Circa il contributo di Lenin alla conferenza dell’Aprile (24 – 29 aprile; 7 – 12 maggio stile europeo) 1917, ci resta da esaminare la questione nazionale. Abbiamo qui il testo della risoluzione che Lenin propose, e uno scorcio dei concetti di essa in un opuscolo del 10 Aprile (subito dopo le Tesi del 4 già illustrate)[43]. Da altra pubblicazione non completa come fonte può trarsi un cenno della discussione.
Secondo tale fonte il merito principale dell’impostazione della questione nazionale è dato a Stalin, relatore ufficiale.
È possibile che Stalin abbia così inteso rifarsi della sconfessione della politica da lui seguita verso il governo provvisorio borghese e i partiti opportunisti dei Soviet: comunque, l’intervento decisivo fu di Lenin e determinò le conclusioni della conferenza.
Indubbiamente è giusto dire che le nazionalità oppresse dallo zarismo (cento razze, cento lingue, soleva dirsi, in un solo Stato e sotto un autocrate solo) rappresentavano una parte immensa nella lotta impegnata nel 1917 per la fondazione di un nuovo potere, il suo passaggio a una nuova classe. L’esito della rivoluzione dipendeva, in gran parte, dal sapere se il proletariato sarebbe riuscito a trascinarsi dietro le masse lavoratrici delle nazionalità oppresse. Questo è un fatto: si pensi alla sola Polonia, ove i più feroci pogrom zaristi avevano maciullato nazionali polacchi ed ebrei; ed ivi l’odio non era solo per lo zar ma per Pietrogrado, per la razza russa, dominante nell’impero storico. Altro decisivo rilievo storico è che il governo provvisorio borghese era propenso a continuare la vecchia politica di strangolamento e di oppressione delle nazionalità: reprimeva i moti nazionali, discioglieva le organizzazioni del tipo della Dieta di Finlandia. Per i partiti borghesi e piccolo-borghesi, in relazione alla situazione di guerra per cui vaste zone dell’ex impero erano nelle mani dello straniero tedesco, è vero che restava prima parola d’ordine quella della «Russia una e indivisibile», come sotto lo zar in cui era perfino Santa.
Non meno storico è che solo i bolscevichi prendevano posizione contro questa parola d’ordine feudale, dichiarando apertamente che i popoli delle nazioni oppresse avevano il diritto di disporre della loro sorte. Il testo popolare che abbiamo qua e là parafrasato nel suo poco rigore attribuisce questo diritto ai «lavoratori», ma la formula si riferisce senza ambagi ai popoli.
Si dice poi che era Stalin che aveva elaborato con Lenin i principi della politica nazionale bolscevica, e che nel suo rapporto svelò la politica di brigantaggio del governo e denunziò senza pietà i conciliatori piccolo-borghesi a rimorchio della borghesia. Orbene la questione della paternità delle direttive secondo i nomi degli uomini illustri non è quella che ci preme, è noto, e al suo punto diremo dei contributi di Stalin sulla questione nazionale in genere (vedi il nostro «Razza e Nazione nella teoria marxista»). Quello che è certo è che lo svolto dell’Aprile, contro il Governo provvisorio e gli opportunisti dei Soviet, investe la questione nazionale come quella della guerra e della pace, della attitudine verso il Governo provvisorio e il dualismo dei poteri, delle misure economiche e agrarie e così via. Chi avesse visto giusto nella politica reazionaria dei borghesi e piccolo-borghesi sul punto delle nazionalità, avrebbe dovuto vedere giusto su tutto, e non organizzare la conferenza di cui trattiamo nella direzione della «benevola attesa» verso il governo fino alla Costituente, e di una fusione coi menscevichi!
Possono assumersi i punti che si attribuiscono a Stalin, ma troveremo nella risoluzione da Lenin stilata:
a) riconoscimento del diritto dei popoli a separarsi (che significa riconoscerlo ai lavoratori? nulla);
b) per i popoli riuniti in un dato Stato, autonomia regionale;
c) per le minoranze nazionali, leggi speciali che garantiscono il loro libero sviluppo;
d) per i proletari di tutte le nazionalità di un dato Stato. una organizzazione proletaria unica indivisibile, un unico partito.
Ora qui, se non soccorre la dialettica, non se ne viene fuori, come non ne venne fuori la sinistra bolscevica di allora. E questa la soluzione della questione nazionale per una società comunista? No certo. È la sua soluzione in una rivoluzione borghese democratica conseguente.
Ma alla data 1917 e in fase di capitalismo imperialista, conquistatore, brigantesco, oltremare ed entro Europa la borghesia di ogni paese e russa soprattutto è del tutto incapace a tener fede ai tanti incensi letterari (più che storicamente concreti) bruciati ai tempi ottantanovisti e quarantotteschi per l’autonomia delle piccole nazionalità e la loro liberazione (che, se avvenne, fu per insurrezioni e guerre di indipendenza, e non per affrancamenti dall’alto).
Un tale programma, come tanti di quelli di natura sociale agraria ed urbana, sub-socialisti ed ancora democratico-borghesi, può essere assunto e attuato solo da un potere proletario che afferri il timone del processo rivoluzionario antifeudale: la chiave di tutto il problema sta sempre li, nelle precedenti teorizzazioni di partito, nelle lezioni della storia debitamente interpretate dal 1900 ad oggi, e con legame a quanto in teoria e politica stabilì Marx a partire dal 1848, ad esempio in ordine alla classica questione di Polonia, da noi a fondo trattata.
Ma Pjatakov, marxista da non buttar via, sostenuto da alcuni membri della conferenza, fece un altro rapporto sulla questione nazionale. Pjatakov fu fatto fuori in seguito, e ci serviamo del riferimento che abbiamo. Egli avrebbe affermato che in un’epoca in cui l’economia mondiale ha stabilito legami indissolubili tra molti paesi, lo Stato nazionale costituisce una tappa storca già superata:
«La rivendicazione dell’indipendenza appartiene ad un’epoca storica già sorpassata», egli disse, «essa è reazionaria perché vuole far camminare la storia a ritroso. Partendo dall’analisi della nuova epoca, l’epoca dell’imperialismo, noi diciamo che al momento attuale non possiamo concepire una lotta per il socialismo diversa da quella condotta sotto la parola d’ordine ‹Abbasso le frontiere›, una lotta che tenda alla soppressione di tutte le frontiere fra le nazioni e gli Stati».
Riporteremo quanto attribuito a Lenin perché contiene un concetto di alto valore, e non allo scopo di livragare Pjatakov, come quelli che scrivono con animo «pubblicitario». Compagni che ragionano come qui si fa parlare Pjatakov ne conosciamo diversi, anche ottimi ieri ed oggi. Anche noi abbiamo cantato i versi di cui il vecchio Turati arrossiva: «i confini scellerati cancelliam dagli emisferi», né ripudiamo di aver cantato e… stonato. Ma altro è cantare, altro marxisticamente dedurre. Preconizziamo pure quella cancellazione e l’Internazionale della cultura e della lingua, o la mondiale fusione delle umane razze, ma nel seguire il corso storico guardiamoci bene dal dire e dal fare poetiche e liriche pistacchiate.
Lenin polemista non usava pannicelli caldi, ed avrà probabilmente parlato come si riferisce:
«Il metodo della rivoluzione socialista sotto la parola d’ordine 'abbasso le frontiere' è una confusione completa… Che diavolo significa il metodo della rivoluzione socialista sotto la parola d’ordine: abbasso le frontiere? NOI SOSTENIAMO LA NECESSITÀ DELLO STATO. MA LO STATO PRESUPPONE LE FRONTIERE… Bisogna essere dei pazzi per continuare la politica dello zar Nicola [che era, supponiamo abbia aggiunto Vladimiro, abbasso ogni frontiera che osi tagliare il territorio della mia Santa Corona]… La parola d’ordine ‹abbasso le frontiere› diventerà giusta quando la rivoluzione socialista sarà una realtà, invece di essere un metodo…»[44].
Fermatevi sulle parole che abbiamo maiuscolato. Sono grandi. Perché le ha dette in un momento felice il gigante Lenin? Può essere il gigante Engels, quando teorizza con frase cristallina: Due elementi definiscono lo Stato: un definito territorio, un armato potere di classe. Può essere, a dirle, il gigante Marx quando sul terreno teoretico, prendendosi dell’autoritario e accettando il termine, ridicolizza i libertari anarchici del 1870, che erudiscono il cosmo e la storia con gli abbasso a Dio, Padrone, Stato. Può essere un uomo normale come tutti noi, dal momento che senza nessun suo merito ad un certo svolto della sua vita la faccenda «gli entrò nelle chiocche» per non doverne più uscire. Le chiocche sono gli emisferi cerebrali, le meningi, la corteccia o quel che vi pare della naturale zucca.
Ancora oggi la cultura borghese pone la questione tutta qui: capitalismo vuol dire economia privata, socialismo vuol dire statizzazione. Da tempo nove socialisti su dieci seguendo l’andazzo pugnavano per esaltare lo Stato, e se al solito fine didattico prendiamo un momento l’Italia, si sapeva che gli anarchici «erano contro lo Stato», i socialisti marxisti (ahi ahi!) per la conquista dello Stato, sotto l’infelice formula dei «pubblici poteri».
Avevamo noi, bambini al tempo del congresso di Genova 1892, bisogno per dipanare la questione di leggere, verso il 1919, «Stato e rivoluzione»? Bastava a tanto mezza paginetta di Marx o di Engels, note e citatissime, acquisibili anche di quarta mano, e senza imbottirsi di erudizione.
Il marxismo è contro lo Stato in generale ed è contro lo Stato borghese in particolare. La società che è nel suo programma storico, essendo senza classi, è senza Stato. Ma il marxismo prevede che lo Stato sarà uno strumento rivoluzionario transitorio per appunto distruggere la classe dominante presente, dopo che la rivoluzione ne avrà distrutto lo Stato attuale.
Il marxismo conduce la lotta contro lo Stato borghese che solo dalla violenza sarà travolto. Ma in precedenti stadi storici il marxismo prevede l’utilizzazione di questo stesso Stato allorché distrugge lo Stato feudale, e in dati settori allorché colpisce i privati detentori del capitale con le sue disintossicate nazionalizzazioni. Prevede l’entrata in dati periodi negli organi dello Stato borghese prima a fine «stimolante», poi a fine «sabotante», e ad un certo tempo deve prevedere che si abbandoni questo terreno per quello dell’insurrezione e della presa di tutto il potere.
Un fatterello: alle volte alleggerisce l’esposto. Dal 1908 in Italia si cominciò dai marxisti a strappare il monopolio dell’azione rivoluzionaria ad anarchici e sindacalisti dell’allora moda soreliana, verbalmente estremisti ma in sostanza piccolo-borghesi, allo stesso tempo bollando l’ala riformista del socialismo. Ebbe una certa notorietà la «sinistra magistrale» coi compagni Dini, Capodivacca ed altri, pionieri dell’agitazione sindacale dei maestri, e solidi militanti del partito. Per il deputato ed avvocato Turati: i Dini, i Ciarlantini ed altri simili omini. Per il deputato ed avvocato Turati (certo non fesso nemmeno in marxismo, e con lui Treves ed altri) un marxista senza laurea non si concepiva.
Proprio il maestro Ciarlantini al congresso di Reggio Emilia 1912, dominato da Mussolini come alfiere della sinistra, fece un discorso, forse non da tutti capito ma meritevole di franca felicitazione, sul tema del socialismo contro lo Stato, per motivi marxisti e non anarco-soreliani.
Tutta la questione verteva allora sull’andare alle elezioni da intransigenti e non con gli obbrobriosi blocchi popolari, metodo di collaborazione di classe tra proletari e borghesi. Ci battevamo noi allora giovani per questo, ma sapevamo ben chiaro che la classe proletaria vuole essere sola non per penetrare nello Stato parlamentare, ma per distruggerlo con la rivoluzione[45].
Comunque, tornando a Lenin, egli con Marx ed Engels, e noi della platea, ha stabilito che ci serve lo Stato, e in certi casi lo Stato post-feudale quale ch’esso sia, un secolo fa anche borghese. Tutte le volte che questa macchina storica che è lo Stato ci servirà, ci servirà forza di armi politiche, militari, anche di polizia, e ci servirà un territorio tassativamente circoscritto: ci faranno gioco le frontiere.
Quando non ci sarà più feudalismo, quando non ci sarà più borghesia e non ci saranno classi e meglio forme economiche e produttive di classe, ossia quando non ci saranno più proletari, allora, come Engels disse, butteremo via lo Stato nei ferrivecchi, butteremo via gli ultimi Stati, e solo allora cadranno le ultime frontiere nazionali.
Non certo appena avremo preso il potere in un paese di grande capitalismo moderno; tanto meno quando avremo preso il potere nella feudale Russia del 1917. E allora, dice Lenin a Pjatakov, non mi dici nulla con la frase: non più frontiere. Mi devi dire: le frontiere del territorio Románov, o altre? e quali?
Arde la questione dell’Aprile 1917 adesso ancora. In questi giorni grida la Francia borghese che l’Algeria africana e nera sta entro le sue frontiere di «République une et indivisible». Rinfaccia a quella ancora più centralista dei Soviet di assoggettare popoli entro una cortina dilatata rispetto a quella Santa di Nicola.
Il marxismo per risolvere tali punti fiammeggianti non si può fondare sul grido caldo ed ingenuo dei Pjatakov. Ben altro bisogna, quando per muovere le frontiere occorrerebbero torrenti di energia storica, e scarse si mostrano quelle dell’Internazionale operaia, che le dovrebbe cancellare dalla lavagna sferoidica del pianeta.
Il bilancio di questo scontro sulla questione nazionale si fa dai testi cominformisti al modo noto.
«Ciò che univa L. Kamenev e I. Pjatakov [disinvoltamente non si dice che il primo e Stalin, poco prima e anche poco dopo di Aprile, sostennero lo stesso indirizzo!] era l’incomprensione dei compiti della rivoluzione e attirava il partito nel pantano menscevico [e Stalin che aveva redatta e rimangiò la mozione di unificazione con quelli, che faceva?]; Pjatakov, senza dichiararsi in questa questione apertamente [tutti quelli che non sono oggi in santità sono stati, a tale stregua, sempre mefistofelicamente simulatori!] contrario alla tesi di Lenin, condannava praticamente la rivoluzione all’isolamento e alla disfatta. Il partito lottava su due fronti: contro l’opposizione opportunistica di destra e contro l’opposizione di sinistra»[46].
E si seguita a ripetere che le principali questioni della conferenza le esauriscono i rapporti di Lenin e Stalin, per cancellare, non frontiere come voleva lo sventurato Pjatakov, ma il ricordo, ogni ricordo del fatto che allora l’opposizione di destra significava Stalin, giusta i dati incontrovertibili e le testimonianze da noi addotte.
Comunque l’opposizione di sinistra avrebbe detto: Se prendiamo il potere rivoluzionario totale a Mosca e Pietrogrado, saremmo fessi a mollare Varsavia, Kiev, Charkov, Odessa, Baku, Batum e così via: sarebbe un regalo alla controrivoluzione fatto in nome di un nostro teorico rispetto di scuola al «diritto di separarsi». Quale razza e nazionalità ha mollato Stalin, ortodosso allora contro errori di sinistra, nella questione nazionale? Fu la vicenda alterna di guerre che fece sorgere la libera Finlandia borghese, anche oggi rispettata, e la libera Polonia, risolutamente, Hitler aiutando, ripappata nel 1940.
Sarà dunque il caso di tornare al testo originale di Lenin, risoluto su questo punto quanto mai.
Prima è bene rilevare che i vari cuochi di quella cucina non sempre sono all’unisono. La ben nota Storia ufficiale del Partito dice che il relatore sulla questione nazionale, Stalin, aveva insieme a Lenin elaborato, ecc. ecc., poi riporta la risoluzione lasciando credere che sia redatta dal relatore Stalin, come ovvio. Ma invece nelle «Opere scelte» di Lenin edite a Mosca figura lo stesso testo della risoluzione, pubblicata nella «Soldatskaia Pravda» del 3 maggio 1917, come in calce, e compresa nel volume: «Scritti del 1917» di V. I. Lenin, Vol. I, pp. 352–353, ed. 1937[47]. Quale delle due la verità?
Una prima bella breve formulazione è nell’opuscolo scritto subito dopo le Tesi del 4 Aprile. Il capitolo sulle questioni agraria e nazionale è ottimo anche per la prima: insiste sulla divisione tra il Soviet rurale dei braccianti salariati e semi-proletari (quelli, sia detto una centesima volta, che hanno un lembo di terra, ma non ci possono campare e devono lavorare a salario giornaliero qua e là in altre maggiori aziende) e il Soviet generico dei contadini, contro la
«dolciastra fraseologia piccolo-borghese dei populisti sui contadini in generale, velante l’inganno della massa non abbiente da parte dei contadini agiati, i quali sono soltanto una varietà di capitalisti»[48].
In che dunque il qui schiaffeggiato populismo differisce dall’odierna politica agraria dei cominformisti, poniamo in Italia, ove amoreggiano perfino coi grandi fittavoli?!
Lenin chiese, allora, che in ogni azienda confiscata ai fondiari (confisca che gli opportunisti volevano sospesa in attesa della… Costituente) sorgesse una grande azienda modello tenuta sotto il controllo dei Soviet. E aggiungeva:
«Il partito del proletariato, in antitesi alla fraseologia e alla politica piccolo-borghesi che dominano tra i socialisti-rivoluzionari, soprattutto alle loro chiacchiere sulle norme di ‹consumo› o di ‹lavoro›, sulla ‹socializzazione della terra›, ecc., deve spiegare che il sistema della piccola azienda in regime di produzione mercantile, non è in grado [corsivo di Lenin] di emancipare l’umanità dalla miseria e dalla oppressione delle masse».
Detto ancora che né democristiani né «comunisti» in Italia mostrano di essere menomamente sensibili a un tale obiettivo, e covano nidiate di sterili miserabili aziende familiari, che uccidono tanto la squallida Basilicata quanto la magnifica Sicilia, torniamo a bomba sulla questione nazionale: anzi diamo tal quale il brano di Lenin (punto 14 dell’opuscolo):
«Nella questione nazionale il partito del proletariato deve rivendicare anzitutto la proclamazione e la realizzazione immediata della piena libertà di separazione dalla Russia di tutte le nazioni e nazionalità oppresse dallo zarismo, unite o mantenute con la forza nei confini dello Stato, cioè annesse.
Tutte le dichiarazioni, i proclami, i manifesti sulla rinuncia alle annessioni, che non implichino l’effettiva libertà di separazione, si riducono ad un inganno del popolo da parte della borghesia o a pii desideri piccolo-borghesi.
Il partito proletario tende a creare uno Stato [udite!] quanto più possibile vasto, poiché ciò è nell’interesse dei lavoratori; esso tende all’avvicinamento e poi alla fusione delle nazioni, ma vuole raggiungere questo obiettivo senza violenza, attraverso l’unione libera e fraterna delle masse operaie e lavoratrici di tutte le nazioni.
Quanto più la repubblica russa sarà democratica, quanto meglio si organizzerà in repubblica dei soviet dei deputati operai e contadini, tanto più sarà vigorosa la forza di attrazione che porterà liberamente verso di essa le masse lavoratrici di tutte le nazioni.
Piena libertà di separazione, la più ampia autonomia locale (e nazionale), garanzie minuziosamente definite dei diritti delle minoranze nazionali: ecco il programma del proletariato rivoluzionario«[49].
Le grandi questioni storiche che qui si presentano, e la cui prospettiva imbarazza non pochi compagni, si seguono meglio in base alla risoluzione sviluppata. Naturalmente l’impostazione del problema si sposta.
Siamo (a) in un regime a periodo feudale e peggio asiatico-dispotico? Diamo mano completa ai movimenti di libertà nazionale, che nelle famose tesi del 1920 al II Congresso dell’Internazionale Comunista (accettate dalla sinistra italiana, che dissentiva fieramente da quelle tattiche per i paesi avanzati nel capitalismo) si dibatté se definire: demo-borghesi o nazional-rivoluzionari. I due termini invitavano a mangiare, con esofago comunista e marxista, lo stesso piatto dalla ingrata presentazione: nei detti luoghi, tempi e modi sociali, e purché si tratti di dare mano ai fucili, si fa blocco non solo con le masse non proletarie, ma con le stesse borghesie. Questo è quanto[50].
Siamo invece (b) all’indomani della caduta del feudalesimo e in una repubblica diretta dalla borghesia che non si decide a farla finita con la questione della guerra e della terra? Bisogna imporle la liberazione delle nazionalità chiuse nello Stato ex-feudale, che intendano separarsi. Ciò vuol dire concretamente che il quesito non sarà posto a una consultazione «panrussa», ma si ammetteranno consultazioni nazionali periferiche.
Siamo (c) per andar oltre, non alla società socialista, ma ad una Repubblica socialista che fondi il potere sui Consigli degli Operai e Contadini? Ebbene saremo coerenti, in attesa di forme sociali superiori e soprattutto della rivoluzione internazionale, proclamando che i Soviet delle nazionalità saranno liberi di decidere la loro separazione o meno dall’unico Stato.
Premettiamo che la questione non è la stessa delle Repubbliche unite in Federazione, di cui a suo tempo, in quanto anche nella Repubblica Socialista Sovietica Russa quasi tutte le nazionalità e le razze in gioco sono in minoranza rappresentate, e le varie Repubbliche federate ed autonome non corrispondono, e non lo potrebbero, a lingue e razze uniformi.
All’indomani della conquista del potere manterremo il principio di separazione, ma sulla sua attuazione influiranno le guerre civili e militari, o meglio con Stati che abbiano inviato corpi controrivoluzionari di invasione, variamente operanti in tutte le regioni dell’immenso territorio.
Ad un certo punto la grande battaglia del 1920 alle porte di Varsavia deciderà un grande svolto, meglio che non farebbe una sollevazione operaia polacca, e la decisione di un Soviet Nazionale polacco sulle «frontiere» da proclamare.
Il procedere della risoluzione è storico.
«La politica di oppressione nazionale, eredità dell’autocrazia e della monarchia, è sostenuta dai grandi proprietari fondiari, dai capitalisti e dalla piccola borghesia, allo scopo di difendere i loro privilegi di classe e di dividere gli operai delle diverse nazionalità. L’imperialismo moderno, rafforzando la tendenza a sottomettere i popoli più deboli, rappresenta un nuovo fattore di aggravamento dell’oppressione nazionale»[51].
Si risale alla tesi storica fondamentale dei marxismo che, per il pieno sviluppo della forma capitalista di economia e lo scioglimento di tutta la società europea dai lacci feudali, fu necessaria la sistemazione, con insurrezioni interne e guerre nazionali, in Stati fondati su una nazionalità; fu ed era necessario liquidare tutti gli storici Imperi infracontinentali, di cui duri a morire furono quelli di Vienna, di Berlino, di Costantinopoli, durissimo quello di Pietrogrado.
Se quindi il modo capitalista di produzione lega il suo sorgere nei campi europei alla libera sistemazione delle nazionalità, a cui i proletari sono direttamente interessati, nella ulteriore fase imperialista esso, nella concezione di Lenin, si viene a risaldare alla oppressione. La lotta per i mercati extra-continentali e di oltremare conduce a potenti apparati di forze statali e a contese guerresche continue, tendenti al dominio politico sui paesi degli altri continenti. Quando sul piano delle grandi guerre gli imperialismi si scontrano per derubarsi a vicenda delle colonie e dei possedimenti, anche quelli di pieno sviluppo capitalista e democratico volgono i loro appetiti alla conquista a danno altrui delle province europee, e a seconda degli esiti delle guerre i piccoli paesi e popoli passano da una ad altra mano.
All’ideologia della liberazione nazionale europea e generale si surroga l’altra dell’espansione della moderna civiltà: questa è dapprima impiegata a giustificare il soggiogamento, la schiavizzazione e la stessa distruzione di popoli e razze di colore, infine viene a prendere la forma della richiesta, nella metropoli, di province di frontiera contese in punti nevralgici: l’Alsazia Lorena, la Venezia Giulia, la regione di Danzica, i Sudeti, i Balcani. Da queste contese nasce la solidarietà dell’opportunismo socialista con il capitalismo imperiale, nasce l’epidemia del difesismo, in quanto da ogni lato si cela il desiderio di conquista sotto le frasi del salvataggio della propria sviluppata civilizzazione da minacce aggressive.
Quello stesso socialismo che si diceva contro tutte le annessioni divenne il fautore di tutte le guerre. Se si ammette il sofisma che un popolo dai modi di produzione più avanzati ha «il diritto» di governare i meno progrediti, sofisma di cui tutti i paesi d’Europa hanno conosciuto i delitti, l’idea borghese di libertà dei popoli e di uguaglianza delle nazioni, storicamente in sé stessa vuota, si svolge in quella dell’oppressione e della conquista.
Avendo rotto al tempo stesso con lo zarismo alleato in Europa di tutte le sopraffazioni di nazione e di classe, e con l’opportunismo del 1914 consacrante l’omaggio del proletariato a tutte le guerre borghesi, la rivoluzione russa non poteva che prendere la direttiva di finirla con le guerre di espansione e conquista e di offrire la libertà a quei paesi che le conquiste violente avevano inclusi nello Stato russo.
Lenin premette il concetto che una repubblica borghese, ma di democrazia sviluppata al limite estremo, può consentire una convivenza di popoli e lingue senza predominio di uno: egli si riferisce, è chiaro, alla Svizzera, ove non vi è una, ma tre lingue ufficiali dello Stato. Ed aggiunge:
«A tutte le nazionalità che compongono la Russia deve essere riconosciuto il diritto di separarsi liberamente e di costituirsi in Stato indipendente».
Egli dice che una diversa politica fomenta gli odi nazionali e il sabotaggio della solidarietà proletaria internazionalista. Cita il caso della Finlandia ed il conflitto sorto col Governo borghese di Pietrogrado, sostenendo che alla Finlandia, tolta dal giogo zarista odiatissimo, deve consentirsi la separazione.
In quanto non si giunga ad una separazione statale, il partito deve sostenere una larga autonomia regionale e l’abolizione della lingua ufficiale obbligatoria, chiedere che la nuova Costituzione vieti ogni privilegio nazionale e ogni violazione dei diritti di minoranze nazionali.
I lettori ricordano alla relazione di Trieste sui «Fattori di razza e nazione» la parte dedicata agli scritti di Stalin sulla linguistica[52]: le teorie secondo cui una rivoluzione di classe non comporta un’interruzione della funzione storica della lingua nazionale si riferivano alla lingua russa, divenuta di fatto lingua della Repubblica dei Soviet e di tutta l’Unione. La nostra critica di questo punto valse a provare che questa esigenza storica di una lingua statale uninazionale è altra prova del carattere borghese assunto dalla rivoluzione, e vane sono le storture teoriche per giustificare sul piano marxista quella esigenza. Dove è dunque finita l’opposta rivendicazione dello Stato che anzitutto propone alle minoranze nazionali di separarsi statalmente, e se non lo chiedono le accoglie in una amministrazione polilingue, tipo svizzero? Torneremo a suo luogo a considerare se il grande impalcato statale russo di oggi abbia una lingua nazionale unica, di diritto e di fatto, uno dei lati oscuri che definiscono una struttura imperiale.
È qui che veniamo al famoso punto su cui Stalin, nel 1913, aveva avuto a collaborare con Lenin per la questione nazionale, in contraddittorio con la socialdemocrazia austriaca dell’anteguerra; punto che nel 1917 Lenin ribadisce. Era la proposta dei socialisti dello «Stato mosaico» degli Asburgo. Essi concedevano che l’amministrazione dello Stato fosse unica politicamente e burocraticamente, nella finanza, nell’esercito e così via (a parte il rapporto di parità tra Austria e Ungheria, unite nella Corona) e propugnavano che a tutti i popoli subordinati: slavi, ottomani, latini, si concedesse
«lo stralcio degli affari concernenti l’istruzione pubblica e le materie affini dalla competenza dello Stato centrale, per rimetterle nelle mani di Diete nazionali sui generis»
non aventi altro potere. Ciò divide artificialmente, Lenin aggiunge ora, gli operai che abitano in una stessa località, magari lavorano nella stessa officina, rafforza il loro legame con la cultura borghese delle singole nazioni mentre i socialisti invece si propongono
«di rafforzare la cultura internazionale del proletariato mondiale»[53].
Nello studio del giovane Stalin che colpì Lenin e sua moglie era appunto svolto il tema che la soluzione dell’autonomia scolastica, universitaria, culturale, era tesi di destra e opportunista, mentre era rivoluzionaria la tesi della separazione dallo Stato austro-ungarico delle province italiane, slovene, croate, ottomane, serbe, romene, ceche e slovacche, della frattura di questo Stato, sebbene esso fosse compito non necessariamente di una rivoluzione socialista – che all’opposto avrebbe potuto riunire quei popoli su ben diverso piano – ma di una rivoluzione borghese e di una guerra di sistemazione, come per l’Austria fu la prima europea, come erano state per l’impero ottomano le precedenti balcaniche.
Questa tesi è coerente alla considerazione marxista delle questioni nazionali, che con ampi sviluppi mostrammo non potersi ridurre alla negazione delle nazionalità come odierno fatto storico, e fu allora ben difesa. Ma mentre nel 1917 Lenin impegna ad essa la rivoluzione russa, che non è una ribellione nazionale, ma lo sconvolgimento storico dello Stato che tante nazionalità teneva inchiodate nella sua rete, possiamo ben chiederci quale sviluppo abbia avuto quella tesi negli anni seguenti, e quale tipo di Stato, in riguardo alla libertà di movimento di nazioni e regioni, sia quello dell’U.R.S.S. costruita nel nome di Stalin e che appare come un formidabile monoblocco, mentre Stalin rivendica la tradizione e il merito di super-autonomista nazionale. Coerentemente al pensiero di Lenin il successivo passo della Russia, che potesse superare sia il servaggio che lo spezzettamento nazionale, poteva esser fatto solo in compagnia della rivoluzione proletaria europea. Dato che questa mancò, la Russia si ordinò in un super-stato concentrato ed unitario nelle forze armate interne ed esterne; squisita forma del moderno capitalismo.
Sempre i marxisti radicali avevano combattuta la formazione di partiti nazionali nel seno di uno stesso Stato, che si dicevano socialisti (Polonia, Boemia, ecc.). In Russia la questione, quanto a movimenti dei sindacati operai e ad organizzazione del Partito, già socialdemocratico, era scottante. Lenin aveva sempre sostenuto un partito unico per tutto lo Stato russo. La questione fu particolarmente viva col Bund ebreo, partito di vivace azione rivoluzionaria e di dottrina marxista, accettato nei congressi russi ed internazionali ma restio a fondersi col partito socialista, e poi comunista, comprendente indifferentemente militanti di tutte le nazionalità. Lenin ribadisce questo punto con le parole:
«Gli interessi della classe operaia esigono che gli operai di tutte le nazionalità della Russia si fondano in organizzazioni proletarie uniche: politiche, sindacali, cooperative, educative, ecc. Soltanto una tale fusione degli operai delle diverse nazionalità in organizzazioni uniche permetterà al proletariato di condurre una lotta vittoriosa contro il capitale internazionale e il nazionalismo borghese»[54].
Queste formule finali mettono nel giusto rapporto il costante perseguimento dell’internazionalismo sia nel movimento proletario che nella futura organizzazione socialista della società, e la lotta contro il nazionalismo «immanente» dei borghesi, con le soluzioni storiche che nelle grandi tappe e le grandi aree abbiamo il dovere di trovare e dare alle questioni di razza e di nazione. Quanto abbiamo detto con ampiezza a proposito della fondamentale conferenza di Aprile 1917, che traccia tutto il quadro della Rivoluzione di Russia saldando strettamente il passato e il futuro del movimento, che anche per facilità di esposto in Lenin si personifica, integra storicamente quanto abbiamo in dottrina svolto nel più volte citato rapporto di Trieste, che come i compagni ricordano svolse la questione di razza e nazione, nell’applicazione storica, fino alla prima grande guerra mondiale e nei limiti del campo europeo centro-occidentale, e si riservò la presente applicazione alla Russia e quella di una futura stesura per l’Oriente e l’Asia, oralmente svolta a Firenze[55].
Ogni elasticità giusta, alla scala storica e della geografia mondiale, è possibile, sul piano dottrinale marxista ben chiaro, a condizione che sia rispettata la condizione Leniniana dell’organizzazione unica pluri-nazionale entro ogni Stato, e dell’unione internazionale di essa: di quella Internazionale Comunista che sulle orme della staliniana declinazione – monolingue – si liquidò chiassosamente non meno che servilmente, e dovrà un giorno risorgere come Unico Partito Comunista, con sezione in ogni Stato territoriale.
Una prova di scarso internazionalismo che dettero i vari Graziadei, Serrati, Cachin, e così via[56] fu appunto di non capire la questione nazionale del mondo fino ed oltre gli Urali e il Mediterraneo, perché quei dati non erano quelli della loro politica di paese d’origine.
Al solo fine di rendere più intelligibile la costruzione di Lenin per la Russia e il mondo extraeuropeo, che si mostrò veramente profetica, e soprattutto strettamente ortodossa in marxismo, ancora una volta ci ripiegheremo sull’esempio dell’Italia, e ci domanderemo se e da quando era giusto dire: Da noi la questione razziale e nazionale non esiste; quindi il nostro partito (ma questo sarebbe giusto proprio se esso fosse nazionale!) si occupa solo di questioni di classe. Bello, ma insignificante.
Lo Stato borghese nazionale italiano si è formato tardi, nel 1861, da guerre e da insurrezioni di una giovane borghesia, cui il proletariato dette la piena sua partecipazione. Benché sorgesse uno Stato di razze miste nel senso etnografico, tutto concorse (e, oltre alla tradizione democratica alla francese, quella stessa del cattolicismo, della Internazionale chiesastica) a liquidare le questioni razziali: un russo o anche tedesco si meravigliava a sentirci dire che non sapevamo se un concittadino fosse ebreo o di religione non cattolica: l’eguaglianza delle condizioni di vita era totale non solo giuridicamente ma nel fatto e nel costume.
Rapidamente su un tale sfondo laico si disegnò, sebbene tarda l’economia capitalista apparisse tra noi nelle forme recenti (aveva ben altre tradizioni dal Nord al Sud, da Palermo a Milano), la lotta di classe del proletariato della città e della campagna.
Nel 1911 il partito proletario si spogliò delle ultime ubbie nazionali: denunziò la celebrazione del cinquantenario dell’unità clamorosamente, e nello stesso tempo si liberò dalla alleanza con la piccola borghesia contro pretesi ceti retrivi, mentre di essa più retrivo non ne esiste nessuno.
Restò sullo stomaco della borghesia una questione nazionale negativa, irredentista. Un onesto radicale borghese della fine del secolo sentiva che sarebbe venuta la quarta guerra e la chiamava in anticipo «la prova del fuoco»; e l’Italia borghese ne uscì bene per l’andamento della guerra imperialistica, ma senza l’appoggio del proletariato, che seppe rendersi indifferente.
Il proletariato socialista aveva fatto buone prove (non sono meriti, ma facilitazioni date dalla storia) nelle posizioni antimperialiste ed antiannessioniste nelle dure imprese africane della fine ottocento e del 1911–12; aveva imparato a disonorare la tesi che corruppe molti marxisti: Giusta la guerra se ad un popolo barbaro porta ordinamenti moderni e civili[57].
In un certo senso il proletariato italiano nel 1918 si trovò non impacciato nelle questioni nazionali negative (irredentismo) e positive (impero) nelle quali la borghesia si era da sola impegnata, e si sentì pronto, nel quadro interno, ad andare avanti ed ingaggiare battaglia di classe.
Se questa battaglia, che non occorre riandare negli episodi gloriosi e ingloriosi, fu perduta, si deve anche a insufficiente impostazione delle lotte nel quadro internazionale, a sottovalutazione del ben più nutrito imperialismo che aveva in Inghilterra, Francia, Germania, scavato il terreno sotto i passi della Rivoluzione Europea.
Se una rivoluzione russa non può attingere il vertice del suo ciclo senza una rivoluzione di Europa, soprattutto per il motivo delle scarse forme economiche, una rivoluzione italiana non lo può, non per le solite balle di regioni depresse e arretrate, ma perché geograficamente i fatti di Italia sono fatti internazionali, e la stessa rivoluzione borghese è andata avanti perché nelle guerre di sistemazione l’Europa dell’Ovest o quella dell’Est hanno travolto gli ostacoli conservatori. Qualunque dei due blocchi imperiali in cui l’Europa può dividersi abbia vinto può comandare in Italia, e in passato e in futuro questo paese dalle troppe frontiere confinerà con entrambi i contendenti. Non pecchino dunque i militanti italiani di troppo orgoglio per aver prima superato il male dell’opportunismo sciovinista. Non dicano che per la loro esperienza di politica vissuta all’interno possono dichiarare sorpassata la questione nazionale, o procedere a cassare quelle troppe frontiere.
Ciò non sarà prima di avere liquidata la questione di quelle di Europa, tra cui il problema tremendo delle due Germanie: la rivoluzione sola può unirle, ma la rivoluzione di Europa ha bisogno di una unità germanica, e di una dittatura operaia tedesca, più fragile presentandosi quella inglese o francese, per diverse ragioni.
Sarebbe proprio sciocco orgoglio nazionale chiudere gli occhi su questo punto, e non capire che abbiamo da imparare dalla rivoluzione di ieri in Russia, e perfino da quella di domani in Asia, per rompere il cerchio di cento condizioni che si pongono, in aspro cammino, tra noi e il socialismo[58].
Non sarà male, avendo riaperto l’argomento, aggiungere qualche altro cenno sulla questione nazionale nella Russia del 1917.
La tesi storica che il governo provvisorio fatto di borghesi e social-opportunisti, così come tendeva a continuare la guerra, manteneva la direttiva zarista di dominio su tutta l’indivisibile «Panrussia» e – cosa tipica – combatteva con misure di repressione i moti delle periferie di tipo nazionalista-borghese (laddove all’opposto i bolscevichi arrivavano alla disannessione al fine di raggiungere l’intesa rivoluzionaria internazionalista tra le classi operaie), ha riscontro in una serie di fatti.
Ucraina (un terzo della popolazione rispetto alla Russia europea, un nono del territorio). Petljura ed altri borghesi nazionali seguiti dai social-opportunisti formavano la Rada, che venne in contrasto col governo di Pietrogrado, chiedendo autodecisione, ma non separazione. Lenin disse modeste tali richieste e affermò che non si dovesse
«negare il pieno diritto dell’Ucraina a separarsi liberamente dalla Russia; proprio il riconoscimento senza riserve di tale diritto e, solo esso, permette di condurre una campagna per la libera unione degli ucraini e dei grandi russi; per l’unione volontaria dei due popoli in un solo Stato»[59].
In luglio vi fu un accordo tra Pietrogrado e Kiev; ma il 4 agosto fu revocato drasticamente e unilateralmente dal primo governo.
Finlandia (popolazione 3 per cento, territorio 4 per cento). Consentita la Dieta in base ad una precedente costituzione zarista, dopo un conflitto con essa il governo provvisorio nel luglio 1917 la disciolse con la forza. Lenin aveva scritto:
«Gli zar hanno praticato una politica brutale di annessioni barattando un popolo con l’altro d’accordo coi monarchi (smembramento della Polonia; compromesso con Napoleone sulla Finlandia, ecc.), così come i proprietari fondiari si scambiavano i contadini servi della gleba. La borghesia, diventata repubblicana, fa la stessa politica, ma in modo più sottile, camuffato […] Operai, respingete la politica annessionistica del Governo provvisorio nei confronti della Finlandia, della Curlandia, dell’Ucraina»[60].
Turkestan, Azerbaigian, Kirghizistan, Kazahstan, Uzbekistan, Tagikistan (territori nell’Asia centrale in parte, popolazione un settimo della Russia europea). Il governo provvisorio li amministrò dal centro col vecchio apparato burocratico degli zar, amnistiò i carnefici delle insurrezioni nazionali, impose a quei mussulmani e mongoli la lingua russa e la scuola russa.
Polonia. Qui il governo provvisorio fece il grande gesto di pubblicare nel febbraio 1917 la dichiarazione di indipendenza della Polonia russa. Ma il fatto è che i tedeschi occupavano tutto, e un anno prima avevano proclamata la stessa indipendenza! Dove occupavano i territori le truppe russe, i borghesi e opportunisti impedivano ogni «disannessione». La Polonia è il «test» classico della vessata questione nazionale: la sua funzione non comincia né finisce qui.
Un cenno sulla lingua. Il 29 marzo 1917 il governo provvisorio russo
«autorizza l’impiego di tutte le lingue e di tutti i dialetti nei documenti di società private, nell’insegnamento impartito nelle scuole private e nei libri di commercio».
La costituzione del 1918 (che consacra l’indipendenza di Finlandia, province persiane, Armenia, e il diritto di separazione nazionale) comprende tra i commissariati centrali del popolo quello dell’istruzione, sancisce il diritto generale all’istruzione gratuita, ma non parla dell’uso delle varie lingue.
La costituzione del 1936 (su cui dovremo in seguito intrattenerci) dice all’art. 121 che il diritto del cittadino all’istruzione è «nella lingua materna».
Lascia il dicastero dell’istruzione alle Repubbliche federate (che non sono tuttavia monolingui).
Non si parla dunque esplicitamente né di una lingua unica dello Stato né dell’equivalenza giuridica delle lingue.
Praticamente lo stesso pamphlet staliniano sulla linguistica, che pone il fattore lingua (vedi il rapporto di Trieste su «Razza e Nazione») fuori della determinazione economico-sociale e della «politica», è l’erezione di un piedestallo monumentale alla classica lingua russa storica letteraria, che non è più considerata lingua di nazionalità, ma lingua di Stato, per quanto plurinazionale.
Concetto che nella storia si accompagna, indissolubile, con una fase di dominio nella forma borghese-capitalista di produzione, se Marx è Marx.
In ordine a tale ciclo, e in relazione a quanto di Marx citammo in quel rapporto sulla guerra di Crimea e l’assedio di Sebastopoli: Voroscilov ha in questi giorni, in quella città, glorificata la resistenza eroica e patriottica nel centenario della difesa. Santa Russia![61].
Notes:
[prev.] [content] [end]
«La risoluzione sulla questione nazionale» si legge ora nel cit. volume XXIV delle «Opere», pagg. 311–312; l’opuscolo «I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione» del 10 aprile 1917, ivi, pagg. 51–80 (per la questione nazionale, pagg. 65–66). [⤒]
Lenin, «Opere», volume XXIV, pagg. 307–308 («Discorso sulla questione nazionale»). [⤒]
Cfr. per tutta questa intermezzo «italiano» la nostra «Storia della Sinistra Comunista», 1912–1919, cit., in particolare i paragrafi 9–12. [⤒]
«Storia del P.C. (b) dell’URSS». cit., pag. 206. [⤒]
Ora, come già detto, la risoluzione figura redatta da Lenin nel vol. XXIV delle «Opere». [⤒]
«I compiti del proletariato», ecc., in «Opere», XXIV, pag. 65. [⤒]
«I compiti del proletariato», ecc., in «Opere», XXIV, pagg. 65–66. [⤒]
Per le tesi del 1920 e il dibattito intorno ad esse, si veda la già citata «Storia della Sinistra Comunista», 1919–1920, pagg. 629–642 e 714–720, con rinvio anche ad altri testi. [⤒]
«Risoluzione sulla questione nazionale», in Opere, XXIV, pag. 311. [⤒]
Il capitoletto «Stalin e la linguistica» e i successivi punti 12–14, come i precedenti capitoletti su «Preistoria e linguaggio», «Lavoro sociale e parola» e , compresi nei suddetto Rapporto, si leggono nel nr. 17/1953 de «Il programma comunista». [⤒]
Lenin, «Risoluzione sulla questione nazionale», pubblicata ai primi di maggio 1917, in «Opere», XXIV, pag. 312. [⤒]
Lenin, «Risoluzione sulla questione nazionale», pubblicata ai primi di maggio 1917, in «Opere», XXIV, pag. 312. [⤒]
Riunione del 6–7 dic. 1953 su «Imperialismo e lotte coloniali» (nr. 23/1953 de «Il programma comunista»). Una successiva riunione a Firenze, il 25–26 genn. 1958, trattò poi ampiamente il tema: «Le lotte di classi e di stati nel mondo dei popoli non bianchi, storico campo vitale per la critica rivoluzionaria marxista» (resoconto ne «Il programma comunista», nr. 6 del 1958). [⤒]
Cfr. «Storia della sinistra comunista, 1919–1920», cit., pagg. 629–642. [⤒]
Per quanto sopra, cfr. la già citata «Storia della sinistra comunista, 1912–1919», pagg. 51 e segg. [⤒]
Successivamente, si è potuto utilizzare, circa la conferenza di Aprile, altro testo pubblicato nel 1928 in tedesco dal «Lenin Institut», e così rettificare o completare i brani di Lenin a proposito di Pjatakov, ed altri punti, convergendo ancor meglio nella valutazione data alla posizione di Lenin. Resta il dubbio che ponemmo in ordine alla persona del relatore: fu Lenin o Stalin? Ora dal detto testo risulta che il relatore designato era Stalin (co-relatore Pjatakov), ma si conferma che la risoluzione fu opera del solo Lenin, come da noi ampiamente riferito, e come dalla inserzione di essa nelle «Opere» di lui. Dall’altro canto il risolutivo discorso di Lenin, sebbene non si abbia completo, mentre conduce direttamente ai concetti della risoluzione da noi largamente riportata, non fa cenno alcuno della relazione di Stalin o di un suo discorso, tanto meno della vantata collaborazione.
Sappiamo che la conferenza era iniziata già in marzo, e che al suo arrivo Lenin ne sconvolse i piani. Stalin era programmato relatore, e, pare, tenne un discorso: se propose una risoluzione, questa fu poi messa da banda e sostituita con quella nota di Lenin, adottata ad unanimità in aprile.
È strano che quello stesso testo «popolare» stalinista che ci disse come Lenin sia stato relatore «della questione agraria e di quella nazionale» (in realtà sulla situazione politica e sulla questione agraria), rabberci poi questa scabrosa svolta con queste parole:
«L’attitudine del partito bolscevico nei riguardi della libertà nazionale è stata espressa con sufficiente chiarezza nella deliberazione votata alla conferenza di Aprile sul rapporto di Stalin, come pure [?] in una serie di articoli di Lenin e di altri bolscevichi».
Il meschino sforzo di trasferire all’individuo storico Stalin il merito della rimessa in rotta operata da Lenin al suo arrivo, su tutto il fronte, contro l’indirizzo fino allora tenuto dalla destra del partito ad opera principalmente di Stalin, è confermato dalle parole di Trotsky nel suo Stalin, cui nulla toglie il solito argomento che allora Trotsky non faceva parte del partito bolscevico, a proposito delle tesi sostenute dal futuro «padre dei popoli» nella conferenza svoltasi poco prima del ritorno di Lenin in Russia a favore di un appoggio sia pur condizionato al Governo provvisorio e di una fusione coi menscevichi:
«Per questa ragione la conferenza di marzo, nella quale Stalin fece una così chiara figura di intrigante, viene espurgata oggi dalla storia del Partito, e i suoi documenti ne sono conservati sotto chiave. Nel 1923 tre copie dei verbali della conferenza furono segretamente preparate per i membri del triumvirato Stalin, Zinoviev, Kamenev. Solo nel 1926, quando Zinoviev e Kamenev si unirono all’opposizione contro Stalin, io riuscii a farmi consegnare da essi l’importante documento, e potei pubblicarlo all’estero in russo e in inglese». (L. Trotsky, «Stalin», cit., pag. 268).
Brani della relazione di Stalin alla suddetta conferenza del 29–30 marzo, tratti dal verbale inedito, si leggono in L. Trotsky, «Storia della rivoluzione russa», cit., I, pagg. 329–333. [La presente nota risale alla pubblicazione del testo ne «Il Programma Comunista». Fonti successive hanno confermato l’intervento di Stalin come relatore, su posizioni reciprocamente contrastanti, nelle conferenze di marzo e di aprile, cioè prima e dopo il ritorno di Lenin. Il rapporto Stalin alla VII conferenza si legge ora nel vol. III delle «Opere complete», Roma 1951, pagg. 63–72, insieme al discorso di chiusura, senza però quelli del marzo!]. [⤒]«L’Ucraina», 15/28 giugno 1917, in «Opere», XXV, pagg. 83–84. [⤒]
«Finlandia e Russia», 2/15 maggio 1917, in «Opere», XXIV, pagg. 348–349. [⤒]
All’impazienza di Marx per il ritardo nella presa di Sebastopoli, come all’entusiasmo di Lenin per la caduta di Port Arthur ad opera dei giapponesi nel 1905, in contrasto con il… lutto nazionale per le due sconfitte decretato da Stalin e successori in questo dopoguerra, è dedicato il paragr. 15 della I Parte di «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», cit. [⤒]