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STORIA DELLA SINISTRA COMUNISTA 1912-1919
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| Introduzione | Premessa + 1-5 | 6-10 | 11-15 | 16-20 | 21-24 | 25-29 |


Content:

La linea storica della Sinistra Comunista dalle origini fino al 1919 in Italia
21. Il XV congresso socialista: Roma 1-5 settembre 1918
22. I giovani socialisti in tempo di guerra
23. La grande riscossa proletaria postbellica: episodi a Napoli
24. Scoppia il «dopoguerra italiano»
Notes
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La linea storica della Sinistra Comunista dalle origini fino al 1919 in Italia

21. Il XV congresso socialista: Roma 1-5 settembre 1918
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La borghesia italiana stava ancora giocando la propria sorte al fronte e nelle vergognose schermaglie tra i futuri vincitori, nell'eventualità che le cose andassero loro bene. Essa faceva al partito socialista l'onore di temere che, provocandolo, sapesse far nascere un'altra Caporetto. Aveva paura di noi, e per frenare la collera rivoluzionaria faceva assegnamento, come fa adesso, più sull'illusione democratica che sulle legnate. Permise la convocazione a Roma del congresso del Partito, che nel 1917 aveva proibito: fra arrestati e militanti sotto le armi, le nostre file erano diradate e seriamente provate; e gli avversari speravano nell'azione dei destri parlamentari e sindacali perché mettessero acqua nel vino. Ma, in Italia, della guerra tutti ne avevano abbastanza, perfino i destri, i quali pensavano che, se la guerra non finiva, anche i sassi sarebbero passati all'estrema sinistra, loro bestia nera.

Il congresso deluse tutti coloro. Ben 365 sezioni vi erano rappresentate. Il Partito era forte appunto per il buon effetto della dura lotta contro la guerra, e al dibattito portarono un acceso contributo diversi militanti proletari del Nord e del Sud, tanto rudi e sbrigativi quanto insofferenti - con mille ragioni! - delle manovre e delle pastette della destra parlamentare e confederale, e sdegnati sia della difesa turatiana del principio che «l'indipendenza nazionale! è sacra», che dei sottili e cattedratici «distinguo» di Graziadei.

Repossi, vecchio sinistro, tenne il più deciso discorso per Lenin e per la dittatura proletaria (significativamente, i destri avevano evitato il minimo accenno alla rivoluzione bolscevica, i cui bagliori accendevano gli entusiasmi dei congressisti), e per la messa in stato di accusa del re e del governo:
«
Più nessuna blandizie» - egli concludeva - «Classe contro classe: da una parte la borghesia, tutta insieme, contro di noi; dall'altra noi, soli, contro tutto il mondo: questo il compito dei socialisti».

La tesi dell'estrema sinistra fu svolta dall'avvocato Salvatori, di Livorno, che era stato a Bologna 1915 e Firenze 1917, e deprecò che, fin dall'inizio della guerra, non ci fosse stata rottura aperta fra le due ali estreme e che il partito si fosse adagiato nella formula non aderire né sabotare:
«
Voi» - disse rivolto ai destri, - «dovevate aderire alla guerra; noi dovevamo sabotarla fin dal principio immediato».
Da lui e da Trozzi fu preparata la mozione estremista. Ancora una volta vi campeggiava la questione della politica del momento, e non solo si sconfessava il Gruppo parlamentare, ma si deplorava la debolezza della stessa Direzione del partito. La discussione fu deviata da un burrascoso incidente: Modigliani si alzò per dire che, se una tale mozione era votata, tutti i deputati avrebbero presentato le dimissioni. Allora Trozzi ebbe la debolezza di ritirare la sua firma, e solo dopo lunghi dibattiti il Lo Sardo, uomo abile ma mai troppo diritto, escogitò una formula attenuata che anche Modigliani gradi. Va detto che da lui si erano staccati i deputati Maffi, Caroti, Di Giovanni, Bernardini e Morgari.

Messe ai voti, la mozione Salvatori ne ebbe 14.015, la centrista di Tiraboschi 2.507, e quella di Modigliani 2.505. La mozione vittoriosa dice:
«
Il XV Congresso socialista italiano:
1) plaude all'opera della Direzione del Partito sul terreno della politica internazionale e ne approva insieme gli atteggiamenti politici interni, pur rilevando di essa Direzione, per amore dell'unità di tutte le forze socialiste, l'eccessiva tolleranza verso gruppi, organizzazioni e persone;
2) giudicando dell'«Avanti!» che ha segnato in questo periodo di guerra una pagina gloriosa di classismo, specialmente per aver gettato l'allarme contro la possibilità collaborazionista mobilitando intorno a sé tutte le energie socialiste, lo addita alla riconoscenza del proletariato;
3) nei riguardi del gruppo parlamentare socialista..., mentre prende atto della sua opera fino al Convegno di Roma del febbraio 1917, dichiara che malgrado i richiami ad una più energica opposizione alla guerra, e ad un maggior contatto con le masse, il Gruppo, sia per manifestazioni di singoli, sia per deliberazioni della sua maggioranza, non ha corrisposto alle deliberazioni del convegno suddetto e alle direttive segnate dai Congressi di Reggio e di Ancona, richiamate dalla Direzione del Partito e dalle masse organizzate, e ciò più specialmente coll'ultimo discorso Turati e col susseguente voto di solidarietà del Gruppo; invita il Gruppo Parlamentare ad attenersi rigidamente alla volontà del Partito ed alla direttiva segnata dagli organi responsabili dello stesso;
4)... riafferma che il Gruppo parlamentare socialista debba in ogni sua pubblica manifestazione politica essere disciplinato alle deliberazioni della Direzione, alla quale spetta la responsabilità delle direttive del Partito; ed in questo concetto, modificando opportunamente lo Statuto, affida alla Direzione stessa il mandato di disciplinare tale rapporto con tutte le modalità del caso, anche nei riguardi delle situazioni parlamentari improvvise e con le conseguenti sanzioni fino all'espulsione. Il possibile ricorso del colpito da espulsione, da presentarsi alla Direzione, sarà esaminato a referendum dalle Sezioni, o dal Congresso se già stato indetto
».

Abbiamo riportato la mozione così attenuata per mostrare come, ancora una volta, l'affermazione di principi validi e sempre ribaditi dalla sinistra non fosse qui tradotta in un taglio netto e radicale nella pratica, e lo scrupolo dell'unità portasse ad una sanatoria di fatto se non di principio del passato. Basteranno pochi mesi - e lo vedremo perché il Gruppo parlamentare torni a fare di testa propria, e la Direzione... lasci correre.

La verità è che il congresso aveva eluso le questioni di fondo per concentrarsi su una schermaglia di accuse e contro-accuse su atti singoli. Un anno prima, quando per la prima volta si era parlato di congresso, l'estrema sinistra aveva chiesto che il dibattito fosse esauriente e non si evitassero i tanto temuti dibattiti «teorici» per paura di dissensi suscettibili di compromettere l'unità del Partito. Era proprio sul terreno della pratica che il dibattito sull'azione da svolgere nel paese e sui metodi da seguire nei rapporti internazionali si delineava, e, dato il dissenso pratico circa quello che si diceva «andare a destra o andare a sinistra», il modo migliore di inasprirlo era di lasciarlo sospeso «affidandone la soluzione al caso, ai signori Avvenimenti, alle eccellentissime signore Situazioni e al criterio della S. S. Opportunità. Il modo sincero, onesto e virile di risolvere la questione è, invece, quello di decidere se l'una o l'altra delle tendenze è nella linea del programma del partito e corrisponde alle finalità che esso si propone» –, dunque, questione pratica non risolvibile fuori dalla questione teorica (12).

Allo stato dei fatti, la nuova direzione uscita dal congresso di Roma non potrà non perpetuare, proprio per il mancato chiarimento delle questioni di fondo e il conseguente mancato raddrizzamento organizzativo, le titubanze e gli smarrimenti del passato, a maggiore scorno dei «praticisti», dei «concretisti» e dei «contingentisti», oltre che degli unitari ad ogni costo.

Si vuole che da questo congresso nascesse il poi detto massimalismo. I più accaniti sarebbero stati Gennari e Bombacci: il merito maggiore dell'orientamento delle «assise» di Roma spetta al vero rivoluzionario Salvatori, che non merita certo la taccia di aver tenuto a battesimo il massimalismo. L'ordine del giorno sulla situazione nazionale e internazionale, di Gennari, diceva che nel socialismo il concetto di patria è superato, e che si doveva nell'azione pratica affrettare la pace e incanalare il malcontento generale verso il programma massimo dell'espropriazione capitalistica borghese. Solo più tardi si poterono sottoporre a un miglior vaglio alla luce del marxismo frasi di questo genere, - anche se sincere come nel Gennari di allora - quando il «massimalismo» rivelò la pochezza del suo contenuto e della sua valutazione del trapasso storico del dopoguerra.

La guerra intanto volgeva alla fine, sia pure con la vittoria tanto magnificata dalla borghesia italiana della battaglia di Vittorio Veneto e l'ingresso nelle terre e città «liberate». Ma si levavano in tutta la loro asprezza i tanto attesi problemi «del dopoguerra».

22. I giovani socialisti in tempo di guerra
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Prima di passare al periodo posteriore alla fine della I guerra mondiale, sarà utile tornare brevemente sulle vicende del movimento giovanile socialista, di cui abbiamo ricordato il notevole appoggio all'ala sinistra rivoluzionaria del partito fino alla vigilia del conflitto 1914-18.

La Federazione giovanile, che dall'agosto 1914 aveva accolto lo scoppio del conflitto europeo prendendo la stessa decisa posizione contro il tradimento social-nazionale che la sinistra del partito subito assunse, e che abbiamo documentata con riferimenti ad articoli fondamentali dell'«Avanti!», purtroppo non sfuggì ad una lieve crisi allorquando Mussolini, nell'ottobre 1914, compì la sua vergognosa defezione.

Il giornale «L'Avanguardia» era allora affidato a Lido Caiani, il quale purtroppo seguì il futuro duce e non mancò di recare un certo scompiglio nelle file dell'organizzazione giovanile. Fu riunito d'urgenza un convegno del Comitato nazionale a Bologna il 25 ottobre, ossia pochi giorni dopo il famoso articolo del voltafaccia mussoliniano, e fu votato un risoluto ordine del giorno che poneva fine ad ogni esitazione interventista, presente anche il transfuga Caiani che, pochi giorni dopo, doveva passare armi e bagagli dalla parte dei traditori senza peraltro essere seguito nemmeno da un'infima minoranza dei giovani, e pubblicare un giornalucolo dissidente cui dette il titolo del famoso articolo di fondo del 1° numero del «Popolo d'Italia» (Audacia) abbracciando sfrontatamente la tesi dell'immediato intervento. Ecco il testo dell'ordine del giorno votato a Bologna, come lo riporta «L'Avanguardia» dell'8-11-1914, n. 361:
«
Il Comitato Nazionale dei giovani socialisti italiani, discutendo in merito all'attuale situazione politica internazionale e all'atteggiamento assunto al riguardo dall'«Avanguardia»;
ritenendo che il movimento giovanile debba seguitare ad ispirarsi alle direttive di avversione ideale e pratica ad ogni guerra, perché dai gravissimi e vastissimi avvenimenti attuali e proprio dall'insuccesso dell'opera dei socialisti negli Stati belligeranti scaturisce l'insegnamento che ogni concessione dei socialisti alle finzioni dei militarismo statale si presta solo a far trarre il proletariato nell'inganno sanguinoso delle guerre fratricide, le quali sono conseguenza fatale dell'intima struttura economica e sociale del moderno capitalismo, di cui il socialismo é antitesi teorica ed operante, e delle quali guerre la motivazione, l'iniziativa e lo svolgimento sono del tutto sottratti al controllo ed alla influenza del proletariato, costituendo il monopolio unilaterale dei moderni Stati, anche se retti a democrazia;
decide che la Federazione Giovanile debba esplicare la sua azione politica d'accordo col Partito socialista italiano e con tutti gli organismi del proletariato, facendo appello in caso di guerra alle masse operaie perché esplichino la più recisa opposizione, e disapprova l'intonazione riserbata da «L'Avanguardia» di fronte alla guerra con manifesti giudizi parziali e prematuri di socialisti esteri, con simpatie sentimentalistiche per una delle parti belligeranti e inopportuni propositi bellicosi in particolari circostanze dello sviluppo del conflitto, esorbitanti dalla sana concezione socialista come dalla socialistica valutazione dei fatti...
».

Dopo questa decisione, fu completamente raddrizzato l'indirizzo della «Avanguardia», che prese posizione per la linea più radicale in materia di azione contro la guerra. Importantissima conferma se ne ebbe al congresso della Federazione giovanile tenuto a Reggio Emilia il 10 e 11 maggio 1915, ossia alla vigilia dell'intervento dell'Italia in guerra, il cui voto, importantissimo perché contiene il principio disfattista dello sciopero generale in caso di guerra, fu quindi propugnato (come abbiamo esposto) dai delegati della estrema sinistra e della Federazione giovanile stessa al convegno del 16 maggio 1915 a Bologna degli organismi del partito. Erano presenti 107 delegati e 305 sezioni con circa 10.000 iscritti. Sulla relazione del Comitato centrale e del giornale fu approvato quest'ordine del giorno:
«
Il Congresso, constatato come il C.C. e la direzione dell'«Avanguardia», dopo il richiamo del Convegno nazionale tenuto a Bologna il 25 ottobre 1914, hanno seguito una linea di condotta confacente alle aspirazioni del movimento giovanile, ne approva l'operato e passa all'ordine del giorno».

Sull'azione contro la guerra fu approvato a grande maggioranza l'ordine del giorno che segue:
«
I giovani socialisti italiani, mentre affermano che sia necessario rendere sempre più sensibile in questo momento il distacco fra borghesia e proletariato e credono e sperano che lo sciopero generale in caso di guerra sarebbe il segno veramente efficace di questo distacco, danno mandato di sostenere le loro convinzioni, e la loro volontà di affermare con qualunque sacrificio il proposito di salvaguardare gli ideali e gli interessi della classe lavoratrice, ai rappresentanti che si recheranno al convegno nazionale di Bologna».

Il giornale prese un indirizzo di sinistra subito dopo che il partito ebbe respinto la proposta di sciopero generale, e un articolo che daremo in appendice, dell'ottobre 1916, sviluppa le stesse idee, le stesse direttive che (come si è detto) l'estrema sinistra affermò con forze notevolissime al convegno di Roma del febbraio 1917. In previsione delle manifestazioni per il 1° maggio 1917 la Federazione giovanile si rivolse al partito per ottenere che la manifestazione stessa fosse informata a direttive più nette ed energiche di quelle di cui si era contentata la maggioranza del convegno di febbraio con la vaga formula: «Uniformare l'azione ulteriore del Partito all'azione finora svolta». In un articolo successivo, del luglio 1917, dal titolo «Ancora più avanti», l'organo dei giovani manifesta decisamente l'idea che l'Internazionale socialista dopo la guerra debba essere scissa in due, e gli antichi capi, che nel 1914 hanno tradito, vadano respinti al di là di un vero abisso che separi i marxisti rivoluzionari da tutti i transfughi in campo socialpatriottico (cfr. i testi 29 e 31).

Delle prese di posizione dei giovani nel cruciale periodo febbraio-giugno 1917 informa tuttavia più dettagliatamente la già citata «Memoria al Partito socialista della Federazione giovanile socialista italiana», in data Roma 24-5-1917 e a firma dell'allora segretario Nicola Cilla, un elemento di sinistra. Essa è una vivace critica degli organi direttivi del partito che non hanno mantenuto la promessa di prendere in seria considerazione l'o.d.g. presentato dalla sinistra al convegno di febbraio, e che, nei convegni dell'aprile e del maggio a Milano, hanno tenuto un atteggiamento sostanzialmente pacifista e gradualista. Vi sono riportate due proposte di aggiunte - o meglio chiarimenti - della Federazione giovanile all'o.d.g. della sinistra al convegno di Roma; la prima chiede di
«
imporre alla Confederazione generale del lavoro un indirizzo nettamente classista; in tutte le occasioni adatte (ricorrenze straordinarie, processi politici, crisi parlamentari, provocazioni internazionali, ecc., ecc.) proclamare lo sciopero generale e convocare comizi, affermandosi in quest'unico programma: «la pace, non la vittoria»; tener deste e pronte le forze proletarie e, qualora queste scoppiassero al di fuori della nostra iniziativa, intervenire illuminandole e difendendole dalla reazione borghese».

La seconda invita
«
il CC a tenersi maggiormente affiatato col movimento giovanile socialista internazionale, per accordarsi in merito ad eventuali futuri movimenti, e per tener viva e desta quell'unione internazionale che é gran parte della nostra forza».

Dallo stesso fascicoletto risulta che, in vista del già ricordato convegno del 9-10 aprile a Milano, la Federazione giovanile aveva inviato alla Direzione il seguente appello:
«
Ritenuto che sarebbe impolitico e fuori della realtà non tener conto del malcontento popolare che è fatale conseguenza della guerra, o affidarsi a una vaga formula di «uniformare l'azione ulteriore del Partito all'azione finora svolta», - considerato che il malcontento popolare presente sta per essere sfruttato come tavola di salvezza dell'interventismo pseudo democratico e repubblicano ai finì di indirizzarlo verso un'azione insurrezionale non socialista, anzi antisocialista, che condurrebbe l'Italia a una concretazione di programmi essenzialmente repubblicano-borghesi, - fa voti perché la Direzione del partito - ispirandosi agli avvenimenti di Russia e d'America e allo stato d'animo creato dalla guerra - concreti una linea di condotta che diriga, coordini, unifichi lo spirito e l'azione del proletariato italiano».

Il 23/24-9-1917, la Federazione giovanile socialista italiana riesce a tenere un altro congresso, a Firenze, con ben 150 delegati in rappresentanza di 300 sezioni con circa 9.000 iscritti. Sull'indirizzo politico viene data adesione alla circolare della frazione intransigente rivoluzionaria, costituitasi per reagire al troppo debole indirizzo centrista della direzione, e tuttavia sorreggere quest'ultima contro la minaccia socialpatriottica di una defezione del gruppo parlamentare.

Dell'ordine del giorno sull'Internazionale, riportiamo la parte più notevole.

«Il Congresso della gioventù socialista italiana, visto come gli avvenimenti storici in Russia confermino brillantemente la ragionevolezza dei principi della lotta di classe da noi propagati, saluta fraternamente la Russia rivoluzionaria e intravvede nel suo trionfo il trionfo delle idee rivoluzionarie;
considerato che, come la rivoluzione russa può raggiungere il suo trionfo pienamente socialista [siamo a un mese circa dalla rivoluzione di ottobre], soltanto attraverso la lotta contro il governo borghese e contro il socialpatriottismo, così anche in tutti gli altri paesi può trionfare la tattica rivoluzionaria solo attraverso la lotta più aspra contro il socialpatriottismo del proprio paese;
delibera che uno dei compiti della Gioventù socialista é di operare in seno al movimento proletario infuocando la lotta rivoluzionaria per il trionfo dei nostri principi
».

In questo congresso, fu pure vivamente deplorata l'incertezza del partito adulto e il suo tentativo di false unanimità, ricordando che al convegno di Roma del febbraio 1917 si erano voluti mostrare armonici i due ordini del giorno di forza quasi pari che «invece si dividevano per un'antitesi irreconciliabile». Alle critiche volle rispondere lo stesso Lazzari il quale rivendicò il rispetto al concetto di patria; tuttavia, il voto dette più di 7.000 aderenti all'indirizzo estremista contro 700 dei soli gruppi del Reggiano che tolleravano la scialba posizione del segretario del partito.

Nel periodo successivo del 1917, l'organo della Federazione giovanile mostra un'immediata e vibrante sensibilità alle notizie della rivoluzione russa e della vittoria di Ottobre. Una serie di note dai titoli «Mentre Lenin trionfa», «La luce viene dall'Oriente» e simili, sottolinea con validissima prontezza la collimanza completa fra l'opera dei bolscevichi e i dettami fondamentali del marxismo. Si comincia pure ad agitare in maniera sempre più decisa il problema di una nuova Internazionale, come si può, fra i numerosi altri scritti, desumere da un articolo del maggio 1918 intitolato «Le direttive marxiste della nuova Internazionale». Malgrado le mutilazioni della censura bellica, questo articolo imposta chiaramente le questioni della conquista rivoluzionaria del potere, della condanna della democrazia parlamentare, e della centralizzazione dell'azione comunista.

Fino alla fine della guerra, malgrado la caleidoscopica rotazione tra i dirigenti e nella redazione dell'«Avanguardia», dovuta agli incessanti richiami alle armi dei militanti più giovani, il movimento giovanile si orienta con esplicite manifestazioni verso la futura battaglia tra l'ala sinistra del partita socialista e le forze residue tuttavia annidate nelle sue file, da cui dovrà essere sgombrato il terreno. Parlino, a conferma, le pagine da noi riprodotte nella seconda parte per il periodo 1917-18.

23. La grande riscossa proletaria postbellica: episodi a Napoli
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Nel corso logico della nostra esposizione, dovrebbe qui trovar posto la critica alle prime manifestazioni del partito socialista e del suo centro dopo la fine della guerra (4 novembre 1918) e la presentazione delle immediate prese di posizione dell'ala rivoluzionaria estrema.

Consideriamo tuttavia utile soffermarci, prima, su una serie di eventi che si prestano, nella loro rievocazione storica, a dare l'esatta formulazione dei rapporti tra movimento operaio sindacale e movimento politico socialista, problema che anche oggi ha peso non solo in dottrina, bensì nella nostra azione pratica, ma che i primi anni del dopoguerra in Italia (1919-1922) fecero vivere nella lotta storica più vibrante, con insegnamenti che non si possono dimenticare malgrado non tanto le sconfitte, quanto la posteriore gravissima degenerazione del movimento italiano e internazionale.

Uscendo dalle sofferenze di guerra la classe operaia fu subito assillata dal disagio economico acuito dal fatto stesso della smobilitazione dei lavoratori in casacca militare che ritornavano sul mercato della manodopera. La lotta economica sindacale, in cui il proletariato italiano aveva tradizioni poderose, si riaccese ovunque senza indugio, ma non sarebbe spiegabile la vivacità con la quale essa esplodeva se non si tenesse conto del fattore politico costituito dalla vivacissima opposizione che il proletariato tutto, anche più energicamente del suo partito, di cui abbiamo lumeggiato le incertezze e le esitazioni, aveva condotto contro la guerra, e dalla sua decisione di addebitarne le conseguenze alla classe dominante con uno slancio molto più vasto che non fosse la semplice rivendicazione di concessioni riformistiche alla scala immediata. Era, in verità, tutta la classe lavoratrice a sentire che si sarebbe posto in pieno, dileguato il fantasma bellico, l'ansito di mutare fin dalle basi il sottofondo sociale e le masse si trovarono di fatto sul terreno su cui, tra infinite difficoltà, si era saputa portare l'ala più decisa della sua organizzazione politica. Il loro moto fu spontaneo, intonato da un capo all'altro del paese, dalle città alle campagne, e la borghesia di tutti i gradi ebbe a tremare dell'avanzata che il proletariato iniziava.

Se, invece della sola storia della corrente di sinistra, qui si dovesse fare la storia della lotta di classe in Italia subito dopo la fine della prima guerra mondiale, immenso sarebbe il quadro da dipingere, tanto vasti, numerosi e frequenti furono i moti, impazienti e frequenti le conquiste, le ondate delle forze in contesa, il riaccendersi della battaglia dopo ogni pausa. Non si gridò solo: Pane o giustizia economica, ma si gridò: Abbasso la guerra, e rovina alla borghesia che l'ha voluta, in tutti gli episodi anche a sfondo ristretto, locale, o, come sguaiatamente dicono oggi, settoriale.

Possiamo introdurre questo argomento sul piano storico dei fatti, prendendo lo spunto da una pubblicazione dal tema ristretto, su «Napoli tra dopoguerra e fascismo», di R. Colapietra (Milano, Ist. Feltrinelli, 1962), che è più che altro un centone, ma ha utilmente attinto materiali dovunque, cosicché ve ne troviamo molti ben calzanti alla nostra tesi.

L'autore di detto libro ha soprattutto seguito le collezioni dei giornali di Napoli del tempo, ma fra le altre - di tutti i colori politici - è stato in possesso di quella del settimanale socialista «Il Soviet» che, come è noto, fu poi l'organo della Frazione Comunista Astensionista del partito, organizzata in molte parti d'Italia. Il settimanale uscì subito dopo la fine della guerra, e precisamente il 22 dicembre del 1918. Il vecchio settimanale della federazione era, come abbiamo avuto occasione di riferire, «Il Socialista», ma si era alla ricerca di un titolo più espressivo dell'adesione di tutto il movimento di Napoli alle tesi della tendenza rivoluzionaria, quando tra gli applausi generali un compagno (che non fu poi della frazione estrema) esclamò: «Come esitare?: Il Soviet!».

Precedentemente alla storia del tempo di guerra, abbiamo già parlato del movimento socialista a Napoli, e della vivacissima lotta nel suo seno contro la grave magagna della corrente ultraopportunista dei «bloccardi» e filomassoni. Questi erano stati battuti al congresso di Ancona nel 1914; ma, come abbiamo notato, il blocco del quale facevano parte i socialisti fuorusciti dal partito aveva vinto clamorosamente le elezioni comunali contro «il fascio» dei clericomoderati, e non è il caso di tornare sulla sua complessa storia di guerra e la divisione della sua frazione «socialista» in interventisti e rari neutralisti. Il volume di cui ci avvaliamo ricorda anche quei precedenti, e in nota cita un articolo del nostro «Soviet» dal titolo: «Il degenere socialismo bloccardo», apparso nel numero inaugurale. Ringraziando della citazione, la ricopiamo:

«Si lasciò credere che il socialismo si compendii nella buona amministrazione di un comune o di una provincia; nella soluzione di mille piccoli problemi concreti, nella difesa dell'onestà misurata alla stregua del codice borghese, e nella lotta contro i ladri. Questa mania delle questioni morali [qui il peregrino storico di oggi mette un sic, quasi a mostrare il suo stupore che ogni questione morale non sia ineccepibile!] condusse ad accreditare il metodo della collaborazione con i borghesi onesti, quasi che questi non fossero sfruttatori parimenti autentici del proletariato... Un tratto caratteristico della situazione napoletana fu però sempre questo: che, mentre altrove i riformisti non fecero mai mistero della loro tendenza, qui da noi la transigenza più sfacciata non si scompagnò mai dalla messa in scena rivoluzionaria per tutto quanto riguardava la esuberanza esteriore del temperamento e del gesto... Il blocco partenopeo ha dunque per noi il valore di un istruttivo episodio».

Ed infatti la tregenda opportunista a Napoli prima della guerra servì alla lotta fino al 1914 per ricondurre il partito socialista su posizioni di classe che ne evitarono la totale rovina quando la seconda Internazionale si dissolse nel socialsciovinismo; e gli esempi ricordati in questo passo vecchio di 45 anni possono servire a guardarsi dai buffoncelli, che ogni tanto riaffiorano, di tipo «falso sinistro», mentre la giusta impostazione del problema sindacale in una fase di fervida attività quale fu per l'Italia il 1919 riesce utile ancor oggi per liquidare alcune deviazioni dal marxismo così come, allora, la giusta via fu trovata facendo tesoro delle lotte precedenti contro il sindacalismo apartitico e «immediatista».

Nella cronistoria di cui ci serviamo come utile lavoro di testimonianza documentale è notevole rilevare che l'autore, palesemente un tipo «centrista» e «antisinistro» - e, appunto perciò, storico non «sospetto» –, pur facendo posto a riferimenti alla critica mossa allora e dopo al movimento del «Soviet» e della sinistra (che alcuni sciocchi amano chiamare napoletana) come incapace di uscire dalla astratta teoria per avvicinarsi alle masse in movimento, riconosce tuttavia che quel moto nel 1919 dette vita ad «un massiccio schieramento sindacale», anzi lo definisce sua opera esclusiva. Egli ricorda che la sede del «Soviet» era alla Camera del lavoro (più esattamente presso la Federazione metallurgica, attorno a cui sorse la Camera confederale sulle rovine della sindacalista e bloccarda «Borsa del Lavoro») e passa in rassegna le leghe di mestiere e i nomi dei loro organizzatori, che politicamente stavano appunto intorno al forte gruppo politico del «Soviet». Fu quindi del tutto naturale l'accettazione in Italia e nelle file più rivoluzionarie della giusta tattica sindacale dei russi e di Lenin (con cui non si aveva ancora nessun legame), secondo la quale si doveva lavorare nella Confederazione e non scinderla, anche se era diretta da riformisti e se la parte tecnica degli scioperi era tenuta in mano dai Buozzi e Colombino, coi quali nel partito ogni giorno si colluttava.

Il nostro narratore non manca, è vero, di far colpa al gruppo del «Soviet» della sconfitta sindacale del memorabile sciopero metallurgico della primavera 1919, senza vedere che la tradizione di quei 50 giorni di lotta accanita resta una pagina gloriosa ed una conferma di tutto quanto la sinistra comunista sosteneva circa la necessità della scissione del partito e della fondazione del partito comunista per cui si lottò fino a Livorno 1921.

Ma a noi premeva qui di citare il riferimento alla vasta attività che il gruppo del «Soviet», mentre si poneva all'avanguardia del partito rivoluzionario, condusse dal primo giorno nel campo della lotta economica proletaria. Il Colapietra fa una sua critica del metodo della sinistra, dicendo da un lato giustamente che per essa si tende a disporre di un partito severamente selezionato che faccia da avanguardia e da stato maggiore della rivoluzione, ma dall'altro obiettando che non si chiarisce come si faccia a fare la rivoluzione. È vero: ancora oggi ammettiamo di non possedere una ricetta per farla, anzi nemmeno per costruire un tale partito; è giusto che la rivoluzione è un risultato della crisi del sistema capitalistico e «l'importante è che questo risultato non colga impreparato il partito politico». Sta di fatto che, nel primo dopoguerra, il partito era impreparato e dopo la seconda guerra era addirittura scomparso, o agente in senso controrivoluzionario. Se questo prova che i sinistri erano fessi, ebbene preferiamo accettare questo aggettivo piuttosto che metterci anche noi a caccia di ricette (primissima il riconoscere i propri errori) per acciuffare il successo che ci ha volto le spalle.

Il signor Colapietra ci vorrà scusare se lo prendiamo come testimonio storico e lo lasciamo da ora in poi andare come critico. Gli dobbiamo però ulteriore ringraziamento per altra citazione, sempre dal primo numero del «Soviet». Essa vale a stabilire la nostra posizione contro quella di Bombacci per l'assemblea costituente, che già i bolscevichi avevano da tempo giustiziata. Ecco il passo:
«
La rivoluzione socialista si realizzerà quando il potere politico sarà nelle mani dei lavoratori, non solo perché i lavoratori sono la maggioranza ma perché alla minoranza borghese verrà tolta ogni ingerenza nella formazione degli organi del potere».

Il testo narra poi di un vasto convegno meridionale cui lo stesso Bombacci intervenne. I compagni del «Soviet» presentano (29 dicembre 1918) un ordine del giorno - sul quale torneremo più avanti - per l'astensione assoluta dalle lotte elettorali; esso, malgrado i pochi che appoggiano Bombacci, passa all'unanimità meno la sola sezione di Avellino. Segue nel «Soviet» una serie di articoli dai titoli: «Equivoci ed insidie del riformismo»; «L'illusione elezionista»; «L'inutilità del Parlamento». Il 17 marzo 1919 la sezione di Napoli prende decisa posizione perché un congresso del partito deliberi l'astensione dalla lotta elettorale per consacrare tutte le sue forze alla propaganda. Il nostro testo dice che la formula è debole, ma ne dà una spiegazione non malvagia. Era prevedibile che la nuova prassi astensionista sollevasse le obiezioni di anarchismo, di sindacalismo, di economicismo. Vi era la polemica del periodico confederale ultradestro «Battaglie sindacali», e al solito la Confederazione tentava di sopraffare il partito. Ma il gruppo del «Soviet», se è contro le elezioni, é per la politicizzazione e per il potenziamento del partito. E qui un'altra utile citazione:
«
Abbattere il potere borghese non si può senza abbattere i suoi organi, tra cui primissimo l'assemblea legislativa. Tra conquista rivoluzionaria del potere da parte del proletariato, mediante l'azione del suo organismo politico, che è il partito socialista, e funzione elettorale, vi è irriducibile antitesi: l'una esclude l'altra».

Non siamo al punto della storia della frazione astensionista, ma quello che ora ci preme mostrare è che i sinistri e astensionisti erano in prima fila nella lotta sindacale sulla migliore linea marxista e anche «leninista». Rileviamo solo un altro dato sulla questione delle elezioni: congresso regionale socialista del 20 aprile 1919, che richiamò la generale attenzione della stampa borghese (compiaciuta, secondo il nostro bravo cronista): 274 per la mozione astensionista, 81 per l'ordine del giorno puro e semplice, 58 astenuti.

Più interessante è che il nostro autore colleghi l'ostilità del «Soviet» verso gli economisti (o sindacalisti riformisti) di «Battaglie sindacali» ad un rilievo sagace sul dissenso, già da allora chiaro, con l'«Ordine Nuovo» di Torino. (Altra volta abbiamo ricordato e ricorderemo ancora il molto riservato «saluto» del «Soviet» all'uscita dell'«Ordine Nuovo» e il monito contro la mania dei «problemi concreti», antica Circe del riformismo peggiore). Ma ecco un'altra buona citazione:
«
Il Sovietismo non é un guazzabuglio di sindacati. - dice il «Soviet» del 15 aprile 1919 - Nel periodo rivoluzionario e nell'assetto comunista, il sindacato ha la sua parte, tutt'altro che preminente; ma il carattere dell'organismo è politico... Lo svolgimento rivoluzionario scarta le vedute dell'operaismo riformista come del sindacalismo. Ed affida all'azione politica della classe operaia la prassi della rivoluzione».

In quel tempo in Italia pochi avevano capito che cosa fossero i Soviet russi; o li scambiavano per una nuova formula miracolosa di organizzazione, ricadendo nel vieto errore circolante ancor oggi in certi fogliucoli immediatisti di credere che la lotta di classe sia fatto economico e non politico.

Noi stiamo qui mostrando con una serie di fatti della cronaca storica, che è utile ci vengano da altri testimoniati, alcune estreme tesi dialettiche che nella formulazione teorica possono non riuscire subito digeribili: Partito più rivoluzionario del sindacato. Partito politico più vicino alla classe che il sindacato. Partito vero organo della dittatura del proletariato, e non il sindacato, o altro organismo economico, e non il Soviet, che potrebbe cadere in preda agli opportunisti piccolo borghesi, e allora gli si dovrebbe negare il potere (Lenin).

Scissione dei partiti socialisti tradizionali per formare il partito comunista atto alla dittatura. E - in tutta coerenza - lavoro nei sindacati in ogni situazione come primo dovere del partito. Non postulato di scindere i sindacati, ma lavoro anche in quelli dominati da riformisti e traditori. Partecipazione attiva agli scioperi, parlando ogni giorno alle masse di politica, di presa del potere, di dittatura, di abbattimento del parlamentarismo borghese. In questo, Lenin non dissentì da noi, solo che voleva farci lavorare nel Parlamento per mandare alla rovina il Parlamento. Dicemmo a Lenin che non lo capivamo: se ciò dipese dal fatto che eravamo fessi, ebbene venga fuori non chi lo ha capito, ma chi lo ha fatto ed applicato, e ci mostri questi Parlamenti fatti a brandelli!

Seguiremo per poco la nostra fonte per mostrare che le relazioni dialettiche tra questo gruppo di proposizioni o tesi testé allineate camminano bene e calzano, coi signori fatti, a perfezione. Tuttavia ci piace un'altra citazione dal «Soviet» in tema, ci si perdoni, di politica pura. Scrive un compagno ancora nostro decano, e ciò vale a mostrare da quanto tempo detestiamo cordialmente il più fetido dei capitalismi, quello degli Stati Uniti. La stampa del 1919 già soffiava sul fuoco di una rivalità tra Italia e Jugoslavia, come del resto in questo più recente dopoguerra fecero persino i «comunisti» filorussi, all'ultima ora poi in fase di amori con Belgrado. Ecco il passo:
«
La questione adriatica non è se non un conflitto d'appetiti tra la borghesia italiana e quella jugoslava... Per noi la questione nazionale non ha alcun significato e alcuna importanza... Il proletariato non doveva interessarsi di questo individuo [il Presidente americano Wilson] se non in quanto egli fosse, quale autentico rappresentante della più autentica borghesia, un avversario da combattere e per giunta un avversario pericoloso».

Parole che possono suonare come un ceffone sul viso dei semigiovani e semivecchi che nella seconda guerra idolatrarono la capitalista America, poi la vituperarono, e a poco a poco si avviano a fraternizzare degnamente con essa fino a uno schiocco di baci tra i «K. K.», presto trasmesso via Telstar o per «filo diretto».

Ma veniamo ai grandi scioperi. In una prima grande prova di forza dei metallurgici dal 18 gennaio al 2 marzo gli industriali avevano dovuto capitolare, con qualche vantaggio materiale per gli stramalpagati operai napoletani. Ma sono da rilevare gli episodi politici.

Il 23 gennaio una grande assemblea al teatro San Ferdinando commemora i morti proletari in guerra. Gli oratori del «Soviet» propongono un voto per la repubblica socialista e la dittatura del proletariato. La folla acclama, e, riversatasi per le strade, si scontra con la polizia. A Torre Annunziata scoppia lo sciopero generale; a Napoli un comizio di protesta riunisce 15 mila metallurgici. La stampa borghese sprizza veleno; i padroni il 10 marzo attuano la serrata, ma l'11, dopo uno dei colossali comizi nella vecchia piazza di Santo Aniello, Buozzi va dal prefetto e la serrata è rimangiata.

Nel maggio del 1919 il colossale nuovo sciopero di 40.000 metallurgici si inizia dall'ILVA di Pozzuoli, e le richieste sono le solite: minimi salariali, regolamenti interni, ritiro dei licenziamenti.

Il 19 maggio viene Buozzi, ma la massa lo fischia. Riparte per Roma e firma un compromesso con l'ILVA. Il 29 maggio altro immenso comizio a Sant'Aniello. Su proposta di quelli del «Soviet» il compromesso Buozzi è respinto. Il 2 giugno i metallurgici in quattro grandi comizi votano lo sciopero generale, ma la Camera del lavoro lo sospende perché la ditta Armstrong si dichiara disposta a trattare. Nel referendum sulla prosecuzione dello sciopero, su 13.000 votanti solo una cinquantina votano contro!

Il 12 giugno, in una situazione sfavorevole per le condizioni di crisi dell'industria che mancava di carbone e minerali di ferro, dopo 45 glomi di lotta all'ILVA, 36 di tutti i metallurgici, 6 di sciopero generale e dopo che, come di norma, i deputati opportunisti, prima fischiati via, erano potuti comparire nei comizi ad offrire la loro mediazione, Buozzi doveva sudare sette camicie per rendere meno rovinoso il concordato. I giornali borghesi potevano ironizzare sui tre milioni di giornate perdute, ma gli operai non rimasero avviliti, perché si convinsero maggiormente che la lotta doveva divenire generale e politica. Vi furono per il crescente carovita moti e disordini a Napoli e centri vicini (come in tutta Italia) nel mese di luglio. Il moto fu violento ma disordinato, e gli opportunisti tentarono di prenderlo in mano; il 13 luglio cercarono di strapparci la Camera del Lavoro, ma furono battuti con soli 436 voti contro 5.687 ai socialisti.

Il nostro cronista trova vano in questa fase un commento del «Soviet»:
«
La soluzione della attuale gravissima crisi economica non può essere data dai presenti istituti politici, ma soltanto e direttamente dalla classe lavoratrice mediante la presa del potere politico».
Questo sarebbe vaneggiare astensionistico! Frattanto lo sciopero pro Russia del 20 e 21 luglio 1919 aveva in tutta Italia ed Europa non molto successo, e non è strano che noi sinistri ne deducessimo che il proletariato aveva bisogno di un ben più maturo organo di direzione; il che voleva dire chiedere la scissione del partito socialista.

Si va frattanto verso il congresso socialista di Bologna dell'ottobre 1919, del quale dovremo trattare molto espressamente. Il congresso regionale di Napoli si tenne il 14 settembre. Gli astensionisti vinsero, ma il nostro testo si compiace di dire che vi fu una fortissima opposizione (non dà le cifre) ed è molto zelante nel cercar di mostrare che nel «Soviet» non si parlava di scissione del partito, ma solo di astensionismo. Proveremo che non è vero (lo sapeva per conoscenza diretta del periodico persino Lenin) ma non possiamo non cogliere questa preziosa ammissione: quella fortissima opposizione che si dichiarò «elezionista», per battersi contro noi del «Soviet» aveva accettato la pregiudiziale di «proporre al congresso l'incompatibilità col partito di coloro che negano l'uso della violenza e la dittatura proletaria». Come in altro punto proveremo, la frazione astensionista a Bologna dette alla scissione del partito importanza anche maggiore della tattica astensionista; ma i famosi «massimalisti elezionisti» da questo orecchio non ci vollero sentire («Ordine Nuovo» incluso).

Una tesi preferita dal raccoglitore di tutti questi testi é che il gruppo del «Soviet» in materia di tattica non accumulasse che errori marchiani, ma che le sue enunciazioni mostrassero una giusta e potente visione storica. Possono forse i fessi avere una profetica visione del futuro storico? Se così è abbiamo trovato un'altra ragione per star bene schierati tra i fessi.

Comunque ci serviremo di una citazione ancora. Il 4 gennaio 1920, a breve distanza dalle elezioni generali e dalla apparizione sulle scene del nuovo partito popolare (prima cattolico o clericale, poi democrazia cristiana), il «Soviet» scrive:
«
Il potere potrà passare nelle mani di un vasto partito o aggregato social-riformista, formato, più che dagli avanzi impotenti del partito radicale e del socialismo autonomo, dal partito popolare - che è una nuova democrazia lontana le mille miglia dal programma antidiluviano di una restaurazione teocratica - e da una parte delle forze inquadrate proprio dal nostro partito. Questo è l'avversario di domani».

Il testo di cronaca attribuisce un alto senso storico agli scrittori del «Soviet», e rileva pure che l'accenno a «una parte del nostro partito» si può riferire al gruppo «Ordine Nuovo»; ma non è suo il raffronto che ora tentiamo. Non vi è in quel giudizio di 43 anni fa sul partito cattolico una profezia della vergogna di questo 1963, della politica della «apertura a sinistra» in cui convergono democristiani, socialisti riformisti, e parti degenerate del movimento comunista del primo dopoguerra?

Il cronista riporta pure in che criticavamo l'«Ordine Nuovo»:
«
Sostenere che i consigli operai, prima ancora della caduta della borghesia, siano già organi, non solo di lotta politica, ma di allestimento economico-tecnico del sistema comunista, è un puro e semplice ritorno al gradualismo socialista. Questo, si chiami riformismo o sindacalismo, é definito dall'errore che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico».

D'altra parte:
«
Solo fino a un certo punto si può vedere il germe dei Soviet nelle commissioni interne di fabbrica. O meglio, noi pensiamo che queste siano destinate a germinare i consigli di fabbrica incaricati di attribuzioni tecniche e disciplinari durante e dopo la socializzazione della fabbrica stessa, restando chiaro che il Soviet politico cittadino potrà essere eletto dove tornerà più comodo e probabilmente in riunioni non diverse dagli attuali seggi elettorali».

I passi sono citati a proposito della polemica con Misiano. Questi ci interessa nella fattispecie solo in quanto, reduce dalla Germania, aveva portato le notizie della scissione tra partito comunista e partito comunista operaio, e la condanna di Lenin a quest'ultimo, che non voleva né le elezioni al Parlamento né il lavoro nei sindacati «gialli». Noi sinistri chiarimmo che i due punti non avevano lo stesso peso, e il tedesco K.A.P.D, sbagliava nella questione sindacale contro i principi marxisti. Non era quindi giusto che Misiano e nemmeno Lenin affiancassero noi sinistri italiani coi kaapedisti e coi tribunisti olandesi. Qui il nostro narratore é efficace. Misiano enuncia quello che (a suo dire) è un postulato fondamentale:
«
La tattica varia a seconda delle contingenti peculiari situazioni».
E il «Soviet» scatta:
«
Tale è stato l'errore della seconda internazionale, ma non deve esserlo della terza. Per i comunisti, principi e tattica formano tutt'uno».

Oggi, 1963, non è difficile tirare le somme. La terza Internazionale ha fatto la fine della seconda. Con ciò non esauriamo il tema di tattica e principi, che abbiamo spesso ampiamente svolto. Il partito deve impegnare tutti i suoi membri tanto alle tesi di principio quanto a quelle di tattica, e né le une né le altre debbono essere improvvisate sotto il pretesto di nuove svolte.

Dato che di Russia, Germania e III Internazionale molto dovremo dire, converrà qui tornare a Napoli con qualche altro episodio che lumeggi le dinamica dell'azione sindacale comunista. Prendiamo atto di altro complimento alla solidità dello sguardo storico della sinistra, dalla citazione:
«In
Italia la tradizione parlamentare è saldamente costituita da molto tempo e radicata nelle coscienze e nelle abitudini dello stesso proletariato, a differenza della Russia dove è stato possibile convocare elezioni per la Costituente e sciogliere quest'ultima con la forza. Qui da noi la preparazione deve essere assai più lunga e complessa».
Era una relazione a Mosca, e mancava alla data del 1920 quest'altra buona ragione: nemmeno un ventennio di Mussolini ha sradicato il vizio fetente dell'elezionismo...

Nuovi moti sindacali si ebbero nel principio del 1920. Alle officine Miani e Silvestri il 24 marzo 1920 corse il sangue per espellere gli operai che tenevano in possesso la fabbrica avendo inalberata la bandiera rossa. Con un vile stratagemma, dopo di aver lasciato passare dei parlamentari con salvacondotto e una barella con un ferito grave, i carabinieri irruppero e portarono fuori di peso i ribelli tra cordoni di soldati dietro i quali imprecavano, trattenute dalle baionette, le donne proletarie. La sera alla Camera del Lavoro si fremeva di sdegno. Il nostro cronista deride come dottrinario e inopportuno un ordine del giorno dei sinistri giovanili e adulti, perché diceva:
«
Auspichiamo prossima la conquista degli strumenti di produzione da parte del proletariato attraverso la conquista della sua dittatura politica ed il sistema Soviettista».
Ma non era questa la lezione del tragico fatto, la illusione di prendere la fabbrica senza aver preso, per spezzarlo, lo Stato dei carabinieri e dei soldati ai servizio della tirannia padronale?

Il vero episodio di quella sera fu un altro, e chiude bene il nostro tema del come il partito agisce nel sindacato. La massa di migliaia di lavoratori urlava: Sciopero generale! Si obiettò che non erano presenti i membri del Consiglio generale delle leghe e nemmeno della commissione esecutiva. E con ciò?, noi rispondemmo. Non ci sono forse i militanti rivoluzionari membri del partito socialista? Non siamo qui operai di tutte le categorie e di tutte le fabbriche? Decidiamo lo sciopero e distribuiamo i nostri picchetti.

La mattina dopo, sia pure con una non completa costituzionalità, Napoli era tutta ferma!

Dottrinarismo, o metodo pratico di combattere ponendo il partito al suo posto: alla testa del proletariato?

Erano passati trent'anni, e allo stesso luogo dove allora fummo di picchetto chiedemmo a un ferroviere: Oggi scioperate? Quello alzò le braccia: Si attendono disposizioni, disse. Frase degna del tempo fascista, e del fatto che il fascismo, col «nuovo risorgimento» dei rinnegati, si è consolidato al potere.

24. Scoppia il «dopoguerra italiano»
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Chiusa questa che possiamo chiamare non digressione, ma anticipazione non inutile, veniamo al tema del dopoguerra in Italia.

Alla data «fatidica» del 4 novembre 1918, veniva firmato l'armistizio con l'Austria e le ostilità cessavano sul fronte italiano.

Ovviamente, per vari mesi le bardature di guerra restarono in piedi, e tra esse la censura politico-militare sulla stampa; tuttavia il movimento della classe operaia e del suo partito socialista, che già si era dovuto occupare secondo le sue possibilità delle prospettive del dopoguerra e dei famosi problemi della pace, entrò subito in fervida attività, pur mostrando non lievi incertezze e contraddizioni. La nostra corrente dell'estrema sinistra del partito aveva sui compiti di quell'ora vedute ben nette e chiare e le aveva in ogni occasione (si ripensi a quanto riferito sul convegno di Roma del febbraio 1917) svolte e contrapposte a tutte le posizioni banali per cui la data della pace era solo quella di una grande gioia e di una grande festa. Di feste in feste del genere fino a quella della caduta del fascismo è intessuto il cammino della presente rovina e vergogna del proletariato italiano.

Certo le piazze tripudiarono nei primi di novembre, e non in quanto si inneggiasse alla vittoria nazionale borghese, ma in quanto noi proletari e socialisti scendemmo nelle piazze illuminate per guardare sul viso ai fautori e beneficiari della guerra che l'ora della resa dei conti era suonata.

La destra nazionalista e borghese ricambiava il nostro odio e temeva di noi, anche se per un momento tacque la sua insolenza. Due forze nemiche, due armate di classe, si misuravano per la guerra sociale che tutti sentivano incombere. Per i rivoluzionari non da burla, non si trattava di tripudiare e deridere l'avversario, ma di ben studiare e valutare i colpi da vibrargli nell'intento di lasciarlo al suolo finito, come egli augurava a noi.

Questo non è certo un pesante diario, ma la prima data e nota che abbiamo sott'occhio è una mossa del campo nemico, e una meritevole risposta del nostro, di critica che andremo svolgendo per tutto il corso; critica che non è postuma e comoda a tanti anni di distanza, ma che riferiremo come nel vivo di quegli eventi l'andavamo formulando.

13 novembre del 1918. Gli antisocialisti, ossia i fautori dell'intervento e della guerra, che avevano in date fasi tremato della sconfitta, ma che ora non potevano rinunziare allo sfruttamento del successo, organizzarono una campagna contro certe amministrazioni locali di colore socialista, quali i comuni di Milano e di Bologna. Il lettore che ha seguito il nostro racconto sommario ma sicuro, ricorderà che quegli organi erano nelle mani della destra del partito; che non avevano peccato di eccessivo antibellicismo, e che noi più volte li avevamo rampognati per aver usato indulgenza e perfino steso mano amica alla borghesia nel lenire le sue ferite di guerra, e peggio l'esasperazione delle ferite che la sua guerra aveva recato alle carni proletarie.

Ma la borghesia dominante e politicante, specie quando è partita in campagna per la democrazia mondiale, non sa che cosa sia gratitudine, ed avrebbe volentieri stritolato i suoi ingenui servitori.

Essa covava già le incursioni, le spedizioni punitive alla stampa, agli organi e alle sedi rosse, ed eravamo pochi allora a dire che il solo rimedio alle sue malvagie brame era non l'invocare libertà ma il preparare noi spedizioni punitive ed incursioni in armi per prostrarla al suolo: e non per vendicare seicentomila proletari trucidati nella guerra, ma per salvare le generazioni e l'umanità future da altre guerre capitalistiche. La rivoluzione è un mezzo serio; la vendetta un fine stolto.

È un Manifesto, quello che citiamo, lanciato dopo le dimostrazioni operaie contro gli interventisti che ci avevano «provocato» con la campagna contro i comuni socialisti. Naturalmente, già in quelle prime manifestazioni fu facile alla stampa gialla cominciare la denunzia delle nostre provocazioni: infatti, quando le masse che protestavano incontravano giovani patrioti che esibivano il distintivo di guerra, e magari qualche medaglia, erano fischi e sberleffi, e qualche buon calloso ceffone trovava la guancia di eroi veri o fasulli. Cominciò la stupida storia di chi aveva provocato; e non è ancora chiusa. La tattica marxista in materia è limpida: meglio essere i provocatori che i provocati.

Il manifesto è firmato da Caldara sindaco di Milano, Mariani per la Camera del lavoro, Interlenghi per la sezione socialista, Repossi per la Direzione del partito, d'Aragona per la Confederazione, Turati ed altri per il Gruppo parlamentare. Il breve prologo fa appello alle forme civili di lotta (ossia a quelle che rinnegano la guerra civile, che si doveva essere ansiosi di surrogare alla guerra militare); fa invito alla «serietà, consapevolezza e forza organizzata» fuori da «inutili violenze», e, mentre saluta i primi sintomi di sviluppo dei «germi gettati in mezzo secolo dai maestri del socialismo», riecheggia i temi della propaganda intesista parlando del crollo in Europa delle «sopravvivenze imperiali, feudali, autoritarie e reazionarie».

Ma già le firme giustificano una nostra critica di base, fatta prima, durante e dopo la guerra. È il partito, e il partito solo, che deve condurre questi atti di lotta politica: onorevoli e bonzi confederali devono non dare ma ricevere consegne di azione.

Comunque, il testo che abbiamo non è puramente difensivo nel senso piagnone; anzi, è il primo tentativo di redigere un elenco dì conquiste per cui il proletariato, finita la guerra, è invitato a lottare.

In qualche ulteriore documento che subito vedremo, si tenta di classificare le rivendicazioni tra «massime» e «minime», pur non sapendo dir bene quali siano «immediate». Qui troviamo formule che vogliono esser di principio, e sono improprie, come: «a chi lavora il frutto integrale del suo lavoro» - altre di carattere contingente post-bellico come: restaurazione di tutte le libertà; abolizione della censura, amnistia - altre pacifiste: disarmo totale e permanente, autodecisione dei popoli, ritiro delle spedizioni contro la Russia, soppressione delle barriere doganali - altre di economia interna molto vaghe, come controllo operaio sulle fabbriche, terra e lavori pubblici affidati a cooperative - di politica interna non poco confuse: abolizione di ogni potere arbitrario nella direzione suprema dello Stato (la monarchia?), suffragio universale, ecc. Non elenchiamo in ordine, e facciamo grazia delle otto ore, della imposta progressiva, della confisca dei profitti bellici.

Non si pensò ad una formula semplice: alla guerra segue uno scontro tra le forze politiche borghesi e proletarie - da questo scontro si uscirà bene se si organizzerà la lotta violenta, senza dimenticare che la sola difensiva è l'offensiva. Il guazzabuglio in queste cose viene dal desiderio di conciliare formule che piacciano al buon rivoluzionario di partito (a Milano non ne mancavano), al deputato e all'organizzatore destro. La prima entrave tra i piedi della classe operaia italiana era la falsa unità del partito, che qui non vanta nemmeno la sua totale opposizione alla recente guerra e alla concordia nazionale.

Alle manifestazioni del partito, sempre in sede ibrida, precede quella dell'occhiuta Confederazione del Lavoro. Questa infatti si riunisce in consiglio direttivo il 30 novembre. Non ci risulta l'invito o la presenza del partito o di altri suoi organi. Il cappello, prima di richiamarsi ai principi della lotta di classe e del socialismo internazionale, richiama… le larghe promesse fatte dalle classi dominanti al proletariato per indurlo al grave sacrificio, sicché la lotta di classe si riduce a un affitto di sangue proletario, che del resto la «nazione» aveva preteso come suo sacro diritto, e gratis. Indi, si invita il proletariato a vigilare e premere per ottenere un programma di immediate riforme. L'elenco non è diverso da quello di Milano: non si tratta dunque di rivoluzione, ma di riforme radicali e immediate.

In testa ve ne é una buona! Convocazione della Costituente!

Poi viene la famosa abolizione di ogni potere arbitrario, per dire questione istituzionale o repubblica; ma la parola repubblica era traditrice: socialista o borghese?

Alla disordinata elencazione che prima abbiamo esposto, si aggiunge un accapo davvero brillante. In recente occasione abbiamo definito questa rivendicazione social-riformista del 1919 pari a quelle fasciste-hitleriane del 1922 e 1933, e kruscioviane del 1962. Uditela e deliziatevi:
«
Trasferimento, dal Parlamento ai corpi consultivi sindacali, debitamente trasformati, dei poteri deliberativi per la parte tecnica delle leggi sociali e relativi regolamenti».

In coda è un vecchio arnese dei programmi minimi anche di anteguerra: scuola laica al proletariato. Oggi, 1963, passati 45 anni, con l'apertura a sinistra facciamo un bel passo avanti: scuola al proletariato della democrazia cattolica.

Abbiamo quel po' po' di partiti progressivi al lavoro. E la Costituente ci ha già beneficati di un ordine moderno e civile, nonché miracoloso!

Pare che il manifesto di cui ora parleremo sia stato steso il 7 novembre, e quindi prima del testo appena esaminato. Ma si poté renderlo pubblico solo il 7 dicembre, e quindi dopo. Esso emana dalla Direzione del P.S.I. che si aggrega la Confederazione del Lavoro, il Gruppo parlamentare e la Lega delle Cooperative! La conclusione è davvero sconcertante.
«
La libertà è il presupposto per un dopoguerra che non sia di esclusivo (?) sfruttamento della classe padronale. Quelli che hanno sfruttato la guerra vogliono sfruttare la pace e tentano di accaparrarsi il dominio dello Stato...».
Infatti, tentavano di tenere quello che sempre avevano avuto.
«
Voi lavoratori non potete stare con le mani legate. Avete un programma immediato che le vostre organizzazioni hanno in precedenza preparato. In piedi dunque! La guerra è finita. Riprendiamo il lavoro».

Bene. Il partito mette il polverino a quello che le organizzazioni hanno fatto senza di lui. Non dice nemmeno che «il frutto del lavoro» debba avere una nuova destinazione, come quelle, sia pure vagamente, avevano detto.

È solo nell'«Avanti!» del 14 dicembre 1918 che si ha un resoconto, non ampio, della riunione della Direzione del partito nei giorni dal 7 all'11. Si deve tener conto che ancora vigeva la censura sulla stampa e vi è traccia di 11 righe censurate. Parte notevole della discussione si riferisce ai rapporti internazionali. Non appare soddisfacente quella riguardante i rapporti coi partiti della seconda Internazionale, come il francese, macchiato del più grave tradimento, e col Bureau International di Bruxelles, da tempo squalificato dai socialisti rivoluzionai non solo di Russia ma d'Italia. Sono invece notevoli la risoluta opposizione alla annessione all'Italia di territori dell'impero ex austriaco di nazionalità slava, e il resoconto di contatti con socialisti di quelle regioni per una comune protesta contro gli effetti del famigerato patto segreto di Londra sulla spartizione dell'Impero Austro-Ungarico in caso di vittoria. In questi primi tempi, il partito italiano rifiuta tali annessioni, allora reclamate dai nazionalisti estremi che poi si svolsero nel fascismo; ma non passerà molto tempo e avrà notorietà, in materia di atteggiamenti verso l'imminente congresso della Pace, la frase di Filippo Turati che respingeva la cosiddetta «pace cogliona». È qui un altro sintomo della frattura nel partito, se anche la Direzione in questi primi voti si mostra debole sul problema della ricostituzione dell'Internazionale quando si era a pochi mesi dal primo congresso della terza a Mosca, che Lenin aveva già annunziata nelle tesi d'aprile del 1917.

È quasi flebile l'ordine del giorno politico. Sembra che il suo obiettivo sia solo di adottare il programma «di azione politica immediata» per far proprie le rivendicazioni nelle quali il partito si è lasciato precedere dalle altre organizzazioni. A titolo di premessa a questo tema, si introduce la richiesta della Repubblica socialista e della Dittatura proletaria, precisandone, in modo per nulla felice, gli «scopi» in quattro punti, dai quali subito si ripassa agli altri quattro del programma immediato, o minimo che sia. Questa la prima voce ufficiale del decantato «massimalismo», parola non felice che anche noi in un primo tempo usammo nel senso che si considerava di essere in uno svolto storico in cui la lotta aveva per oggetto le conquiste massime, ossia la presa rivoluzionaria del potere, lasciando da parte le minime che potevano ottenersi anche dal potere borghese tradizionale prima della sua caduta.

È bene riportare il molto debole documento:
«
La Direzione, nel deliberare un programma di azione politica immediata, constata anzitutto come ormai gli elementi responsabili della presente situazione cerchino rifarsi la perduta reputazione cogliendo dal patrimonio delle rivendicazioni proletarie alcuni postulati più noti, che oggi ritiene non più sufficienti a soddisfare le ardenti aspirazioni del proletariato colpito dai mali della guerra e anelante all'emancipazione internazionale della propria classe, nonché a rispondere al dovere di solidarietà coi socialisti di Russia e di Germania;
dichiara quindi che il Partito Socialista, pronto a sostenere quelle rivendicazioni che le circostanze imporranno e saranno reclamate dalle organizzazioni proletarie, si propone come primo obiettivo l'istituzione della Repubblica Socialista e la Dittatura del proletariato coi seguenti scopi:
1) - Socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (terra, miniere, industria, ferrovie, piroscafi) con la gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri e marinai;
2) - Distribuzione dei prodotti eseguita esclusivamente dalla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali;
3) - Abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito all'unione di tutte le Repubbliche proletarie nell'Internazionale Socialista;
4) - Municipalizzazione delle abitazioni civili e del servizio ospedaliero; trasformazione della burocrazia, affidata alla gestione diretta degli impiegati
».

Ed ecco il programma immediato:
1. Immediata smobilitazione dell'esercito;
2. Ritiro immediato dei soldati dalla Russia rivoluzionaria;
3. Diritto delle libertà fondamentali della vita civile;
4. Amnistia per tutti i condannati per reati politici e militari.

Non è il caso di dedicare commenti ai quattro punti minimalisti, ma solo ai quattro indicati come «scopi» della dittatura proletaria.

Nel primo la «socializzazione», che è giusto porre dopo la conquista del potere, è presentata con formula non marxista ma corporativa e «immediatista», ossia come consegna dei mezzi di produzione in gestione alle categorie economiche, fino ai quasi farseschi ferrovieri e marinai. Vanamente da decenni e decenni Marx aveva indicato, perfino per i lavoratori della terra, il pericolo dei ricatti di una parte della società sulla società come un tutto.

Nel secondo punto si fa appello per la funzione di distribuzione ad enti già esistenti e nelle mani dei più volgari riformisti. Verrà più oltre la distinzione fra programmi economici immediati e finali della dittatura; per ora, la confusione delle idee è totale circa la successione di tempi dei programmi. In un programma massimo, è in primo luogo la dottrina che dev'essere salva, e va detto che, in un paese completamente borghesizzato, scopo della dittatura in materia dì distribuzione dei beni é l'abolizione del mercantilismo e del monetarismo. Tuttavia, la misura contingente potrebb'essere ammessa facendo salvo il controllo supremo del partito e dei consigli politici (Soviet) - di cui, come mostreremo, nulla o quasi si era ancora capito.

Il terzo punto comportava il problema della conquista internazionale del potere, in cui andava detto che la conquista dev'essere di tutti i paesi per passare in pieno alla socializzazione economica; ma, nelle fasi successive, prima del disarmo universale viene l'armamento militare del proletariato.

Il quarto punto nella prima parte è di un certo radicalismo per quanto riguarda la proprietà immobiliare urbana (tema non semplice), ma bambinesco addirittura in tema di riforma della burocrazia: la dittatura dei tipi in colletto duro e culo di cuoio, peste del tempo borghese!

Il partito, ufficialmente diretto dai rivoluzionari, finita la guerra parla tardi, e parla debole e stonato.

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. «Per una discussione esauriente», nell'«Avanti!» del 13-10-1917; cfr. nella seconda parte: testi 38 e 40. [back]

| Introduzione | Premessa + 1-5 | 6-10 | 11-15 | 16-20 | 21-24 | 25-29 |


Source: «Il Programma Comunista», da n. 11, 1961 a n. 3, 1963, apparso come libro nel «Edizioni il programma comunista», 1963, 1964 e riprodotto 1972.

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