande patria… socialista dell’industria dei motori! E gloria alla non meno grande patria del degenerato comunismo italiano.

Marxismo e autorità
La funzione del partito di classe e il potere nello stato rivoluzionario

23. Chi arbitrerà le divergenze?

Il quesito era stato accennato in fine della prima parte, dedicata alla storia dello svolto nel partito russo, in cui prevalse (1926) la dottrina della costruzione del socialismo in Russia prima e senza la rivoluzione proletaria in Europa; e prevalse con essa la corrente rappresentata da Stalin, e allora anche da Bucharin e altri molti, poi passati a loro volta all’opposizione, e con essa caduti sotto le repressioni.

Se si ritiene che fino alla morte di Lenin e dopo, il partito seguì la giusta linea storica e politica costruita genialmente in lunghi decenni, e che culminava nella sua totalitaria assunzione del potere dello Stato, alla testa della classe dirigente e guidatrice del proletariato salariato, con l’alleanza della subordinata classe dei piccoli contadini, come passaggio alla dittatura del solo proletariato e alla trasformazione socialista dopo l’avvento della vittoria politica e sociale operaia in almeno gran parte dell’Europa borghese; che cosa spiega – qui era se non il dubbio, il quesito – come il partito, tanto ben preparato da una tradizione potente, si sia spezzato a favore della tesi disfattista, controrivoluzionaria?

Vi era una forza storica, un ente, un Corpo, che si potesse consultare per scongiurare l’errore e la catastrofe, dato che l’ingranaggio del partito bolscevico, e con esso quello della Internazionale Comunista, miseramente fallirono, anzi avallarono come linea ortodossa e rivoluzionaria quella che poi è rovinata fino al tradimento ed al passaggio al borghese nemico?

Dove in genere devesi collocare la direzione, la guida suprema, dell’azione della classe lavoratrice nella lotta al socialismo?

Questa questione era costata altre crisi ed altre dure prove e sconfitte. Essa esiste fin dai difficili periodi in cui l’Europa progredita doveva ancora essere duramente scossa per far largo, sulle rovine degli istituti medioevali, alle nuove forme sociali capitalistiche, che non potevano prorompere rigogliose senza l’ossigeno delle libertà nazionali e giuridiche.

Essa spezzò ancora una volta l’Internazionale Operaia dopo il 1871, con lo storico conflitto tra Marx e Bakunin, tra gli «autoritari» e i libertari, che in vasti ambienti e per lunghi decenni furono scambiati per l’ala più risoluta ed attiva del movimento delle classi lavoratrici.

Gli anarchici ammisero, senza capire di essere totalmente avvolti nelle nebbie delle ideologia borghesi, che ogni individuo potesse segnare da solo le vie della sua azione e che, svincolandosi da ogni esterno controllo di forze, risolvesse implicitamente anche il problema economico della sottrazione del prestatore di lavoro allo sfruttamento padronale, «continuando» la via borghese che aveva liberata la coscienza individuale dalla soggezione religiosa e il diritto personale dalle soggezioni giuridiche. Facendosi chiamare poi anarchici organizzatori o comunisti (sebbene per non chiamare partito il loro insieme appartenessero, in quella polemica celebre, alla Alleanza della democrazia socialista, terminologia ben degna dei peggiori odierni mestatori politici) ammisero le unioni operaie di difesa sindacale, e parlarono vagamente di future locali piccole «Comuni», formate da spontanea, libera adesione degli uomini di un territorio, autonome tra loro e nel trattare tra loro.

Una classica polemica di Marx e di Engels stritolò questo sistema barcollante e dimostrò che la spontaneità e l’autonomia erano idee non aderenti al corso rivoluzionario proprio di una definita classe sociale, il quale si fondava sulla formazione di un partito unico e centrale sovrastante i gruppi di professione e di località e che ne dominasse i capricci locali e occasionali. Spiegò che non dalle coscienze ma dalle convergenti forze e violenze materiali sorge quel processo, sommamente autoritario (Engels), che è una rivoluzione, e che mai essa smantellerà i vecchi istituti senza applicarvi un nuovo potere, uno Stato, una dittatura, una autorità.

24. Libertà e necessità

L’opposto dialettico dell’abusato termine di Libertà non è l’Autorità ma Necessità. La società umana non può sottrarsi al necessario piegarsi alle materiali forze dell’ambiente, se non, in relativi limiti, accettandole, conoscendole e prevedendo lo svolgersi dei loro processi. Anche nella concezione marxista vi è un traguardo ultimo in cui la società umana si solleva sul regno della necessità, ma come un tutto organico e coordinato, non come un ammasso corpuscolare di bizzosi ribelli a checchessia e a chicchessia. Quel lontano passaggio dalla collettività umana, e non degli uomini singoli, alla Libertà, si persegue non abbattendo alla spicciolata pezzetti di «autorità», forme sorte non dal prepotere arbitrario di uomini o gruppetti, ma dalle leggi stesse dell’utile corso storico. Soggetti di una tale avanzata sono le classi in cui la società si divide, capaci di rendersi artefici del prorompere di forme sempre nuove. In questo le rivoluzioni: in tutte e anche in quella proletaria del tempo moderno, sono in lotta non l’autorità e la libertà, ma due autorità, l’una contro l’altra armata.

Per l’anarchico puro – del resto sempre più rispettabile di quello semipuro e intrigante dei blocchi politici – Stalin, o chi per lui, vale Lenin, e Lenin vale Kerenski o Nicola II, dopo una certa strizzatina d’occhio di simpatia verso il penultimo nominato. L’anarchico odia lo Stato, e non può capire che noi lo odiamo quanto lui e più di lui, mentre non sarà lui a fregarlo via.

Noi con Marx dal primo sorgere della teoria, già precisa e definita nel «Manifesto», già dichiarata nei primi scritti filosofici di Marx e di Engels, già completa nella «Miseria della Filosofia» contro Proudhon («non dite che vi può essere movimento sociale senza movimento politico»), crediamo dunque alla Necessità, che nel senso dell’effetto dell’ambiente naturale e cosmico è insorpassabile dalla nostra specie, e crediamo all’Autorità, come sola via delle forme di sviluppo della specie stessa, a cui tuttavia poniamo un termine nel futuro, sotto determinate condizioni di sviluppo materiale delle forze produttive, che nello svolgersi della specie e del suo organizzarsi si sono formate.

Dove collochiamo questa Autorità? Se si ricorre al fattore Autorità, al fattore Potere, al fattore Dittatura, bisogna pure dire dove rivolgersi per consultarlo, e poi seguirne il detto – dato che l’azione sconnessa e senza questa guida centrale, cui si riportano i libertari, è per noi condannata alla squallida sterilità.

Noi dobbiamo collegare l’Autorità con la classe, ed escluderne tutte le altre classi, quelle che già posseggono oggi un’altra Autorità, e quelle che con la classe dominante, nella forma di produzione che vige, sono direttamente legate. Quindi la Dittatura, dopo la vittoria politica, o l’autorità interna nel Partito, prima e dopo, evidentemente escludono le altre classi. L’Autorità non sorge dalla consultazione generale, dalla Democrazia assoluta: ci arrivano forse anche gli anarchici, anche se esitano davanti al problema: è giusto togliere al borghese, al proprietario, all’imprenditore, i «diritti dell’uomo»?

Noi dunque porremmo alla consultazione un primo limite: essa comprenderà solo elementi della classe lavoratrice salariata.

25. Dalla democrazia all’operaismo

Non è un gran passo risolvere il problema della «formazione delle liste» con l’impiego di una statistica o di un’anagrafe da cui risulti la figura sociale o la professionale qualifica di ciascuno: e se entro una qualunque circoscrizione, sia essa un luogo di lavoro o un territorio di residenza o di contingente presenza fisica, interroghiamo i soli operai salariati, raccoglieremmo probabilmente una gamma di risultati contrastanti tra loro; e il trarne la verità arbitrale col solito gioco di una somma bruta di cifre non ci avrebbe portato lontani dai metodi insipidi della democrazia generica, che è poi la democrazia borghese, quella che è stata inventata (applicandola per la prima volta a tutti i capi viventi) proprio per poggiarvi sopra il potere della classe abbiente e capitalista.

Sono cose molto diverse per un lavoratore comportarsi come un componente della società borghese o come un componente della classe proletaria. Agli esordi storici egli non ha fatto ancora i passi che lo condurranno a non prendere il potere da chi lo paga, come per secoli hanno fatto i servi delle famiglie nobiliari dominanti.

In molti casi, se non nella maggior parte dei casi, era l’interesse economico che faceva rispondere il servo come conveniva al suo signore, che lo manteneva. Nei primi tempi del capitalismo il salariato della manifattura, economicamente, è stato dal padrone imprenditore portato in alto dalle condizioni del servo rurale o del servo di bottega, e dello stesso piccolo contadino e piccolo artigiano: effetto della potenzialità produttiva enorme del lavoro associato rispetto a quello isolato.

L’operaio risponde come componente di una classe, quando il corso storico lo ha legato alle sorti della sua classe in un lungo periodo e sopra vasti spazi, che comprendono le più diverse categorie professionali e i più lontani comprensori locali.

Una simile questione non può dunque essere sciolta con canoni giuridici interpellando corti costituzionali, ma solo in base alla storia dello svolgersi del modo capitalistico di produzione, anzi, più ancora: ad una prospettiva stabilita in dottrina di questo sviluppo futuro. Solo su tali basi gli antagonismi di classe divengono visibili ed operanti: il problema dell’Autorità ce lo possiamo proporre non in sede di filosofia morale, o della storia, ma solo dopo di avere stabilito i termini delle tappe che traversa turbinosamente il decorso dell’economia capitalistica universale.

L’errore di cui ci dobbiamo liberare, particolarmente insidioso, è che la bussola dell’antitesi di classe si orienti solo che la si collochi tra un singolo salariato e la sua azienda, nel momento della corresponsione della busta paga della settimana in corso. In generale la bussola o non si orienterà o ci indicherà il sud conservatore: segnerà il nord rivoluzionario solo quando l’operaio di cui si tratta sarà assurto al legame con i suoi compagni di tutte le aziende e di tutti i paesi, con sé stesso e con i suoi predecessori e successori di tempi passati e futuri, collocati in altri tornanti e vortici dell’infernale «anarchico» divenire della economia di azienda e di mercato, ove nulla è sicuro e protetto, quali che siano le vanterie democratiche ed assistenziali, per la comunità dei senza riserva.

26. Corso economico e rapporto di classe

Si danno luoghi e tempi in cui il capitalismo favorisce gli interessi assoluti e relativi dei suoi salariati: anche quando sono maggiori i saggi del suo prelievo sulla periodica «busta paga», sia a titolo di profitto per i soggetti della classe «riservista», sia anche a titolo di investimento privato o pubblico nella macchina produttiva progrediente. Questa non è una rara eccezione, e diverrebbe anche regola se la forma capitalista riuscisse a dimostrarci, magari nel corso di una umana generazione, che può scongiurare le guerre distruttive e le crisi generali di produzione e di occupazione, fasi in cui l’uragano economico travolge alla prima ventata i senza-riserva, i membri della classe operaia. La condanna che Marx elevò alla appropriazione del plusvalore, non sorge (come egli dice con una delle sue frasi da gigante della scienza sociale) dalla anatomia delle classi, dalla revisione da ragioniere di ogni busta paga. Non si tratta di una censura contabile, giuridica, egualitaria, giustizialistica, ma di una nuova e ciclopica costruzione della storia intera.

Quindi questo punto essenziale può essere meglio inteso dopo i risultati del nostro schizzo di storia del recente capitalismo, da cui è bene emersa la precarietà di tutte le sue conquiste, la labilità delle sue avanzate nella produzione dei beni, a cui seguono in periodi successivi, inesorabili, le precipitose discese. Nel corso generale aumenta la potenza delle risorse tecniche e la conseguente produttività di beni e valori a parità di sforzo di lavoro. Queste risorse, in linea generale progredienti di decennio in decennio, cui fa eco il continuo inno a vittorie della scienza e della tecnica, dovrebbero facilitare le riprese, il richiamo al lavoro dei caduti nei vuoti dell’armata di riserva, la febbrile ricostruzione delle attrezzature distrutte e il riattivamento di quelle abbandonate. Ma una serie di fattori negativi ed opposti mette a dura prova questo vantato maggiore potenziale del moderno industrialismo, orgoglio dell’epoca e contrappeso invocato per le sue infamie, assurdità e follie.

La popolazione cresce rapidamente colmando gli stessi vuoti formati dalle guerre prolungate. I bisogni naturali e soprattutto quelli artificiali, che le crisi e la miseria esasperano, crescono anche paurosamente. La produzione agricola non riesce a tenere il passo con quella industriale e non è suscettibile, nella economia mercantile, di rapide riprese dopo i dissesti. I rapporti delle nazioni produttrici con i mercati di consumo sono ad ogni guerra rivoluzionati e sconvolti e la lotta per riattivarli si fa con sperpero enorme di energie attive. Le crisi, che all’inizio del capitalismo colpivano un gruppo di nazioni dopo l’altro, tendono, in questa fase di assurdi legami finanziari al di sopra dei confini, a raggiungere sempre più l’intiero mondo della produzione industriale. Il sistema coloniale imperiale trova ad ogni ripresa maggiori urti e resistenze.

Se noi consideriamo le prime crisi dell’industria inglese descritte da Marx, che si ripercuotevano con decennale frequenza sulle nazioni subordinate, vediamo che una rapida fase di miseria equilibrava il blocco da sovrapproduzione, e la ripresa si effettuava su campo sempre più vasto. Mano mano vediamo che dopo la Prima Guerra generale, nella grande crisi di interguerra che scoppiò in America, e poi durante e dopo la Seconda Guerra, lo sconvolgimento dell’economia mondiale è stato sempre più profondo e più vasto, più lento ad essere superato, e gli sbalzi aziendali e nazionali di attivi e passivi sempre più ubriacanti che nel passato.

27. Miseria dei rischi crescenti

Se abbiamo ricordato tutto questo in sintesi, ed in rapporto alla dimostrazione stabilita sui dati economici, è stato per mostrare che la precarietà in cui vive nella società moderna il salariato non risulta tanto oggi dal suo tenore di vita nei periodi in cui la macchina della produzione marcia ed accelera, ma dall’integrale delle sue condizioni di vita in lunghi periodi di corsa sull’orlo dell’abisso e di alternato precipitare in esso. Per quante impalcature di assistenza e di assicurazione possa la «civiltà» borghese costruire, è certo che in pochi giorni o settimane ogni protezione del salariato, senza proprietà e senza risparmio, senza riserva, sparisce se arriva la nera crisi e la dilagante disoccupazione. Ben diversa la sorte delle classi a riserva. A proposito dell’economia occidentale e della sua vantata progressione verso il benessere, la generale prosperità, porremo in evidenza i dati economici dell’inconsistenza delle difese per chi altro non possiede che il proprio impiego, il posto, l’americano job, e le stesse provviste e attrezzi che ha nella sua abitazione, o lo stesso possesso di questa nelle più vantate forme, non detiene che come un debito, che una crisi economico-bancaria o di circolazione rapidamente volatilizzerà appena gli sarà rifiutato il suo unico cespite attivo, il tempo di lavoro: mentre il progresso tecnico, la produttività cresciuta, l’automazione, gli scavano tale rischio più profondo sotto i piedi.

Non ci spingiamo qui nella dimostrazione economica, da cui trarremo trionfanti le tesi di base del marxismo, ma illustriamo solo la scala, il campo, a cui si rendono sensibili i rischi di classe del proletariato moderno. In cerchi stretti e per periodi speciali essi restano inavvertiti, come per il proletariato inglese dei tempi classici, quello americano d’oggi. Abbiamo visto questi Stati capitalistici passare come salamandre traverso le guerre, ma abbiamo anche visto come li sconvolse l’uragano del 1929–32 e come contro la prosperity del nuovo paese-guida del capitalismo, gli Stati Uniti, si sia dopo la Seconda Guerra opposta la dura austerity dell’orgogliosa e scavalcata Albione. Questi paesi non vinceranno sempre le guerre, e il sistema economico-finanziario mondiale non ripercuoterà sempre il gioco delle crisi di anarchia produttiva e distributiva in misura massima sugli altri Stati, che come quelli minori di Europa ancora soffrono dei disastri della guerra ultima.

Ô tuttavia, allo stato, difficile ottenere dai proletari di Gran Bretagna e d’America una sensibilità a questi rischi futuri, una reazione di classe. Facciamo votare queste masse in un consiglio mondiale dei salariati, ed esse risponderanno tuttora a favore del sistema capitalista. Ce lo attesta la storia del tradunionismo e del laburismo inglese, e quella delle organizzazioni sindacali d’America oltranziste nel conformismo e che non fanno da base ad un partito politico appena distinto da quelli borghesi. E si dovrà rispondere al solito insidioso argomento: lì non ci sono distanze sociali in aumento; non c’è lotta di classe, non vi è incertezza sulla vita della macchina economica.

28. La classe si cerca altrove

Un anticipo di questo arduo punto fu la lotta della Sinistra nell’Internazionale di Mosca contro la proposta di fare entrare il microscopico partito inglese nel Labour Party, pure sostenuta da Lenin, come extrema ratio nel calare dell’onda rivoluzionaria europea verso il tramonto, che per noi era certo fin dal 1920, e tuttavia non consigliava di cercare appoggi né dal lato socialdemocratico né da quello sindacalista-anarchico.

Nel testo del «Dialogato coi morti» abbiamo usata una potente citazione di Lenin su questo punto: dove riposa l’autorità del movimento della classe proletaria? Egli non parlò di numero, né di statistica conta, ma ricordò l’appoggio sulla tradizione e la esperienza delle lotte rivoluzionarie nei più diversi paesi, la utilizzazione delle lezioni di lotte operaie di tempi anche lontani. Il corpo dei lavoratori rivoluzionari di tutti i paesi, cui egli rimandava gli ansiosi di consultazioni, decisorie di difficili problemi, non ha limiti né nel tempo né nello spazio, non distingue, nella sua base di classe, razze, nazioni, professioni. E mostrammo che non può neppure distinguere generazioni: deve coi viventi ascoltare anche i morti, e in un senso che ancora una volta rivendichiamo non mistico né letterario i componenti della società che avrà caratteristiche diverse opposte a quelle del capitalismo, che purtroppo, giusta le parole di Lenin, e quelle da lui citate di Marx, stanno ancora stampate nei cuori e nelle carni dei lavoratori attuali.

Questa unità vastissima di spazio e di tempo è dialetticamente concetto opposto al fascio, al blocco immondo di tante vantate collettività, che si coprono del nome di operaie (e peggio mille volte di popolari). Si tratta di unità qualitativa, che raccoglie militanti di formazione uniforme e costante da tutti i lidi e da tutte le epoche; e l’organismo che risolve il problema non è che uno, il partito politico, il partito di classe, il partito a base internazionale. Il partito, che ritorna nelle incessanti fondamentali richieste di Marx, di Engels, di Lenin, di tutti i combattenti del bolscevismo e della Terza Internazionale degli anni gloriosi.

L’appartenenza al partito non si stabilisce più da dati statistici o da un’anagrafe sociale: essa è in relazione al programma che il partito stesso si pone, non per un gruppo o una provincia ma per il corso di tutto il mondo del capitalismo, di tutto il proletariato salariato in tutti i paesi.

Un andazzo che mai la Sinistra marxista italiana e internazionale autentica ha gradito è quello di contrapporsi agli opportunisti (largamente abbarbicati ovunque alla bassa forma della concezione operaistica) con la denominazione di partito comunista operaio, ovvero dei lavoratori.

Da quando col «Manifesto» siamo saliti dal movimento sociale al movimento politico, il partito si è aperto anche agli elementi non salariati, che abbracciano la sua dottrina e le sue storiche finalità; e questo risultato ormai secolare non può essere invertito né coperto da ipocrisie demagogiche.

Questi concetti abbiamo dovuto di recente ristabilire davanti alla deforme difesa del «Partito» e della sua funzione, che nel XX Congresso si è ostentato di fare nei riguardi di un partito solo, quello sovietico, mentre per gli altri paesi si è apertamente annunziato di allargare ancora i fianchi di quelle barcacce oscene, che si chiamano partiti comunisti (o di altro più deforme nome) nell’Occidente, per disfare la storica scissione di Lenin che corrispose alla denunzia delle degenerazioni della Seconda Internazionale nella guerra 1914.

E ricordammo i punti base che garantiscono la vita interna del partito, non dalla sconfitta in campo aperto o dalla perdita di forza numerica, ma dalla peste opportunistica. Basterà farvi appena accenno.

29. Interna vita del partito di classe

Lenin – la citazione è spesso ricorsa negli ultimi dibattiti – era per la norma del «centralismo democratico». Nessun marxista può discutere menomamente sull’esigenza del centralismo. Il partito non può esistere se si ammette che vari pezzi possano operare ciascuno per conto suo. Niente autonomie delle organizzazioni locali nel metodo politico. Queste sono vecchie lotte che già si condussero nel seno dei partiti della II Internazionale, contro ad esempio l’autodecisione del gruppo parlamentare del partito nella sua manovra, contro il caso per caso per le sezioni locali o le federazioni nei comuni e nelle province, contro l’azione caso per caso dei membri del partito nelle varie organizzazioni economiche, e così via.

L’aggettivo democratico ammette che si decida nei congressi, dopo le organizzazioni di base, per conta dei voti. Ma basta la conta dei voti a stabilire che il centro obbedisce alla base e non viceversa? Ha ciò, per chi sa i nefasti dell’elettoralismo borghese, un qualche senso?

Ricorderemo appena le garanzie da noi tante volte proposte e illustrate ancora nel «Dialogato». Dottrina: il centro non ha facoltà di mutarla da quella stabilita, sin dalle origini, nei testi classici del movimento. Organizzazione: unica internazionalmente, non varia per aggregazioni o fusioni ma solo per ammissioni individuali; gli organizzati non possono stare in altro movimento. Tattica: le possibilità di manovra e di azione devono essere previste da decisioni dei congressi internazionali con un sistema chiuso. Alla base non si possono iniziare azioni non disposte dal centro: il centro non può inventare nuove tattiche e mosse, sotto pretesto di fatti nuovi.

Il legame tra la base del partito ed il centro diviene una forma dialettica. Se il partito esercita la dittatura della classe nello Stato, e contro le classi contro cui lo Stato agisce, non vi è dittatura del centro del partito sulla base. La dittatura non si nega con una democrazia meccanica interna formale, ma col rispetto di quei legami dialettici.

Ad un certo tempo nell’Internazionale Comunista i rapporti si capovolsero: lo Stato russo comandava sul partito russo, il partito sull’Internazionale. La Sinistra chiese che si rovesciasse questa piramide.

Non seguimmo i trotzkisti e gli anarcoidi quando fecero della lotta contro la degenerazione della Rivoluzione Russa una questione di consultazioni di basi, di democrazia operaia o operaio-contadina, di democrazia di partito. Queste formule rimpicciolivano il problema.

Sulla questione dell’Autorità generale cui il comunismo rivoluzionario deve far capo, noi ritorniamo a trovare i criteri nella analisi economica, sociale e storica. Non è possibile far votare morti e vivi e non ancora nati. Mentre, nella originale dialettica dell’organo partito di classe, una simile operazione diviene possibile, reale e feconda, se pure in una dura, lunga strada di prove e di lotte tremende.

30. Le meschine comunità periferiche

Sulla sua possente strada che cerca e scopre la via unitaria delle forme di vita di relazione della specie umana in un corso grandioso e mondiale, più e più volte il socialismo si è trovato e si trova davanti lo stesso nemico: la frammentazione, la molecolarizzazione, la rottura in piccole isole dei complessi sociali e della loro vita. Questi tentativi si sono scritti in controsenso della stessa grandezza della rivoluzione capitalistica borghese, la quale nella epica sua battaglia contro la minutaglia salita dal medioevo costruì le macchine storiche unitarie che si chiamano Stati nazionali.

Il marxismo denunziò la pretesa di universalità di queste formazioni della storia, e la loro menzognera conquista di una unità centrale, non tagliandole con barriere verticali tra province, regioni e comuni, ma tagliando la loro costruzione sul territorio governato, orizzontalmente; ponendo la classe che stava sotto il peso sociale contro quella sovrastante che teneva nel pugno le leve centrali di tutto il sistema. Non si propose di strappare a questa brandelli del suo dominio di classe; ma di toglierle tutto il blocco delle centrali leve di guida, senza compromettere il risultato storico insito nel nuovo modo di produzione associata in masse, che faceva ruotare in un moto unico la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi, sempre più generali e complessi.

Associò tutti i lavoratori della nazione in un blocco tanto unico e stretto al suo centro, quanto quello dello Stato oppressore, e andò molto più oltre, cercando di fare un corpo unico centralizzato dei partiti proletari di tutti i paesi.

Mille ideologie forcaiole si posero contro questa unica via del cammino rivoluzionario, questo unico mezzo per uscire dalle tenaglie del sistema borghese internazionale. Alla base di esse sta la solita ubbia della libertà, sciocca ombra del fondamentale inganno dell’ideologia capitalista, che non osando che copertamente vantarsi di avere uniti i suoi già dispersi governati, si vanta invece di averli uno per uno sciolti da secolari legami e pressioni.

La libidine del libero convellersi capriccioso dell’individuo, e del suo vivere per sé, che tutte le fallaci filosofie gli propinarono trattandolo da spirito o da carne, non da specie e da umanità, si tradusse nella miopia, tra le altre, del limite familiare, poi di quello locale e campanilistico. Ad un certo momento si cercò di cambiare nomi e connotati alla teoria proletaria chiamandola non più socialismo, ma comunalismo. Al solito ciò pretendeva di essere un passo a sinistra; e se ne stava innamorando uno dei tanti che hanno avuto la sventura di scambiare sé stessi per marxisti rivoluzionari: nella fattispecie si trattava della meteora socialista dal nome di Benito Mussolini, cui fu il caso di dare il primo di numerosi tratti di… corda.

31. Sfilata di cordiali nemicissimi

La cronaca della politica italiana si tesse di una catena di esempi di queste idiozie spezzettanti, incardinate sui gruppetti spontanei e le piccole cerchie di locali interessucci, che si volevano tirare fuori o si illudevano di tirarsi fuori dalla tempesta della storia nazionale e mondiale con questo espediente indegno della grande borghesia quanto del proletariato, e proprio delle malfamate classi piccolo-borghesi, in Italia più che altrove patite di individualismo, di localismo, di libertarismo e di anarchia nel cianciare, ma nella carne della loro carne proclivi soltanto al cucciare e servire sotto la frusta di tutti i poteri.

Le edizioni di questa mania sono state inesauste, tutte ruotando intorno ad un associazionismo in gruppi «liberi», «spontanei», «autonomi», in quanto chiusi in orizzonti angusti, imbelli e conformisti ad ogni conservazione.

Che cosa disse di diverso il Mazzinianismo nelle sue formulazioni economiche e sociali davvero bambine, preconizzando le cooperative produttrici, se pure politicamente la sua repubblica passò per unitaria, contro la versione federale del Cattaneo? Ma in effetti, come mostra il caso svizzero, nella repubblica unitaria borghese il piccolo gruppo è meno legato che in quella federale e sotto i famosi governetti cantonali.

Che di diverso ci hanno cucinato i liberali-radicali di sinistra sguaiatamente dilagati alle cricche e camorre locali dal classico unitarismo statale del Cavour, nell’inarrivabile giolittismo piemontese, forma degenere di un Piemonte soggiogatore di staterelli feudali, e modello nostalgico del comunismo degli odierni «ordinovisti», che scambiano, a loro volta, l’economia comunista integrale con un giocare di libere locali aziende di produzione?

E che altro hanno inventato i cattolici riformatori e demosociali di Sturzo, del Partito Popolare, e della Democrazia Cristiana, e in genere il movimento della liberazione nazionale dal fascismo, con le sue parodistiche autonomia regionali, suscettibili d’un mangia-mangia ben più succhione di quello diffamato dai centralizzati e monopartitici fascisti?

Perfino il movimento, subito scomparso, del dannunzianesimo fiumano credette di imitare le forme sovietiche con un simile corporativismo di mestiere, non sovrastato da una forza politica centrale unica.

Tutte queste smanie di campanile e di provincia sono state sempre corteggiate dal sindacalismo del tempo soreliano e dall’anarchismo dei vari gruppi, che hanno sempre creduto che al capitale e al governo del capitale si potessero strappare dalle grinfie le vittime ad una ad una, non recidendo le canne bramose con un colpo solo.

Torino vide già il disdoro per il Partito Comunista di Livorno, cui aveva dato poderosi contributi con le azioni disfattiste durante la guerra e con la fiorente frazione anti-parlamentare nel seno del Partito Socialista del 1919, nella versione aziendista e frammentista del movimento dei consigli, che induceva gli operai a lasciare il partito, e anche a lasciar vivere lo Stato di Roma, pur di prendere in controllo e gestione una per una le aziende industriali.

Oggi, nel risibile periodo delle elezioni comunali, vera sbornia drogata del localismo italiota, affiora un altro movimento, che si chiama «Comunità», e sogna basi territoriali appena intercomunali, circondariali forse, per fondare una fantasima di società nuova.

In tutte queste forme la caratteristica è sempre la stessa; vi accedono lavoratori proletari, contadini, coloni, mezzadri, bottegai, bolsi intellettuali di discipline serve all’affarismo capitalista (di queste esempio precipuo è la chiassosa pseudo-scienza urbanistica, che crede che le sedi edilizie abbiano preceduto le forme sociali; e non l’opposto) e autentici industriali nella veste ipocrita di benefattori paternalisti.

Forse lungamente ancora le debolezze democratiche liberali e anarcheggianti, che infestano questa nazione, ci ammorberanno da ogni lato, ma noi, ben distinti da tutta questa scema genia, le getteremo contro la formula con cui lottammo durante e dopo la Prima Guerra, e accettando lieti la sfida alternante della dittatura nera. Unico partito che ha per motto: chi non è con noi è contro di noi; unico potere da conquistare e maneggiare alla stessa stregua contro tutte le forze opposte, contro tutti i dissensi, anche ideali.

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. I paragrafi che seguono fanno parte del resoconto di una riunione tenuta a Torino il 27 e 28 maggio 1956, pubblicato in «Programma Comunista», № 12, 13 e 14 del giugno-luglio 1956. [⤒]

  2. Il riferimento alla fonte è sbagliato. Il numero di volume e il numero di pagina non si riferiscono all’edizione delle «Opere complete» ma alla collana «Ленинистий Сборник» («Leninistij Sbornik», «Raccolta leninista»), volume 4, pubblicata in russo da Kamenev nel 1925. Lenin scrisse questa nota nel marzo/aprile 1921 come parte dei suoi preparativi per l’opuscolo «Sull’imposta in natura».
    La rivolta dei marinai di Kronstadt, che durò dalla fine di febbraio al 18 marzo 1921, fu un fattore decisivo per la presa di coscienza che la politica del «comunismo di guerra» doveva finire per affermare il potere dei lavoratori nell’Unione Sovietica. Si trattava di prendere in considerazione le reali relazioni di classe e di considerare come il proletariato dovesse agire per guidare i contadini nella direzione del comunismo, nonostante tutto. Si trattava di una «ritirata» necessaria dal punto di vista delle forze di classe affinché i contadini non passassero alla controrivoluzione, in altre parole alle Guardie Bianche.
    Stalin, che ha usato questa citazione solo per mostrare ciò che non diceva, si è naturalmente astenuto dal menzionare la seguente frase che Lenin aveva scritto in latino nel suo quaderno: «Aut — aut. Tertium non datur», o — o, non c’è un terzo. Non c’era quindi alternativa all’introduzione della imposta in natura e, successivamente, della NEP se si voleva mantenere il potere dello Stato proletario nell’Unione Sovietica.
    La citazione di Lenin è stata introdotta per la prima volta nella quarta edizione russa delle sue opere (volume 43, pagina 309) e, a partire dalla quinta edizione, nel volume 43, pagina 383. Ora si trova anche nelle edizioni in lingua straniera. In tutti i casi, tuttavia, non vi è alcuna indicazione che la citazione sia stata modificata per renderla leggibile, poiché Lenin l’aveva abbreviata notevolmente. Solo nello «Leninistij Sbornik» sono documentate le aggiunte editoriali presumibilmente corrette, come mostriamo qui:
    «10–20 лет правильн[ых] соотн[ошений] с кр[естья]н[ст]вом и обеспеченная победа в всемир[ном] масштабе (даже при затяжке пролет[арских] р[е]в[олю]ций, кои растут), иначе 20–40 лет мучений белогв[ардейского] террора.
    Aut — aut. Tertium non datur.»

    Nei suoi scritti e discorsi successivi sull’introduzione dell’imposta in natura Lenin non fa esplicitamente riferimento a questa formulazione nel suo quaderno, ma il significato di questa formulazione traspare ovunque, solo espresso in modo meno drastico. (sinistra.net)[⤒]


Source: «Il Programma Comunista», № 12, 13, 14, 1956

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