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3–18 MARZO 1921 – KRONSTADT: UNA TRAGICA NECESSITÀ


Content:

3–18 marzo 1921 – Kronstadt: una tragica necessità
Premessa
La struttura delle classi nella Russia prerivoluzionaria
Le responsabilità del proletariato occidentale
La rivoluzione russa e la guerra civile
La Russia in rovina
La posizione strategica di Kronstadt
Il programma di Kronstadt
Il X Congresso del PCR e la battaglia di Kronstadt
Le lezioni di Kronstadt
Notes
Source


3–18 marzo 1921 – Kronstadt: una tragica necessità

Premessa

Si legge nello «Schema di programma del Partito Comunista Internazionalista; presentato dal C. C.» nel Novembre 1944:

«La Russia ha cessato di essere per il nostro partito il paese della prima grande realizzazione rivoluzionaria del proletariato mondiale, e rimane pagina aperta all’indagine critica del marxismo rivoluzionario, a cui è oggi affidato il compito di individuare e mettere a nudo le ragioni storiche d’ordine economico e politico, che sono state, in Russia, alla base della sconfitta del potere proletario e hanno operato come elemento determinante del dissolvimento delle forze politiche dell’internazionale Comunista. Dalla violenta repressione operata contro gli autentici rivoluzionari di Kronstadt fino alla liquidazione fisica di tutte le opposizioni alla politica nazionalista di Stalin, è evidente nello Stato operaio un ingrandire costante di questo curioso, paradossale equivoco: tutti vi operano per armare la rivoluzione contro ogni velleità di ritorno del capitalismo, e tutti, rivoluzionari o non, hanno contribuito di fatto ad armare le milizie della più spietata reazione antiproletaria che doveva strangolare la rivoluzione di Ottobre e, con essa, i suoi combattenti migliori. Per i marxisti, le cause di ciò non vanno ricercate in cielo ne risiedono nella perversità di alcuni uomini, ma vivevano nelle cose dello Stato proletario, alimentate dalla politica di compromesso portata dall’economia sul piano della stessa ideologia imperante all’epoca di Lenin e di Trotzky».

Che i militanti della Sinistra «italiana» sostenessero allora questa posizione dimostra quanto difficile sia per il movimento operaio assumere sulla questione Kronstadt un punto di vista corretto, e quanto traumatici siano stati i fatti ad esso connessi per i comunisti, occidentali in particolare. Soltanto la corretta interpretazione dei fatti russi ha permesso alla nostra corrente di afferrare il profondo significato del dramma di Kronstadt. In relazione ad esso, questo lavoro, che non pretende di essere esauriente, si pone l’obiettivo di ricordare i capisaldi dell’interpretazione marxista in materia di dittatura proletaria e di utilizzo della violenza da parte del partito comunista al potere. «Ripensare» Kronstadt, oggi, non è certamente facile. Per molti anni, l’episodio è stato definito come il risultato del carattere «repressivo-reazionario» del bolscevismo. Dobbiamo operare una distinzione nella ricerca dei «come» e dei «perché». Da una parte bisogna vedere che cosa questa rivolta rappresentava esattamente per il giovane potere sovietico, dall’altra (posta l’eventualità di episodi «à la Kronstadt») se sarebbe domani altrettanto necessaria una repressione di quel tipo. A volte la storia si ripete…

Non a caso i trotzkisti di Socialismo o Barbarie hanno pubblicato «Il libro rosso del socialismo» (come mai non del comunismo?) in cui, volendo «rispondere» a «Il libro nero del comunismo», cadono nell’antitotalitarismo, di moda tra i peggiori anticomunisti. Secondo Piero Neri

«Diciamo d’entrata che le violenze compiute dai bolscevichi documentate nel Libro nero sono in gran parte vere e note da tempo (…) Non sarebbe difficile contestare alcune fonti utilizzate dagli autori: per esempio, Werth utilizza i dati forniti a suo tempo dalla Commissione d’inchiesta sulle violenze bolsceviche istituita da Denikin, capo dei bianchi, che nessuno storico serio ha sinora considerato attendibili.» (p.199). (…) «Questa corrente (il bolscevismo, ndr) come vedremo, ha scelto e preso un percorso sbagliato, che ha condotto addirittura a crimini antisocialisti». (p. 200). (…) «La repressione operata dal potere bolscevico fu un’azione controrivoluzionaria, un vero e proprio crimine contro il socialismo, fatto da un partito in cui grande parte dei protagonisti dell’Ottobre rimaneva rivoluzionaria. Questo dramma suggellò tragicamente il 1921 come anno del crollo del bolscevismo come corrente politica» (p. 227).

Anni e anni dopo Kronstadt, gli anarchici e gli operaisti continuano a sostenere che questa rivolta fu un movimento autenticamente «socialista» o libertario, iniziatore di quella «terza rivoluzione» che «l’involuzione reazionaria bolscevica» aveva reso necessaria.

Occorre dunque chiedersi: è lecito ad una parte delle classe lavoratrice imporre la propria volontà al resto? In genere i riformisti e i rivoluzionari da burla rispondono categoricamente: no! Alcuni, più «estremisti», limitano questo diritto a quando si tratti della maggioranza contro la minoranza, rivelando tutta la loro impostazione democratoide. Il proletariato non è un corpo uniforme. Vi sono gli operai più sensibili alla propaganda comunista, quelli più sensibili a quella controrivoluzionaria, e, in mezzo, la gran massa degli incerti. La consistenza numerica delle frazioni varia con il variare delle fasi attraverso cui il proletariato è costretto a passare. Nei momenti rivoluzionari gli incerti si fanno guidare dalla minoranza politicamente più preparata. Sognare di conquistare fino all’ultimo proletario alla rivoluzione con i metodi della «discussione pacifica» e del «confronto democratico» delle idee, significa chiudere definitivamente la possibilità di distruggere il capitalismo. Simili teorie sono fatte proprie da sedicenti «marxisti» (ad es. la C.C.I.). quando affermano che in futuro mai e poi mai
«la violenza potrà servire come metodo o strumento all’interno della classe operaia» perché «essa non è un mezzo di presa di coscienza». (R.I., n. 6, 1976).

Trotzky ricorda molto bene, per esempio, ne «La mia vita», che alla vigilia della rivoluzione il boicottaggio delle telefoniste di Pietrogrado stava per mandare a monte i preparativi dell’insurrezione. La vista di un gruppo di marinai rivoluzionari con due piccoli cannoni appostati di fronte all’ingresso della centrale telefonica le fece desistere. Lo stesso Trotzky nella «Rivoluzione armata» ricorda che la difesa di Jevsk e Votkins nel novembre del '18 comportò la lotta armata e la repressione contro gli operai di quella città, alleatisi alla controrivoluzione. Erano operai? Sì! E allora, cosa si doveva fare? Discutere democraticamente? Non c’era il tempo! Ma anche oggi, per esempio, cosa pensare dì uno sciopero con relativo picchettaggio ed evacuazione e pestaggio dei crumiri? Che altro significa, se non che una parte degli operai impone la propria volontà al resto? A meno che non lo si voglia ammettere solo quando gli scioperanti siano almeno il …51 %! Per il marxismo, alla base della questione stanno solo ragioni di opportunità rivoluzionaria. Anche se inferiori alla metà numerica della classe, gli operai rivoluzionari possono e devono imporre la propria volontà a tutti gli altri, se ben decisi, organizzati, disciplinati, e dopo aver correttamente valutato ogni rischio.

La riesposizione critica dei fatti di Kronstadt ci permetterà di ribadire alcuni punti fondamentali della prassi rivoluzionaria: dittatura del proletariato e dunque dittatura del partito comunista, violenza, centralizzazione, disciplina, internazionalismo. Dice Trotzky nel lucidissimo pamphlet «La loro morale e la nostra»:

«Il mezzo non può essere giustificato che dal fine. Ma anche il fine abbisogna di una giustificazione. Dal punto di vista del marxismo, che esprime gli interessi storici del proletariato, il fine è giustificato se porta all’accrescimento del potere dell’uomo sulla natura e all’abolizione del potere dell’uomo sull’uomo… alla liberazione degli uomini. Questo fine non potendo essere raggiunto che attraverso vie rivoluzionarie, la morale emancipatrice del proletariato ha necessariamente un carattere rivoluzionario… Sono ammissibili e obbligatori solo quei mezzi che accrescono la coesione del proletariato, gli insufflano nell’anima un odio inestinguibile verso l’oppressione, gli insegnano a disprezzare la morale ufficiale e i suoi reggicoda democratici, lo compenetrano della consapevolezza della sua missione storica, aumentando il suo coraggio e la sua abnegazione. Di qui si ricava che non tutti i mezzi sono leciti. Quando noi diciamo che il fine giustifica i mezzi, ne risulta per noi che il grande fine rivoluzionario respinge, di tra i suoi mezzi, i procedimenti e i metodi di quegli indegni che spingono una parte della classe operaia contro le altre; o che tentano di fare la felicità delle masse senza il concorso di queste; o che sminuiscono la fiducia delle masse in se stesse e nella loro organizzazione, sostituendo l’adorazione dei ‹capi›».

Nella «Struttura» la sinistra ha ripreso e commentato un discorso di Trotzky del 1922 in difesa della NEP:

«La ragione economica non coincide sempre con la necessità politica. Se siamo minacciati in guerra dal pericolo d’essere sopraffatti dalle guardie bianche, io faccio saltare un ponte. Dal punto di vista politico è una necessità assoluta. E io sarei un pazzo e un traditore se non facessi saltare il ponte al momento opportuno». (E commentavamo:) «Distruggere ponti, strade, e ferrovie significa fare ulteriormente scendere il livello delle forze produttive. Per non parlare poi di bombardamenti, incendi ecc. di impianti produttivi che una guerra di quel genere comportò. Verso la fine del '20 la guerra civile appariva ormai vinta. La minaccia era comunque sempre presente, ma per ora tutti i nemici si dichiaravano sconfitti e cedevano. La reazione congiunta interna ed internazionale era costretta a retrocedere e a prendere tempo».(«Il Programma Comunista» N° 6–10–1966).

Ciò premesso, è indispensabile ricordare la situazione economico-sociale della Russia prima della rivoluzione, perché solo così si comprenderanno le cause determinanti dei fatti di Kronstadt.

La struttura delle classi nella Russia prerivoluzionaria

La principale debolezza del capitalismo in Russia stava nel suo compromesso con i vasti residui feudali delle campagne. C’era voluta la rivoluzione del 1905 perché i contadini cessassero di pagare i riscatti per la loro emancipazione del 1861. Di qui e dalla successiva riforma agraria del ministro Stolypin il capitalismo aveva avuto impulso anche nell’agricoltura. Ma il latifondo, in genere di origine nobiliare, che Stolypin del resto non intese toccare, era rimasto potente e diffuso, soprattutto nel cuore dell’impero, nelle «terre nere» del centro, lungo il Volga, nell’Ucraina a destra del Dnepr e in Bielorussia. In parte, ma solo in parte, esso si era avviato verso una trasformazione imprenditoriale analoga a quella che si era prodotta in Prussia. Alcuni latifondi costituivano cioè le maggiori concentrazioni di capitale che si trovavano nelle campagne. Gli altri si reggevano ancora sulla rendita fondiaria precapitalistica, ottenuta affittando la terra ai contadini, che ne avevano ben poca. Vi era verso i proprietari un afflusso di denaro, che veniva dal commercio del grano, dalla vendita di fondi, dai prestiti (il 60 % di tutta la terra privata nel 1915 risultava ipotecata). Spesso però quelle somme venivano sperperate. La riforma aveva invece ormai disgregato il Mir e la vecchia Obscina, la comunità contadina di villaggio, che distribuiva e periodicamente ridistruibiva la terra fra i contadini e che aveva costituito un tempo la base patriarcale dello zarismo, poggiante sull’ingenua fiducia nel sovrano come «protettore» contro i pomesciki (i grandi proprietari). Dal resto anche quella fiducia era stata ormai distrutta dagli eventi tempestosi dei primi anni del secolo. Lo stesso andava accadendo ora per la comunità rurale, la cui disgregazione era già cominciata nella seconda metà dell’Ottocento. Stolypin aveva incoraggiato i contadini a separarsi dal Mir, a divenire definitivamente proprietari delle terre. Una parte ne aveva approfittato, soprattutto negli anni 1908–1909, ma essa rappresentava soltanto il 21 % dei nuclei familiari inglobati nel Mir. Altri, avendo poca o nessuna terra, erano stati stimolati a insediarsi più a oriente, in Siberia: circa 4 milioni di persone si erano trasformate in coloni, ma abbandonate per lo più a se stesse e senza mezzi, avevano finito col non trovare una sorte migliore; molti – un milione circa – erano tornati indietro, nutrendo un rancore che aggravava le già esistenti tensioni sociali. Le iniziative di Stolypin avevano accelerato un processo di differenziazione, già in corso nei villaggi, e il consolidarsi di uno strato di contadini forti: rappresentante tipico ne era il famoso Kulak, Miroed o distruttore del Mir, piccolo capitalista primitivo, più usurario che imprenditore, il quale possedeva più terra e più mezzi per lavorarla, ma che proprio per questo era portato ad arricchirsi a spese degli altri contadini meno fortunati e che nello stesso tempo serbava un vecchio astio contro il Pomescik (costui aveva nel frattempo conservato i nove decimi delle sue proprietà, vendendo vantaggiosamente il resto). La trasformazione capitalista delle campagne avanzava: dava già la sua impronta ad alcune regioni, quali quelle del sud. I rapporti mercantili si moltiplicavano; si manifestava anche un’embrionale, ma diffusa, tendenza cooperativa. Tutto ciò inaspriva i rapporti agrari, senza annullarne l’arretratezza, senza distruggere i residui feudali, senza placare la fame di terra del contadino. Nella sterminata superficie russa si calcola che vi fossero 20 milioni di «uomini superflui», braccia che non avevano un vero impiego! L’agricoltura rimaneva debole, nonostante il suo peso nell’economia. Il paese esportava ingenti quantità di grano, ma le sue campagne erano piuttosto quelle di un paese importatore. La produzione aumentava soprattutto per i cereali destinati ai mercati esteri. Molto bassi erano i rendimenti medi della terra. I metodi di coltivazione erano arcaici, così come gli strumenti.

Non si usavano concimi, se non quelli naturali, che pure scarseggiavano perché assai debole era l’allevamento. Tale quadro presentava differenze da regione a regione, perché le condizioni storiche e naturali variavano molto da una parte all’altra del paese: si trovavano, certo, isole di maggiore progresso. Il bilancio d’assieme tuttavia non cambiava. Conviene a questo punto tentare un’analisi complessiva della struttura di classe della popolazione. Gli storici sovietici dicono che nel 1913, il 53,2 % era rappresentato da proletari o semiproletari, il 25,3 % da piccoli proprietari poveri, un 19 % da proprietari più agiati e il 2,5 % dalle classi alte (grande borghesia, pomesciki, alti burocrati). Tale suddivisione può essere confrontata con un’altra, fatta dall’accademico Neminov nel 1939 (sempre tenendo presente quel che di convenzionale e approssimato vi è in simile calcoli):

Classe operaia 14,8 % di cui: operai agricoli 3,5 %
Contadini e artigiani (senza Kulaki) 66,7 %  
Borghesia e Pomesciki 16,3 % di cui: Kulak 11,4 %
Intellettuali 2,2 %  

Gli operai industriali erano poco più di 3 milioni e mezzo, comprendendovi i minatori; vi era poi un milione di ferrovieri. Il resto, incluso il milione e mezzo che lavorava nell’edilizia, era spesso composto da una mano d’opera di scarsa qualifica, impiegata in minuscole imprese. Però la concentrazione della classe operaia era forte. Lo era nelle due principali città, Pietroburgo e Mosca, che erano anche i due massimi centri politici: ciò favoriva il formarsi di consapevolezza e sensibilità classiste.

Due erano le possibilità. La prima, la più favorevole, contemplava l’unione di quelle che Lenin chiamava le due metà spaiate del socialismo: da una parte la Russia, con un’attrezzatura inadatta per «costruire» il socialismo, ma politicamente già socialista, dall’altra la grande industria e la tecnica occidentali, specialmente tedesche, e un forte proletariato. La rivoluzione in occidente avrebbe permesso alla Russia di compiere un gigantesco balzo in avanti.

«La storia… ha seguito un cammino talmente originale da generare nel 1918 le due metà separate del socialismo, l’una accanto all’altra, proprio come due futuri pulcini sotto l’unica chioccia dell’imperialismo internazionale. La Germania e la Russia incarnano nel 1918, nel modo più evidente, la realizzazione materiale, da una parte, delle condizioni economiche, produttive e sociali, e dall’altra, delle condizioni politiche del socialismo. Una rivoluzione proletaria vittoriosa in Germania spezzerebbe subito, con enorme facilità, il guscio dell’imperialismo» (Lenin, O.C. Vol. VI, p. 444)

«Lenin non si limitava al potente scardinamento dell’opportunismo sul piano della dottrina, ma lo sottoponeva all’anatomia sociale. Egli collega quella deviazione fieramente stigmatizzata all’influenza in Russia del predominante elemento piccolo-borghese, e alla sua tendenza a passare dalla parte della controrivoluzione. Noi facciamo nostra la diagnosi di Lenin dei misteriosi fatti di Kronstadt. Lenin è un testimone principe, e Trotzky concorda con lui». («Struttura economica e sociale della Russia d’oggi»).

Le responsabilità del proletariato occidentale

Cos’era all’epoca di Ottobre, la classe operaia d’Occidente? Essa presentava ancora, da un paese all’altro, differenze notevoli dovute alla diversità delle condizioni storiche del suo sviluppo nazionale. Per esempio, la classe operaia tedesca portava nettamente inciso il marchio della socialdemocrazia, la classe operaia francese restava largamente aperta all’influenza del sindacalismo-rivoluzionario, mentre quella italiana aveva già superato, in misura considerevole, queste due deviazioni; invece la classe spagnola era sempre sottoposta alla cappa sterilizzante dell’anarchismo.

Di fronte al proletariato russo, il più avanzato proletariato occidentale presentava delle caratteristiche particolari: un certo attaccamento ai vantaggi materiali di una civiltà borghese più evoluta; l’assenza di una esperienza recente di lotte rivoluzionarie, almeno della statura del 1905 russo; una concezione borghese del suo posto nella società, dei suoi fini e dei mezzi di lotta per raggiungerli; un certo immediatismo sindacale; un certo corporativismo, come pure una tenace riverenza per i principi della Democrazia (dell’eguaglianza dei popoli in virtù del suffragio universale; del pacifismo internazionale in virtù della lotta parlamentare). Su un simile proletariato, quale influenza poteva esercitare l’esempio del proletariato russo che la rivoluzione aveva vittoriosamente diffuso? La sua abnegazione e il suo slancio rivoluzionario, il suo eroismo, il suo profondo internazionalismo, e la sua enorme esperienza di lotta? Adesso, non si tratta qui di scaricare sulle masse la responsabilità di errori che risalgono ai capi. Questi errori furono denunziati a tempo della Sinistra comunista, risolutamente estranea al vecchio mondo; qui si tratta semplicemente di dare, della finale sconfitta di una grande Rivoluzione, una spiegazione che non sia «indegna» del materialismo storico, perché il marxismo non è né alchimia, né astrologia.

A quell’epoca, nella classe operaia occidentale risiedeva, in ultima analisi, tutto il segreto del prossimo avvenire della Rivoluzione europea e quindi mondiale; poiché la storia, almeno agli occhi dei pedanti «socialisti», aveva avuto la sfrontatezza di mettere il proletariato cosiddetto «progredito» dei paesi di democrazia parlamentare alla scuola del proletariato «arretrato» di un paese autocratico e semi-feudale, tutto dipendeva evidentemente della capacità dell’allievo di eguagliare il maestro. Per provare questa capacità, era necessario che il proletariato occidentale ottenesse a sua volta una vittoria completa, impadronendosi del potere – cosa infinitamente più difficile nei grandi Stati imperialistici moderni che nel regime arciputrefatto di cui Rasputin era l’anima, e perfino nella Repubblica nata morta di un Kerenski; era necessario che il proletariato occidentale si lanciasse risolutamente su questa via, nella lotta politica non elettorale ma rivoluzionaria. Ora, a parte gli episodi gloriosi e tragici di Germania e di Ungheria, inconcludenti sotto tutti gli aspetti, se non in quello della dimostrazione del vero ruolo e dell’autentico significato controrivoluzionario della socialdemocrazia, è appunto questo che non avvenne; e questo spiega l’isolamento della rivoluzione russa a livello internazionale.

La Russia era martoriata; le sue ferite erano purtroppo molto vaste e dolorose. Lo spettacolo era desolante. Nessun popolo può sopportare tre anni di guerra, due rivoluzioni ed altri tre anni di guerra civile, senza arrivare alla fine esausto, stanco, sfiduciato all’opera della rivoluzione. Non si può comprendere in tutta la sua ampiezza la tragedia di Kronstadt, se anche per un solo momento si dimentica che il proletariato occidentale non seppe essere all’altezza dei suoi compiti. I nostri compagni bolscevichi si ritrovarono soli, isolati, ma ancora indomiti e tenacemente attaccati alla nostra teoria, nel compito supremo di mantenere le fondamenta del potere comunista in Russia aspettando i… «50 anni» di Trotzky. Commisero degli errori? Chiunque altro nelle loro condizioni ne avrebbe commessi di ben di più gravi. Solo dai comunisti occidentali e dallo stesso proletariato poteva venire loro il necessario aiuto e la correzione di rotta. Se si escludono le deboli forze della Sinistra comunista italiana, quell’aiuto non venne. La storia della Russia dalla fine del 1920 in poi, è la storia di una rivoluzione comunista non «pura» che tentava di organizzare le possibilità materiali della sua sopravvivenza all’interno dei confini «nazionali», finché dapprima lentamente, poi sempre più prepotentemente, gli interessi delle classi antagoniste non raggiunsero una tale ampiezza ed intensità da originare la controrivoluzione cui prestò la sua persona Stalin, con l’inevitabile soffocamento della vecchia guardia bolscevica, sostituita nel partito e nelle burocrazie da ex-menscevichi, e la conseguente sostituzione degli interessi generali della rivoluzione mondiale con gli interessi particolari del borghese stato russo

La sconfitta di Ottobre era implicita non nell’Ottobre, che ebbe la profonda «legittimità» storica di tutte le Grandi Rivoluzioni, ma nelle debolezze del movimento proletario di Occidente. La sconfitta del bolscevismo era implicita non nel bolscevismo, ma nell’isolamento tragico della classe operaia russa. L’arresto delle trasformazioni economico-sociali della rivoluzione russa alla fine della sua tappa democratico-borghese, prima di aver potuto soltanto cominciare la sua tappa socialista, era implicito non nel suo carattere di rivoluzione doppia, cioè democratica e socialista, imposto non dai bolscevichi ma dalla Storia, bensì nella natura internazionale della Rivoluzione socialista.

La rivoluzione russa e la guerra civile

Ottant’anni fa, dunque, la rivoluzione scoppiava nel paese più arretrato d’Europa, mentre ancora, nei paesi «civili», il massacro imperialista proseguiva.

Febbraio 1917: ai confini tra l’Occidente e l’Asia il secolare impero degli zar crolla sotto i colpi di un insurrezione popolare, una repubblica borghese nasce, vive nove mesi tempestosi, e crolla a sua volta, abbattuta da una nuova insurrezione. Ottobre 1917. Incredula e sbigottita, la società borghese apprende che una Repubblica dei Consigli operai e contadini, diretta da comunisti è stata instaurata in Russia; e, a tutta prima, la portata degli avvenimenti «confusi» che si svolgono in quel paese «remoto» e considerato «semi-barbaro» le sfugge. Essa attende da un giorno all’altro la fine dell’«avventura» dei comunisti russi. Non ha capito che il «colpo di Stato bolscevico» è in realtà una grande rivoluzione, la prima delle rivoluzioni socialiste del mondo, e nello stesso tempo l’ultima delle rivoluzioni antifeudali d’Europa.

Il trattato di Brest-Litovsk firmato il 3 marzo 1918 fu terribile per la nuova repubblica sovietica: essa perse il 44 % della sua popolazione (62 milioni di abitanti), un quarto del vecchio territorio zarista, (oltre a tutti i territori perduti militarmente, la Russia dovette abbandonare l’Estonia e la Lettonia; ritirare le sue truppe dall’Ucraina, dalla Finlandia, concludere la pace col primo di questi paesi, da essa ormai separato; cedere alcune regioni ai turchi nella Transcaucasia), un terzo del suo raccolto (27 % del suo terreno agricolo), 20 % delle ferrovie, 27 % dei redditi dello Stato, 80 % delle sue fabbriche di zucchero, 73 % della sua produzione di ferro, 75 % della sua produzione di carbone, 9000 imprese industriali su un totale di 16000; pagare un’indennità di 6 miliardi di marchi in oro.

Alla fine del '18 i bolscevichi erano riusciti a salvare solo un decimo dei cannoni e dei fucili, un quarto delle cartucce e meno di un quinto dei proiettili d’artiglieria abbandonati nove mesi prima dall’esercito russo in rotta, un ventesimo delle attrezzature necessarie a equipaggiare la nuova Armata Rossa. I bolscevichi si trovarono a dover produrre tutto il resto proprio quando ormai la produzione industriale era scesa a una piccola percentuale di quella precedente. Il 15 gennaio 1918 fu firmato il decreto costituivo dell’«Esercito rosso». Base di partenza fu la Guardia rossa; le prime esigenze di disciplina imposero ben presto l’abbandono del principio elettivo per la scelta dei comandanti. Lo scontro con il Corpo Cecoslovacco costrinse a procedere oltre. Furono prese le prime misure di reclutamento obbligatorio; nell’aprile '19, si arriva alla mobilitazione generale e alla reintroduzione della pena di morte nell’esercito ed all’utilizzo del sistema degli ostaggi.

Magnifica è la risposta di Trotsky a quanti prendendo spunto dalla «durezza» e dalla «immoralità» della sua politica militare, analizzando la storia come una specie di legge dell’occhio per occhio sostengono che «Stalin utilizzerà contro di lui (Trotsky, ndr) gli argomenti che Trotsky aveva utilizzato contro il movimento di Kronstadt». (D. Cohn-Bendit, «L’estremismo, rimedio alla mallatìa senile del comunismo»):

«Il sistema degli ostaggi, voi dite, è immorale in sé? Bene, è quanto volevamo sapere. Tale sistema è stato praticato nel corso di tutte le guerre civili della storia antica e moderna. È evidente che esso dipende dalla natura stessa della guerra civile. Non si può trarne che una sola conclusione: ossia, che la natura stessa della guerra civile è immorale… Noi proponiamo che Victor Serge sia nominato presidente di una commissione composta, per esempio, da Marceau Pivert, Souvarine, Waldo Frank, Max Eastman, Magdeleine Paz e altri ancora, per redigere un codice morale della guerra civile. Il carattere complessivo ne sarebbe chiaro a priori. Le due parti si impegnano a non prendere ostaggi… Il bombardamento della città… è formalmente vietato… è proscritto l’uso dell’artiglieria. E visto che i fucili, le bombe a mano e persino le baionette esercitano incontestabilmente un’influenza nefasta sugli esseri umani, cosi come sulla democrazia in generale, l’utilizzazione delle armi – siano armi da fuoco o armi bianche – formalmente vietata nella guerra civile». («Moralisti e sicofanti contro il marxismo»)

La mancanza di esperienza militare consigliò di fare ricorso a ufficiali del precedente regime. I due criteri che erano alla base della trasformazione – esercito regolare, non partigiano, e impiego dei vecchi ufficiali – incontrarono un’aspra resistenza nel partito (Gruppo di Tsaritsyne: Vorošilov, Stalin, Frunze). Era necessario mettere insieme un esercito regolare, disciplinato, attraverso le varie istanze intermedie, ad un unico centro. Le bande partigiane dovevano essere sciolte e i loro membri assorbiti nel nuovo esercito, o al massimo potevano essere utilizzate in specifici compiti ed entro limiti di autonomia ben precisi (sabotaggio ad esempio). Ciò incontra enormi difficoltà iniziali nel paese, che non si rende conto subito perché, dopo la frantumazione di un apparato militare gerarchico e autoritario, si dovesse da subito ricostruirne un altro a cui sottomettersi. Bisognava quindi spiegare alle masse che la guerriglia partigiana era inadatta ai nuovi compiti. Essa rappresentava il grado più alto di organizzazione militare cui poteva giungere la «rivoluzione contadina», ma in Russia, la classe trainante era il proletariato. Trotzky, commissario alla guerra, ha senz'altro avuto l’indiscutibile merito storico di aver costruito dal nulla in breve tempo un esercito che seppe resistere per tre terribili anni alla pressione dei bianchi. Ciò fu possibile perché le iniziali avanzate vittoriose delle armate bianche fece rapidamente comprendere ai contadini e proletari russi la superiorità dell’Armata Rossa su quella partigiana. L’Armata Rossa ebbe la priorità su tutto: materiale rotabile, combustibili, equipaggiamento, vettovagliamento.

Di tutto la popolazione si privò per dare al suo esercito una cartuccia e un paio di stivali in più. Alla fine del '18 erano già in servizio 22 000 ex-ufficiali e generali e 128 000 exsottuficiali. Secondo le fonti sovietiche, la repubblica dei soviet ebbe sotto le sue armi: 378 000 uomini a metà del '18, 4 400 000 alla fine del '19, per toccare una punta massima di 5 300 000 nel '20. La guerra andava combattuta su fronti che raggiunsero una lunghezza di 8000 chilometri. La metà dei membri del partito comunista, 300 000 militanti, si trovarono alla fine della guerra civile nell’Armata Rossa. Se capisce allora lo sforzo enorme per organizzare, armare, alimentare tali truppe, in un paese semi distrutto e come il numero dei migliori compagni morti durante la guerra non sarà senza conseguenze per lo sviluppo del futuro del partito e dello Stato russo.

In regime borghese il lavoro dell’operaio è regolato da un «libero» contratto fra capitale e lavoro: l’operaio vende la sua forza lavoro in cambio del suo «controvalore» in moneta. Nelle condizioni della Russia, durante la guerra civile ed il cosiddetto «comunismo di guerra» il lavoro umano non poteva essere regolato allo stesso modo. Lo stato sovietico prelevava dai contadini le eccedenze alimentari e le distribuiva ai lavoratori secondo un piano. I lavoratori stessi venivano utilizzati secondo criteri nuovi riassunti nel termine di «servizio del lavoro obbligatorio». Così si era espresso Trotzky al III congresso panrusso dei sindacati, nel gennaio del 1918:

«La terribile pressione della guerra si sta indebolendo. Le richieste e i problemi economici divengono sempre più d’attualità. La storia ci conduce, su tutta la linea, al nostro problema fondamentale: l’organizzazione del lavoro su nuovi fondamenti sociali. (…) Noi tentiamo per la prima volta nella storia mondiale di organizzare il lavoro negli interessi della maggioranza stessa dei lavoratori. Questo comunque non esclude l’elemento della costrizione in tutte le sue forme, sia le più gentili che le più severe. L’elemento della costrizione di Stato non solo scompare dell’arena storica, ma al contrario avrà, per un notevole periodo, una parte di grande importanza. (…) La chiave dell’organizzazione economica è la forza-lavoro (specializzata, educata a livello elementare, semi educata, ineducata, o non specializzata). Trovare i metodi adatti a un’accurata registrazione, mobilitazione, distribuzione e applicazione produttiva di questa forza-lavoro significa risolvere praticamente il problema della costruzione economica. La difficoltà di questo gigantesco problema, la cui soluzione richiede un’epoca intera, è aumentata dal fatto che dobbiamo ricostruire il lavoro, su fondamenti socialisti in condizioni di povertà senza precedenti». («Terrorismo e comunismo»).

La Russia in rovina

In una nazione nella quale la dieta delle masse consisteva soprattutto di pane, i fornai di Pietrogrado dovevano trasformare ogni giorno in pane 725 t di farina per alimentare i 2 250 000 abitanti della città. Già nell’autunno del 1917 i treni avevano portato nella capitale meno di un terzo ditale quantitativo, e la razione quotidiana di pane era scesa a non più di 200 grammi, cui si aggiungevano quantitativi minimi di carne, zucchero, grassi, più un uovo ogni quindici giorni, e questo già parecchie settimane prima che i bolscevichi rovesciassero il governo di Kerenskij. Gli esperti stimano che un lavoratore manuale avesse assoluto bisogno di un minimo di 2700 calorie al giorno per sopravvivere, ma la razione quotidiana a Pietrogrado all’inizio dell’inverno 1917–1918 non forniva più di 390 calorie. Per quanti sforzi facessero i bolscevichi per liberare Pietrogrado dalla morsa della fame, essi non ci riuscirono, perché il compito di trasportare i generi alimentari per centinaia e migliaia di chilometri di territorio insicuro si rivelò molto arduo. Un decimo dei carri merci e un terzo delle locomotive della rete ferroviaria russa erano stati messi fuori uso prima ancora della rivoluzione d’Ottobre. Quando i bolscevichi trasferirono la capitale a Mosca, la razione di pane era scesa a 120 grammi, e l’intera razione quotidiana dei lavoratori assicurava non più di 400 calorie. Prima che la primavera di fame del 1918 cedesse il posto all’estate, più dell’80 % delle riserve di grano accumulate dai contadini russi dopo il raccolto del '17 erano fuori dalla portata dei bolscevichi.

A rendere ancora più disperata la situazione degli affamati proletari russi fu l’aumento della disoccupazione. Nella sola Pietrogrado, quaranta grandi fabbriche (che al momento della rivoluzione russa davano lavoro a quasi 80 000 operai) chiusero i battenti prima della primavera. Dei 5000 operai delle officine Franko-Russkij, solo pochi rimasero in veste di custodi, e persino le enormi fabbriche Obuchov e Putilov espulsero quasi due terzi della loro mano d’opera. Nel giro di quattro mesi dopo la rivoluzione d’Ottobre, il numero degli operai di Pietrogrado disoccupati giunse a superare le 100 000 unità, cifra ulteriormente gonfiata dalle carenze di carbone, elettricità e materie prime. Prima dell’autunno del 1918, nelle fabbriche di Pietrogrado lavorava meno di un terzo degli uomini e delle donne che vi erano impiegati l’anno prima. Dei «metallisty», élite di metalmeccanici specializzati, alla fine del '18 ne restavano meno di 50 000 su un contingente del tempo di guerra di quasi 250 000.

Nessuna nazione ha mai conosciuto una guerra civile di una tale ampiezza, da Murmansk e Arcangelo a Nord, a Odessa, Tiflis e Baku al Sud, da Minsk a Ovest a Chabarosk in Estremo Oriente. In nessun luogo questo si è verificato come in Russia, dove, tra il 1918 e il 1921, la guerra civile ha avviato una nazione esausta lungo una strada mai tentata da altri. Va ricordato, secondo i dati di Trotzky nella sua «Storia della rivoluzione russa» che l’esercito russo, nel corso della prima guerra imperialistica, aveva avuto più perdite di qualsiasi altra armata nel primo massacro imperialista, circa il 40 % delle perdite de tutte le armate dell’Intensa. All’inizio del 1918 cominciava la terribile guerra civile, durata fino al 10 novembre 1920, quando la Crimea fu interamente nelle mani delle truppe dell’Armata Rossa.

In sette anni di guerra, fra morti e territori perduti, la popolazione si era ridotta a meno di 137 milioni, quattro milioni e mezzo erano invalidi, oltre un quarto della ricchezza del paese era distrutta, le città si erano svuotate. Nel corso dell’autunno 1920, la popolazione delle 40 capitali delle province era diminuita del 33 % dal 1917, passando da 6 400 000 a 4 300 000; la popolazione di cinquanta altre grandi città era diminuita del 16 %, passando da 1 517 000 a 271 000. Più la città era grande, più la diminuzione era sensibile. Pietrogrado aveva perso 57,5 % della sua popolazione in tre anni, Mosca 44,5 %. Delle 70 000 verste di ferrovie nella Russia d’Europa 15 000 soltanto non erano distrutte, più di 60 % delle 16 000 locomotive erano fuori uso. La produzione industriale era la settima parte di quella prebellica. Fermi, inondati o rovinati erano i pozzi carboniferi del Donbass, quelli petroliferi del Caucaso, paralizzata un’enorme quantità di fabbriche. Le statistiche mostrano una diminuzione continua della produzione in tutti rami, soprattutto nei minerali di ferro e di ghisa, che passa rispettivamente a 1,6 e 2,4 % rispetto alle cifre del 1913. Nel 1920 la produzione metallurgica, la più importante delle industrie russe prima della rivoluzione, arrivava appena al 6 % di quella del 1912, al 9 % nel 1921, al 7 % nel 1922, al 30 % nel 1923. La produzione industriale arriva al livello più basso nel 1920, totalizzando soltanto 16 % della produzione del 1912. Nelle officine metallurgiche Kolomenskij l’assenteismo nel '20 arrivò a superare il 40 %; in media, gli operai si assentavano dal lavoro per più di quattro giorni al mese, e c’erano ferrovieri che lo facevano un giorno sì e uno no. I calcoli fatti sulle statistiche sindacali per l’insieme dei territori sotto controllo sovietico, nel 1919 indicano che il numero di operai nelle imprese industriali era sceso al 76 % del totale del 1917, nell’edilizia al 66 % e nelle ferrovie al 63 %.

Una tabella d’insieme pubblicata nel '26 mostra che il numero di operai salariati nell’industria si era elevato da 2 000 000 nel 1913 a 3 000 000 nel '17; poi, era progressivamente sceso per arrivare a 2 500 000 nel 1918, 1 480 000 nel 1920–1921 e 1 240 000 nel 1921–1922, ossia, a quel momento, meno della metà del totale del 1913! La fabbrica Putilov non contava più che 6000 operai, 5 volte meno che nel '17. Erano tanti gli uomini e le donne che alla fine del 1920 avevano abbandonato le città, che la manodopera industriale rimasta ammontava a non più di un terzo di quella che sarebbe stata necessaria per la ripresa economica. Bucharin parlerà di «disintegrazione rivoluzionaria dell’industria del proletariato» e dirà che la «contadinizzazione del proletariato minacciava di cancellare la sua consapevolezza di forza rivoluzionaria».

La Russia insomma era rovinata. Che ditale rovina un popolo ormai logorato cominci ad accusare i bolscevichi, in bocca ai posteri o anche ai contemporanei schierati sul fronte multicolore anticomunista, ha lo stesso significato dell’accusa lanciata ai sindacati dai peggiori reazionari di rovinare gli operai facendoli scioperare. Nello sciopero come nella rivoluzione si soffre oggi per un beneficio futuro, e in nessuno dei due casi l’esito è scontato!

Alla metà del '20, il salario medio di un operaio bastava appena ad acquistare meno di un cinquantesimo di quanto poteva procurarsi all’inizio della Grande guerra. La carestia del 1921–22. Che toccò più di 30 milioni di persone, fece innumerevoli vittime, principalmente nelle regioni del Volga e del Kuban.

«Il rapporto della delegazione sovietica alla Conferenza di Genova (1922) ha comunicato che, nel 1921, 3 milioni di persone sono morte d’inedia, nonostante l’aiuto considerevole dall’American Relief Association». (N. de Basily, «La russie sous les Soviets», Paris, Plon, 1938).

La realtà si rivelò ancora peggiore in un secondo tempo.

«Secondo le cifre fornite dall’Ufficio Centrale di statistica, durante la carestia del 1921–1922, in seguito all’aumento della mortalità e alla diminuzione delle nascite, il paese perse 5 053 000 abitanti». (Serge Prokopovicz, «Histoire économique de l’URSS». Paris, Éd. Flammarion, 1952)

Kalinin, al II Congresso dei soviet del 1924, riconobbe che la stessa carestia aveva crudelmente colpito una popolazione di 36 milioni di abitanti. (B. J. Weissman, «H. Hoover and famine relief to soviet Russia 1921–1923». Standford University, 1974).

Il 1921 fu un anno cruciale per il governo comunista (fine della guerra con la Polonia). Attenuatasi la tensione della guerra civile, incalzavano ora i problemi della ricostruzione delle strutture economiche e sociali necessarie a sopravvivere e, non certo a «edificare il socialismo», per di più in un solo paese, come farà lo stalinismo. Con la grave e profonda crisi del '21 (economica e sociale) foriera di gravi precipitazioni politiche (scioperi di Mosca e di Pietrogrado), il partito bolscevico doveva fare i conti. Non aveva altra scelta. Nell’ambito di questo indirizzo le posizioni dei vari esponenti bolscevichi si differenziarono. Alcuni di essi, convinti che il «comunismo di guerra» rappresentava, anche se in una forma «primitiva», il regime-tipo del futuro Stato socialista, ritenevano che si dovesse continuare su quella strada. La grande maggioranza avvertiva l’esigenza di un mutamento di rotta. La celebre discussione sulla natura e il ruolo dei sindacati nella ricostruzione dello Stato sovietico portò ad uno scontro aperto in seno al gruppo dirigente. Comunque la rivolta scoppiò. Victor Serge, scriverà nelle sue «Memorie»:

«Se la dittatura bolscevica fosse caduta, a breve scadenza ci sarebbe stato il caos, e attraverso il caos, la pressione contadina, il massacro dei comunisti, il ritorno degli emigrati e infine un’altra dittatura antiproletaria».

L’esasperazione della lotta di classe, di cui la stessa guerra civile in Russia era stata soltanto la manifestazione più acuta, aveva condotto l’economia ad uno sfacelo completo. I contadini, che avevano combattuto nell’Armata Rossa e sopportato tutte le requisizioni finché li sovrastava il pericolo di perdere le terre conquistate grazie alla rivoluzione bolscevica, minacciavano di rivolgersi contro il proletariato ora che la vittoria era sicura. La controrivoluzione contadina brontolava sordamente nelle profondità del paese. La sua parola d’ordine era adesso: «Viva la repubblica sovietica! Abbasso la Comune proletaria!». Fu anche, in fondo, la parola d’ordine della rivolta dei marinai di Kronstadt, che i bolscevichi dovettero reprimere con la forza perché rischiava di diventare una testa di ponte dell’intervento britannico.

Di conseguenza la repressione diventava un atto necessario, anche se doloroso. La possibilità che l’esempio si diffondesse, che si collegasse agli altri focolai presenti e attivi nelle campagne, convinse i bolscevichi della necessità di schiacciare la rivolta. Come è noto, questa decisione fu condivisa anche dagli oppositori interni del partito comunista: i delegati dell’opposizione operaia al X congresso del partito parteciparono alle operazioni militari contro gli insorti, e l’intervento dei Kursanti (allievi ufficiali comunisti) fu molto importante.

Le guerre civili sono tragedie che plasmano la storia delle nazioni; Così fu per la Comune di Parigi. E come ricorda Marx:

«Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi, né antagonismo di classi, le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche. Sino allora, alla vigilia di ciascuna trasformazione generale della società, l’ultima parola della scienza sociale sarà sempre»: «il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, inesorabilmente è posto il problema». («Miseria della filosofia»).

La posizione strategica di Kronstadt

L’isola di Kotlin, situata a 33 kilometri ad ovest di Pietrogrado, quasi esattamente a mezza strada tra la riva settentrionale e quella meridionale del Golfo di Finlandia, si presenta in forma di un triangolo lungo circa 13 chilometri e largo al massimo più di un chilometro e mezzo. La fortezza di Kronstadt fu la principale base navale russa nel Baltico e fu fatta costruire all’inizio del XVIII secolo da Pietro il Grande. Successivamente i russi avevano esteso le difese di Kronstadt all’intera insenatura, larga 28 chilometri, costruendo, nelle acque basse che separavano l’isola dalla terra ferma, sette fortificazioni basse con tredici batterie in casematte, in cui erano piazzati cannoni Krupp da 152, 280, 305 millimetri. Così tutte le acque della parte orientale del Golfo di Finlandia venivano a trovarsi entro i settori di tiro incrociato dei pezzi d’artiglieria. Kronstadt era considerata inespugnabile. Uno sguardo all’atlante mette immediatamente in evidenza come la via da Pietrogrado alla Russia interna non solo non sia impedita da alcun ostacolo naturale, ma anzi sia facilitata in ogni direzione da una rete, per quanto allora modesta, di importanti vie di comunicazione terrestre che, partendo da Pietrogrado, raggiungono ogni angolo della Russia, da Vilna a Odessa a Vladivostock, per tacere di Mosca, distante circa 700 Km. Nel marzo 1921 perdere Kronstadt significava perdere, non Pietrogrado, ma la Russia intera: non era più il novembre 1919, quando furono le truppe inglesi a fallire la presa di Pietrogrado; allora era stata la reazione spontanea del proletariato e delle masse russe di fronte al pericolo a consentire la vittoria; nel 1921 ormai, al posto della disponibilità a tendere ancora le forze in uno sforzo supremo, erano sopraggiunte la stanchezza e la demoralizzazione. Per capire la rapida reazione dei bolscevichi devono essere presi in considerazioni alcuni elementi.

Il Golfo di Finlandia è gelato fino a fine marzo inizio aprile. I collegamenti fra l’isola di Kotlin e la terraferma avvenivano su slitte o cavalli che transitavano sulla spessa crosta di ghiaccio ricoperta di neve. Le navi venivano serrate nella morsa del ghiaccio e rimanevano immobili fino al disgelo. Così si trovavano la Petropavlosk e la Sevastopol, affiancate, in modo da ostacolarsi l’una con l’altra nel tiro. Finché fosse rimasto il ghiaccio, la zona sarebbe stata un’unità gigantesca da guerra senza capacità di manovra. Ma il disgelo avrebbe modificato profondamente la situazione. Kronstadt sarebbe divenuta irraggiungibile. Qualsiasi attacco per mare sarebbe stato allora senza sforzo respinto, e bombardarla dalla costa sarebbe servito a ben poco, giacché nessuna delle batterie istallatevi era in grado di raggiungere efficacemente Kronstadt, mentre questa poteva riversare sulla costa un volume di fuoco di gran lunga superiore.

Il programma di Kronstadt

Il 2 marzo 1921 gli equipaggi della Petropavlosk e della Sevastopol, a bordo della prima nave, in una assemblea, votarono una risoluzione che divenne poi la «carta della rivolta». Crediamo utile riportarla nella suo totalità:

RISOLUZIONE DELL’ASSEMBLEA GENERALE 1a E 2a SQUADRA MARITTIMA

«Dopo aver ascoltato il rapporto dei rappresentanti degli equipaggi inviati a Pietrogrado dalla assemblea generale dei marinai della flotta per esaminare la situazione, è stato deciso quanto segue:
1) di procedere immediatamente alla rielezione a scrutinio segreto dei soviet, dato che i soviet attuali non esprimono la volontà degli operai e dei contadini. A questo scopo dovrà svolgersi prima una libera propaganda elettorale affinché le masse operaie e contadine possano essere onestamente informate.
2) di esigere la libertà di parola e di stampa per gli operai e per i contadini, per gli anarchici e per i socialisti di sinistra.
3) di esigere libertà di riunione per i sindacati operai e per le organizzazioni contadine.
4) di convocare entro il 10 marzo 1921 un’assemblea generale degli operai, dei soldati rossi e dei marinai di Kronstadt e di Pietroburgo.
5) di rilasciare tutti i prigionieri politici socialisti e tutti gli operai e i contadini, i soldati rossi e i marinai, arrestati in occasione di diverse agitazioni popolari.
6) di eleggere una commissione incaricata di esaminare i casi di tutti i detenuti trattenuti nelle prigioni e nei campi di concentramento.
7) di abolire tutte le «sezioni politiche» perché d’ora in poi nessun partito deve avere dei privilegi per la propaganda delle sue idee, né ricevere la minima sovvenzione dallo stato per tale scopo. Al loro posto, noi proponiamo che siano elette in ogni città delle commissioni di Cultura e di Educazione finanziate dallo Stato.
8) di abolire immediatamente tutti gli sbarramenti militari.
9) di uniformare le razioni alimentari per tutti i lavoratori, salvo per coloro che esercitano mestieri particolarmente insalubri e pericolosi.
10) di abolire tutti i reparti speciali comunisti nell’unità dell’esercito, e la guardia comunista nelle fabbriche e nelle miniere. In caso di necessità questi corpi di difesa potranno essere designati dalle compagnie nell’esercito e dagli operai stessi nelle fabbriche.
11) di dare ai contadini la piena libertà di azione per ciò che concerne le loro terre, e il diritto di allevare il bestiame, a condizione che compiamo da soli il loro lavoro, senza l’impiego di lavoratori salariati.
12) di chiedere a tutte le unità dell’esercito e ai compagni delle scuole di cadetti di solidarizzare con noi.
13) di esigere che questa risoluzione sia largamente diffusa dalla stampa.
14) di designare una commissione mobile incaricata di controllare questa diffusione.
15) di autorizzare la produzione artigianale libera purché non impegni il lavoro salariato«
.
(«Izvestia» № 1, giovedì 3 marzo 1921)

Se esaminiamo questa risoluzione, vediamo che la quasi totalità dei punti rivendica l’attuazione di una legalità rivoluzionaria, il che è palesemente una contraddizione in termini, dal momento che il concetto stesso di rivoluzione, quale espressione concentrata della politica e della violenza sovvertitrice, non può tollerare di essere compresso all’interno di principi giuridici o costituzionali. Alcune delle rivendicazioni, certo, in sé non contraddicono i principi della rivoluzione comunista e potrebbero in determinate situazioni essere avanzate anche dai comunisti. Altre, in determinati frangenti, avrebbero potuto essere tollerate. I punti 7 e 10 invece hanno ben altro contenuto: esprimono il rifiuto della dittatura del partito comunista. Su questi punti non ci poteva che essere la contrapposizione più netta e frontale. Era proprio grazie alla presenza di quadri del partito in ogni settore di attività che la Russia aveva potuto avere una direzione uniforme, centralizzata e vincente. La richiesta dei marinai riecheggiava ora la pretesa degli S-R di sinistra, nell’Ottobre, che un Lenin o un Trotzky abbandonassero il potere con tutti i suoi strumenti.

I punti 2 e 15 esprimono succintamente il programma economico piccolo-borghese, quel programma, o più propriamente mito, che favoleggia di una vaga forma di stato cui non compete l’intervento nell’economia mentre canta le bellezze della piccola produzione contadina ed artigiana. La visione che del comunismo hanno i marxisti in ciò si differenzia da ogni altra visione: non è un progetto di società futura, modellato secondo i desideri di qualche geniale inventore di formule magiche sociali, bensì è il risultato dell’analisi scientifica dello sviluppo delle società divise in classi e della conseguente scoperta che la storia umana percorre una via la cui destinazione è determinata dallo sviluppo delle forze produttive e non dipendente dalla volontà di alcuno. È un programma che scaturisce dalle contraddizioni stesse della società capitalistica e che si tratta di favorire od ostacolare. La società futura non si sceglie e tantomeno si inventa! Kronstadt, bisogna dirlo, aveva la «sua» visione del comunismo: la dispersione della produzione in piccole isole autogestite e autosufficienti, vagamente collegate fra di loro, e nelle quali avrebbe dovuto vigere una specie di fruizione del «frutto integrale del lavoro».

«Kronstadt rivoluzionaria si batte per un socialismo di tipo diverso, per una repubblica sovietica dei lavoratori, nella quale lo stesso produttore sarà il solo padrone e potrà disporre come meglio crede dei prodotti del suo lavoro».

Siamo al trionfo dell’utopia e dell’anarchismo. Quell’utopia sulla «fruizione integrale del frutto del lavoro» che Marx frantumò nella «Critica del Programma di Gotha». Quell’anarchismo che sogna i benefici del comunismo sulla base della piccola produzione, senza avvedersi che la piccola produzione genera costantemente il capitalismo. L’assenza dello Stato in un paese accerchiato dalla controrivoluzione internazionale! lì comunismo immediato in uno stato arretrato nell’epoca dei colossi imperialistici!

Nonostante i ribelli si siano indignati per le accuse di Lenin di volere la libertà di commercio, e con buona pace di chi con essi tuttora s’indigna, le cose stanno proprio così. Lenin che vedeva ben più lontano di quanto un anarchico potrà mai, ha portato alla luce del sole ciò che si nascondeva nelle fumose rivendicazioni di Kronstadt. Senza un potere centrale che regoli il commercio, e in assenza di produzione socialista, il programma di Kronstadt portava dritto dritto alla libertà di commercio. Dimostra di non aver nulla compreso di tutto ciò chi ritorce le accuse contro Lenin sventolando la NEP come la vera realizzazione della libertà di commercio. Completa il quadro la più assoluta indifferenza per la rivoluzione internazionale. Mentre questa era in cima ai pensieri dei bolscevichi, che vedevano nella rivoluzione in Russia una semplice tappa della rivoluzione mondiale, e pertanto da salvaguardare con le unghie e con i denti, i ribelli mostravano scarso interesse per la rivoluzione mondiale. I loro discorsi, al contrario, si riferivano al popolo russo e al suo destino. Di tutta la problematica della rivoluzione in occidente non c’è nelle «Isvestija» di Kronstadt la minima traccia, salvo qualche vago appello al proletariato degli altri paesi perché solidarizzi con essi. Il programma di Kronstadt è in ultima analisi nient’altro che un programma rivoluzionario contadino che, perso per motivi internazionali e nazionali l’aggancio con la guida del proletariato, inevitabilmente ritorna nel guscio impotente dell’anarchismo.

Il X Congresso del PCR e la battaglia di Kronstadt

L’arma della critica passa alla critica per le armi. 15 000 uomini di Kronstadt fra marinai, soldati e civili, dietro 135 cannoni e 68 mitragliatrici, compresi quelli delle navi. Dall’altra parte, cannoni di minor calibro e gittata, una vasta distesa di ghiaccio senza alcuna protezione dal fuoco di Kronstadt, la 7a armata di Tuchačevskij, i Kursanti e unità comuniste fidate provenienti da altre zone. La mattina del 7 marzo Tuchačevskij scatenò l’offensiva. Le opposte artiglierie si scambiarono numerosi colpi finché la visibilità, impedita dalle avverse condizioni atmosferiche, lo permise. La mattina dell’8 l’artiglieria lasciò il posto alla fanteria; quando le truppe si avviarono, furono accolte da un fuoco micidiale di sbarramento dei cannoni; alcuni dei proiettili, esplodendo, aprirono ampie buche nel ghiaccio, precipitando in una tomba di acqua gruppi di attaccanti. Il giorno dopo riprese il duello d’artiglieria, con scarsi risultati. Intanto si apriva il X Congresso del partito. Nel suo rapporto dell’8 marzo sull’attività del C.C., Lenin, dopo aver auspicato la rapida «liquidazione» della rivolta, si domandava che cosa essa significasse:

«Significa il passaggio del potere politico dalle mani dei bolscevichi, in quelle di un aggregato amorfo, di un blocco composto di elementi disparati che apparentemente sembrano soltanto un poco più a destra dei bolscevichi, e forse, persino un po’ più a sinistra, tanto indeterminato è quell’insieme di raggruppamenti politici che a Kronstadt hanno tentato di prendere il potere nelle loro mani. È certo che, nello stesso tempo, i generali bianchi – voi tutti lo sapete – vi hanno avuto una parte importante. È stato pienamente stabilito (…) Qui si è manifestato l’elemento piccolo-borghese, anarchico, con le sue parole d’ordine della libertà del commercio, e sempre orientato contro la dittatura del proletariato. E questo stato d’animo ha influito notevolmente sul proletariato; ha avuto una ripercussione nelle aziende di Mosca, in quelle di parecchi centri della provincia. Questa controrivoluzione piccolo-borghese è, indubbiamente, più pericolosa di Denikin, Judenič e Kolčak messi insieme, perché abbiamo a che fare con un paese nel quale la proprietà contadina è stata rovinata, e inoltre abbiamo quella smobilitazione dell’esercito dalla quale è uscito un numero incredibile di elementi insurrezionali. Per quanto piccolo o poco notevole sia stato all’inizio quello -come chiamarlo? – spostamento di potere che i marinai e gli operai di Kronstadt proponevano, essi volevano correggere i bolscevichi per quanto concerne la libertà di commercio; lo spostamento era apparentemente piccolo, le parole d’ordine parevano identiche: «Potere sovietico», ma con una piccola modifica, o soltanto una rettifica, e in realtà gli elementi senza partito servivano qui soltanto da piedistallo, da gradini, da ponte, sul quale sono apparse le guardie bianche. Politicamente ciò è inevitabile. Abbiamo conosciuto gli elementi piccolo-borghesi, anarchici, nella rivoluzione russa; abbiamo lottato contro di loro per decine di anni (…) Tutti questi elementi si presentavano con la parola d’ordine dell’eguaglianza, della libertà, dell’Assemblea costituente, e non una volta, ma molte volte, ci si accorse che erano semplicemente un gradino, un ponte per il passaggio al potere della guardie bianche. (…) La libertà di commercio, anche se all’inizio non è così legata alle guardie bianche come lo era Kronstadt. tuttavia porta inevitabilmente alle guardie bianche, alla vittoria del capitale, alla sua completa restaurazione.»

Mentre le operazioni militari subivano una pausa, Trotzky riferiva al congresso sulla drammatica situazione a Pietrogrado in una seduta ristretta. Era il 10 mano. La rivolta era ancora in piedi, più pericolosa che mai; il dispositivo di attacco aveva rivelato gravi deficienze e il morale delle truppe era sempre più basso. Fu allora deciso un vasto «rimpasto» nelle file degli attaccanti; gli uomini vennero scelti con cura particolare, interi battaglioni di allievi ufficiali e di giovani comunisti arrivarono da località distanti. Reparti scelti di comunisti e speciali unità della Ceka costituivano una parte assai rilevante della nuova forza d’assalto. Ma l’atto politicamente più rilevante fu quello compiuto da trecento delegati al congresso i quali si offrirono come volontari. Numerosi fra questi furono i membri dell’Opposizione Operaia della Kollontaj, di Šljapnikov, di Lutovinov, come i membri del gruppo Centralismo Democratico, di Bubnov, Boguslavskij, Osinskij e Sapronov, che posti pesantemente sotto accusa al congresso, intesero così dimostrare la loro completa estraneità a movimenti come quello di Kronstadt[1].

La presenza dei volontari come propagandisti ma anche come combattenti eroici si rivelò preziosa laddove bisognava dare l’esempio nell’affrontare la terribile prova della distesa di ghiaccio sotto i colpi micidiali di Kronstadt. Ciò sarebbe dovuto valere più di cento discorsi contro la facile demagogia dei ribelli (retaggio anche questo di mentalità contadina, ma arretrata) secondo cui i bolscevichi erano solo preoccupati di accaparrarsi funzioni e uffici, di starsene al caldo e di sottrarre al popolo grandi quantità di cibo e di vestiario mentre questo giaceva, per la loro ingordigia e sete di potere, nella miseria più nera. Senza entrare nei particolari della cruenta battaglia, ricordiamo che l’inferno si fermò il 18 marzo. Paul Avrich («Kronstadt 1921», Mondadori) indica in circa 10 mila uomini tra morti e feriti le perdite dei bolscevichi. Dei delegati al X congresso, una quindicina lasciarono la loro vita in battaglia; tra i ribelli sembra che 600 siano stati i morti in combattimento, circa mille i feriti e 2500 i prigionieri.

Ma il X Congresso non fu chiamato soltanto alle gravi decisioni relative alla repressione della rivolta di Kronstadt. Esso determinò anche l’adozione di quella che fu chiamata la «Nuova politica economica». Il PCB, preso atto che le requisizioni di derrate e la militarizzazione del sindacati adottati nel corso della guerra civile avevano fatto il loro tempo, contro le illusioni di quanti avevano ritenuto le misure eccezionali del «comunismo di guerra» una scorciatoia verso la realizzazione del socialismo sancì la necessità di passare ad un rapporto stabile con i contadini: essi, pagata allo stato proletario un’imposta in natura, avrebbero avuto la libertà di commercializzare le eccedenze rimaste. Era una strada obbligata per riattivare l’economia e gli anni successivi mostreranno il suo successo da questo punto di vista. Naturalmente essa presentava dei rischi perché implicava lo sviluppo interno del capitalismo. In assenza della rivoluzione in Occidente non vi erano tuttavia vie più brevi.

Le lezioni di Kronstadt

Lo storico, tranquillo e sereno, lontano dalla battaglia che è divampata, può dirimere sottili questioni interpretative sulla reale portata delle manovre social-rivoluzionarie, costituzional-democratiche, bianche, ecc… Così come può, di conseguenza, vagliare l’eventuale sproporzione tra la «ferocia dei bolscevichi» abbattutasi sui vinti e il pericolo effettivo da questi rappresentato. Noi abbiamo riportato i fatti, senza nascondere quegli aspetti per i quali i democratici e gli anarchici di tutto il mondo hanno accusato i bolscevichi di essere una banda di insaziabili sanguinari. Ciò che a noi importa, prima di tutto, è la direzione verso cui tendevano le opposte schiere di combattenti. È un giudizio politico. E su questo piano, non possiamo che essere solidali con i bolscevichi. Il futuro è più importante del passato? Sì, ma lo è tanto di più, quanto più gli uomini avranno tratto le lezioni dalle battaglie passate. La lezione di Kronstadt è prima di tutto questa: la rivoluzione è un fatto eccezionale, è un evento che porta allo scontro violento e feroce milioni di uomini e donne, è il fatto più autoritario che possa esserci; è in ultima analisi, un «eccesso» della storia. Ma non basta. Lo sviluppo della rivoluzione non è un processo aprioristicamente determinabile. Dipende da un complesso di fattori oggettivi e soggettivi. Il suo allargamento, la sua durata, il suo approfondimento, così come la sua finale vittoria o sconfitta, si giocano in un alternarsi di piccole vittorie e sconfitte che si trascinano per anni, e, forse, decenni. L’esperienza delle rivoluzioni passate, ci dimostra all’evidenza che la rivoluzione, questo «eccesso della storia», all’inizio è generalmente «generosa», «gentile», «umanitaria».

«A Pietrogrado conquistammo il potere nel novembre 1917, quasi senza spargimento di sangue, e persino senza arresti (…) Questa era ‹generosità› proprio nello spirito delle prime misure della Comune di Parigi. Ma fu un errore (…) La rivoluzione proletaria assunse un carattere più severo solo dopo l’insurrezione degli junker a Pietrogrado, e particolarmente dopo l’insurrezione dei cecoslovacchi sul Volga organizzata dai cadetti, dai socialisti rivoluzionari e dai menscevichi, dopo le loro esecuzioni in massa dei comunisti, dopo l’attentato alla vita di Lenin, dopo l’assassinio di Urickij, ecc…». (Trotzky, «Terrorismo e comunismo»).

In un crescendo di scontri sull’arco di tre anni, mentre il proletariato occidentale non insorge ad abbreviare le sofferenze del proletariato russo, la rivoluzione si indurisce, si «incattivisce». Nel momento in cui finalmente la vittoria è a portata di mano almeno tanto quanto la caduta immediata nell’abisso, la rivoluzione raggiunge il culmine della «ferocia». Se ne ha il tempo e la possibilità, dispiega il più alto grado di decisione.

«Durante una rivoluzione» – nota ancora Trotzky –, «il più alto grado di umanità coincide con il più alto grado di energia (…) Solo così si può ottenere il minimo sacrificio indispensabile e il minimo spargimento di sangue». (ibidem).

Nulla di più vero. Per quanto atroci siano gli eventi rivoluzionari, ogni marxista sa anche troppo bene che la restaurazione del regime borghese (giacché, anarchici, non esiste via di mezzo, o dittatura del proletariato esercitata dal suo partito, o dittatura della borghesia) sarebbe cento, mille volte più atroce. Quando ci si approssima al punto in cui tutto è salvo o tutto è perduto, la rivoluzione, questo eccesso della storia, arriva all’eccesso. Noi sappiamo che non solo la rivoluzione russa, tappa della storia dell’umanità, ma la stessa Comune di Parigi, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe conosciuto i suoi eccessi, come testimonia la decisione di tenere ostaggi e di fucilarne tre per ogni comunardo ucciso. Ma la stessa «comune di Kronstadt» vi sarebbe inevitabilmente arrivata.

Ci sono solo due vie, storicamente dimostrate (se non altro in negativo) perché la rivoluzione non arrivi ai suoi eccessi; e sono la lealtà al governo comunista da parte delle classi più prossime al proletariato, e il concorso nella lotta di forze nuove rivoluzionarie provenienti da altri paesi. Non c’è altra via. Volere la rivoluzione e non volere i suoi eccessi, significa semplicemente non volere la rivoluzione. Noi vogliamo la rivoluzione, e se la storia riserverà alla prossima rivoluzione di conoscere ancora eccessi, tanto peggio, ma noi non la rinnegheremo per questo.

Non è perché la borghesia si centralizza che il proletariato deve rinunciare a centralizzare le sue lotte. Non è perché la borghesia rinforza la sua dittatura, che il proletariato rinuncia a stabilire la sua. Non è perché la borghesia tende ad unificarsi politicamente, che il proletariato deve rinunciare al suo partito unico, organo di direzione della lotta rivoluzionaria e della dittatura rossa proletaria.

Quella di Kronstadt fu un’autentica tragedia del proletariato non solo russo ma mondiale, in quanto solo un diverso decorso della rivoluzione internazionale avrebbe potuto evitarla. Nell’ora del pericolo maggiore i rivoluzionari russi furono completamente isolati e ridotti alla fame. Fu giocoforza rivolgere le armi contro migliaia di marinari e operai perché almeno in Russia la bandiera della rivoluzione non venisse ammainata. Che, alla lunga, anche questa tragedia sia risultata inutile, è un fattore che non va minimamente imputato ai compagni bolscevichi, ma al tradimento dei partiti socialdemocratici occidentali che, con la loro notevole influenza sul proletariato dei loro paesi, fecero muto e contro la rivoluzione russa e contro i tentativi rivoluzionari che essa favorì in Europa.

La questione delle sorti della Rivoluzione Russa, che ha pesato come in incubo su tutta una generazione incapace di risolvere l’«enigma dello stalinismo», fu definitivamente risolta dalla liquidazione della frazione internazionalista del Partito bolscevico nel 1927 e da tutti gli avvenimenti successivi. A queste opposizioni vinte si possono applicare le seguenti parole di Engels:

«La peggior cosa che possa accadere a un partito estremista è di essere costretto ad assumersi l’onore del governo in un’epoca in cui il movimento non è ancora maturo per assicurare la dominazione delle classe che esso rappresenta, prendere i provvedimenti che questa dominazione implica. Esso si trova necessariamente chiuso in un dilemma. Ciò che può fare è in contraddizione con tutte le sue azioni precedenti, tutti i suoi principi e gli interessi presenti del partito. Ciò che deve fare non può essere condotto a ‹buon fine›» («La guerra dei contadini in Germania»).

Notes:
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  1. Il gruppo di Bubnov e Sapronov, si chiamava centralismo democratico per la particolare insistenza con cui portava avanti le rivendicazioni di democrazia proletaria nel partito (rispetto quindi delle norme rivoluzionarie del centralismo democratico) chiedendo l’eliminazione degli elementi non proletari dal partito e la sua sburocratizzazione. Più tardi, insieme ai superstiti dell’opposizione operaia, sarà una delle frazioni più «radicali» in seno all’Opposizione di sinistra, tendendo alla formazione di un nuovo partito. [⤒]


Source: «Partito Comunista Internazionale (Bolletino)», N° 28, Febbraio 2000, p.67–82

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