Intermezzo[126]
Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVI)
Ricerca critica di parte e dialoghi col nemico
Saldatura autogena
Non trovi il lettore scocciante e faticoso il fare quasi ad ogni ripresa il punto di tutto il cammino. Pedanteria è termine che abbiamo ormai passato a titolo di onore, con altri vari e noti. Ordine, continuità e concatenazione derivano dal nostro attaccamento dichiarato e sempre crescente al metodo teorico di lavoro, e alla nostra esecrazione per l’opera improvvisata, contingente, occasionale, situazionista, ispirata da velleità, pruriti o disfunzioni biologiche nel cervello degli interventori; dalla caccia facile e beota al consenso, al successo, e basta.
La nostra trattazione sulla Russia era stata svolta per la prima parte (la lotta di classe per conquistare il potere e per difenderlo), ed appena iniziata per la seconda (svolgimento delle forme di produzione dopo la rivoluzione), quando è stata interrotta dalle tre giornate e sei puntate dello scritto dedicato all’indagine critica sulle manifestazioni, ovunque accolte come fatto clamoroso, del XX congresso del partito comunista russo. Collegandoci con il «Dialogato con Stalin» che si riferiva al materiale, in sostanza, del precedente congresso, abbiamo intitolato il nuovo studio «Dialogato coi Morti». Non solo perché Stalin intanto era morto, non solo perché era inscenato un macabro duello di lui con gli altri grandi Morti, con Lenin e Marx, ma perché anche tutti gli altri morti, definiti come vittime di Stalin, hanno avuto la parola. Ultimi noi, minuscoli e pochissimi, col grave difetto di ostinarci a crepare di salute.
Non resta ora che riprendere nello stesso ordine progettato il testo esteso, procedendo nella descrizione e spiegazione dell’economia russa ed esponendo le tesi già ben note, sia per l’esposizione verbale che per il riassunto dato nei numeri 15 e 16 dell’annata 1955.
Prima tuttavia di riattaccare come se nulla fosse stato, dobbiamo aprire un rapido interludio, gettare un ponte provvisorio, per la chiarezza del procedere e per rilevare che l’interruzione, se anche non pianificata, non è stata né arbitraria né inutile, ed è invece servita a ribadire la continuità ed organicità del metodo seguito nella ricerca e nella esposizione.
Gli eventi che hanno provocato i due «Dialogati» – ossia hanno fatto sì che, sospendendo la nostra interna ed unilaterale indagine di parte, di partito, di scuola oggi sia pure numericamente ridotta, ed archiviando in tutta umiltà quello che può sembrare freddo monologo di un gruppetto che non ha attorno a sé rumore ed attenzione, ci dessimo alla discussione, alla polemica, al contraddittorio con un interlocutore d’altro canto da noi stessi evocato, e che non aveva e non ha mostrato desiderio di accorgersi del nostro dire – si sono in sostanza ridotti a due congressi. Sono dunque per noi cose tanto fondamentali i congressi, in cui torrenti di voce e rivoli di inchiostro avrebbero finalmente virtù di solidificarsi come ossature della costruzione storica vivente? Sarebbero i congressi a fondare e a plasmare gli accadimenti? È chiaro a chi ci abbia per poco seguiti che mai abbiamo pensato o detto nulla di simile. Come per noi tale virtù non hanno gli individui umani, e nemmeno quelli considerati per la loro notorietà eccezionalmente possenti, così non l’hanno né i congressi, né i gruppi di uomini che li sovrastano, e talvolta si pensa che li inscenino come valenti registi. Nemmeno il congresso fa accadere quel che vuole, realizza quel che pensa. Né esso né i suoi capi sanno quel che verrà, né soprattutto dicono quel che vogliono.
Ma in dati svolti, come questi due sono stati, molto si può leggere in quanto un congresso o altro vertice politico di organizzazione ha detto, molto e ben diverso da quello che i suoi attori pensano, dicono, o desiderano che si capisca.
Ed infatti i due svolti e le relative enunciazioni, ieri di Stalin, oggi di una mano di suoi spirituali figli, su cui tutta la banalità dell’opinione mondiale si getta per intendere che vi è di nuovo, che si prepara di nuovo, sono a noi serviti ad opposto scopo: dedurne le conferme di una teoria dello sviluppo russo da noi stabilita da gran tempo, perfettamente opposta a quella «ufficiale» del sistema politico e statale russo sotto Stalin e ancora peggio dopo Stalin.
Non certo per sciocca vanagloria ci preme mostrare, prima di riprendere il cammino del nostro studio alla pagina interrotta, che le risultanze del congresso ultimo sono venute, anche più presto di quanto fosse atteso, a dar conferma a quelle nostre posizioni che, immaginando di discutere con il «Grande Stalin», gli avevamo nel 1952 duramente contestato.
Converrà pregare i lettori di riguardare la prefazione e le prime pagine del volumetto allora edito, e da ciò resterà anche chiarito il problema testé posto, del peso che deve darsi ai congressi.
A nostro avviso, fin dal 1926 si pone il distacco del grande movimento russo cui si dà il nome di Stalin dalla linea marxista rivoluzionaria, e quindi anche da quella di Lenin. Fin da allora noi vivi-morti (Trotsky, Zinoviev, Kamenev, ecc.) negammo che il partito in Russia dovesse o potesse «edificare socialismo» come ripiego alternante al declino dell’onda rivoluzionaria occidentale; e affermammo che la società russa era addirittura preborghese e che, in quanto la sua economia poteva essere diretta, ed in mancanza della rivoluzione operaia europea, solo programma poteva essere quel «passo verso il socialismo» che consisteva nello sviluppare le piene forme mercantili capitaliste col traguardo estremo di un capitalismo statale nell’industria.
Stalin e i suoi sostenevano una tesi più radicale: ossia quella che (si fregassero i poco rivoluzionari proletari esteri) in Russia si sarebbe fatto il socialismo nell’economia senza aspettarli. Questa tesi, luridamente opportunista, era sventuratamente fatta per accecare molti militanti non «opportunisti», ma solo impazienti e formalisticamente, sentimentalmente estremisti. Noi, metterci a fare del capitalismo?! Orrore! Il tipo di questa categoria è il grande Bucharin, che ha dato filo da torcere a Lenin per tutta la vita: Noi, firmare la pace con gli imperialisti tedeschi?! La situazione divenne poi ben chiara quando non solo anche Bucharin fu trucidato, ma bollato sotto la vergogna non pure di traditore opportunista, ma di agente provocatore del capitale straniero.
Compagni alla Bucharin ne esistono ancora; in effetti possono fare tanto male, quanto gli opportunisti autentici. Per definirli, si è adottata da tempo la parola coniata da Lenin: infantili, cui si è dato significato oltraggioso laddove Lenin definì l’estremismo come mallatìa di infanzia, ossia di fisiologica crescenza del vigoreggiante comunismo. Per opporli all’opportunistico puttaneggiare di destra, chiameremo tali compagni con l’epiteto di casti. Attenti a non contaminarsi: condannerebbero col loro metodo il partito ad eterna sterilità, anche per quel momento supremo in cui la «ionizzazione della storia» chiama finalmente in campo senza veli il loro «dualismo semplicista», da essi ridotto, da punto di arrivo e di conquista, a chiave magica di tutta la storia.
Comunque, ora questo ci preme: messi i suoi contraddittori a tacere, lo stalinismo per un quarto di secolo abbandona quel dialogo storico; chiama socialismo la sua pratica di direzione economica statale. Siccome tutta la canea capitalista gli tiene pieno bordone, e per odio al socialismo contro di lui si arma di odio e di ferro, il regime e il partito sovietico non discutono affatto la posizione, schifata come «teorica»: Non è forse l’economia socialista, la società socialista, una cosa con cui la situazione russa nulla ha di comune?
In questo assorbente conflitto traverso paci e guerre spaventose i pochi e ignoti che affermano: Il socialismo lì non v’è, non vi può essere, sono ridotti a monologare, non hanno con chi dialogare, e se un’eco sollevassero sarebbero facilmente raggiunti al Messico e altrove.
Perché, dunque, nel 1952, Stalin si mise a rispondere su questo? Pretese sul terreno della teoria confrontare le leggi dell’economia capitalista con quelle di un’economia socialista che a suo dire esisteva nel sistema russo? Messa la questione così, la risposta si cerca nella solita direzione: Distrazione? Errore? Finalità occulta? Piano segreto e diabolico? Noi cominciammo, da marxisti, a porre la domanda altrimenti: perché ha Stalin dovuto così risponderci, senza avere nemmeno l’idea che esistessimo?
Scrivemmo nel «Dialogato» con lui:
«Stalin risponde sui punti posti in due anni dal nostro movimento […]. Non intendiamo con questo dire […] che si sia rivolto a noi […]. Non si tratta, per marxisti, di credere che le grandi discussioni storiche abbiano bisogno di protagonisti personificati […]. Egli è che i fatti, e le forze fisiche, dal sottofondo delle situazioni, prendono deterministicamente a discutere tra loro…»[127].
Noi tendiamo a questo risultato (che era alla portata di chiunque abdicasse alla stupida fregola di prenotare un posto nei palchi reali della storia), di avere impostata una anonima discussione tra i fatti e le cose, svolta da vivi e da morti che si contava dormissero l’eterno sonno dell’infamia (infame: chi non può più parlare e di cui non si può più parlare), che ha inchiodato – non certo per forza di soggettivo merito, ma per avere intesa la via delle forze oggettive – e condannato l’avversario a venire nolente su quei temi che riteneva avere per sempre portato sotto il peso soffocante dell’ombra.
Fin da quattro anni addietro il sistematico sviluppo della originale posizione marxista ci permise di anticipare su quali vergognosi termini si sarebbe edificata la preveduta confessione, che dicemmo apparentemente fronteggiata e frenata, ma in realtà preparata da Stalin, sulla natura non socialista di quella economia. Avvertimmo quindi con quali sozzure si sarebbe presentata una tappa ulteriore, che nel XX congresso ha preso la viscida formula delle nuove vie di passaggio al socialismo, lubrificata con l’ipocrita condanna di quelli che si definiscono oggi non tanto gli errori, quanto gli orrori di Stalin.
«I metodi di repressione, di stritolamento che lo stalinismo applica a chi da ogni parte gli resiste non devono dare appiglio alcuno ad ogni tipo di condanna che menomamente arieggi pentimento rispetto alle nostre classiche tesi sulla violenza, la dittatura e il terrore, come armi storiche di proclamato impiego; che lontanamente sia il primo passo verso l’ipocrita propaganda delle correnti del ‹mondo libero› e la loro mentita rivendicazione di tolleranza e di sacro rispetto alla persona umana. I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico. Nulla quindi abbiamo a che fare con la richiesta di metodi più liberali e democratici ostentati da gruppi politici ultra-equivoci, e proclamati da Stati che nella realtà ebbero le più feroci origini, come quello di Tito»[128].
Nel pieno sviluppo di una linea diritta e coerente, non ci hanno quindi affatto commossi o scossi gli insulti dal XX congresso al nostro gran nemico Giuseppe Stalin, perché diretti soltanto a fornicare con la democrazia mondiale, ad avviare i complimenti servili alla libera America mediante quelli al diffamatissimo capo dello Stato jugoslavo. La surrogazione e sostituzione delle persone, cui solo guarda la morbosa attenzione del mondo, sempre meno influisce a nascondere la contrapposizione inconciliabile tra i metodi dell’opportunismo e quelli, cui ad ogni tappa più si volgono le terga, della lotta rivoluzionaria.
La storiella della via «nazionale» per il socialismo puzza di fradicio da un secolo. Fino al «Dialogato con Stalin» questa questione della via violenta o pacifica non si era ancora osato scoprirla: la pietra angolare della dittatura proletaria non era stata ancora insidiata con le mine pacifiste. Stalin nel suo ultimo scritto adombrava ancora questa posizione:
Tra forma capitalista e forma socialista, è la forza che deciderà. Dal 1926 noi abbiamo dichiarato di soprassedere al suscitamento della guerra interna di classe all’estero. Tuttavia alla vigilia del 1939 dicevamo ancora che avrebbe deciso la forza bellica; sotto forma di vittoria in campo dell’esercito rosso e russo. Dopo la disfatta dei tedeschi facemmo credere agli operai del mondo che per una tal via avremmo abbattuto l’America. Oggi (1952) siamo per la pace, ma difendiamo ancora la tesi di Lenin: la fine delle guerre sarà data dalla caduta del capitalismo e dell’imperialismo. E la terza guerra imperialista scoppierà tra le potenze estere, anche se noi ci dichiariamo pacifisti e non la faremo se non «aggrediti». Così Josif.
La teoria della forza come «via di passaggio al socialismo» veniva così ritirata dal campo internazionale; ma, dicendo che solo la caduta del capitalismo avrebbe posto fine alle guerre, si mostrava ancora di credere alla via della forza all’interno degli stati.
Oggi il passo indietro è più vergognoso: si dichiara nel campo internazionale attuabile la pace perpetua con i paesi capitalistici, o tra essi. Si dichiara inoltre di ritirare la teoria della forza dal campo sociale: tale viltà Stalin non l’aveva consumata ancora.
La via della forza, la teoria della forza, espulsa ovunque, resta in piedi per due soli casi storici eccezionali. Nel passato, per la rivoluzione russa, che era di un suo tipo speciale, nazionale! Nel futuro, se la pace non si impone per emulativa convinzione, nel solo caso che vada difesa la patria russa da un «aggressore»! Così il XX congresso.
Crediamo importi far notare come tutto questo sviluppo sia esaurientemente giudicato e spiegato dalle connessioni tra il primo «Dialogato», lo studio generale sulla Russia, e il «Dialogato» di oggi.
Perché avrebbe la Russia dovuto percorrere, essa sola, la via della forza per andare al socialismo?
Nella riunione di Bologna esponemmo e rivendicammo la visione del primo marxismo europeo sulla «strada russa». Nessuno allora si chiedeva: la forza o la pace?
Questo vecchio sogno dell’evitamento della forza – partimmo di lì – ha tre tappe.
Per il cristiano la meta è raggiunta da duemila anni; occorre solo un’emulazione persuasiva tra uomini e tra genti per proseguire la vita dell’umanità. È il religioso il precursore della teoria della pacifica coesistenza tra il potente e il debole, il ricco e il forte, la gente A e la gente B…
Per il borghese liberale occorre per togliere di mezzo l’uso della forza ancora una tappa, ma una sola, sanguinosa: la rivoluzione che abbatta i regimi feudali e assolutisti. Dopo ciò, tra cittadini eguali, la generale coesistenza sarà possibile; e tra popoli liberi idem con patate.
Il marxismo richiama per una terza volta il compito della forza nella rivoluzione di classe entro ogni paese: non esorcizza la forza nelle guerre tra stati, ma stabilisce che solo la vittoria proletaria internazionale porrà loro fine; non forme di accordo, intesa, rispetto o organizzazione mondiale.
Caso della Russia: consenso unanime di borghesi liberali e proletari marxisti dell’ottocento: occorre la forza per buttare giù lo zar.
Problema storico: si può con questa stessa rivoluzione passare al socialismo saltando il capitalismo? Risposta (qui richiamiamo per cenni quanto svolto a fondo nei riflessi sociali e storici): no, non si potrà saltare il capitalismo.
Se tuttavia la rivoluzione liberale russa scatena la rivoluzione sociale in occidente, e se non è dubbio che qui e ovunque la via sia la forza (come solo i revisionisti e i socialdemocratici verranno in fine ottocento, tradendo Marx, a negare) allora le due rivoluzioni in Russia potranno sovrapporsi. Ma se l’Europa, dopo caduto lo zar, resta borghese, la conclusione è che la forza deve agire in Russia anche una seconda volta, così come nel «caso generale».
Venimmo quindi a spiegare a lungo come i marxisti russi, Plechanov e poi, anche contro questo suo maestro, Lenin ribadiscono la teoria della doppia forza, della doppia rivoluzione russa.
Questa teoria non si smuove di un passo dal punto che la seconda rivoluzione russa abbisogna come condizione della rivoluzione socialista occidentale. La sua originalità, se tale è, è solo quella di non dar credito alla classe borghese e ai suoi partiti, ai ceti medi e ai loro partiti, nemmeno per fare la prima delle due indispensabili rivoluzioni.
Il proletariato e il suo partito marxista le condurranno entrambe. Prima aiuteranno chiunque a rovesciare lo zar. Poi avranno dalla storia due alternative: o prendere il potere mentre lo prende all’estero il socialismo internazionale, e allora «amministreranno» la trasformazione socialista dell’economia. Ovvero prenderanno il potere soli in Russia: allora (fu sempre detto crudamente, e ne abbiamo dato mille prove storiche) attenderanno la rivoluzione internazionale «amministrando» la trasformazione della società russa in capitalismo. Come stabilito dallo scontro dottrinale del 1926, non «edificheranno il socialismo», ma «le basi del socialismo».
Questa presa del potere contro i partiti borghesi e piccolo-borghesi, con il solo appoggio sociale dei contadini poveri (non proprietari) e con una politica economica di tipo transitorio e impuro, fu prevista nettamente, ed attuata come una vittoria del socialismo, ma non come la nascita di una società socialista.
Tutto ciò stabilito nella dottrina e riscontrato negli avvenimenti, in che la via russa differirebbe da quella di altri paesi, più avanzati come struttura produttiva?
In questo solo, che la dittatura proletaria di Marx è necessaria due volte, in doppio modo: in un primo periodo in cui serve solo a ributtare le forze feudali e ad abbattere la forza politica della borghesia, in un secondo in cui servirà al passaggio, come in Europa, e con l’Europa o i suoi paesi più importanti, alla forma economica socialista.
Non dubitiamo che in un primo tempo a compagni anche ferrati non sarà sembrato sicuro che la posizione fondamentale giusta fosse quella di dire: Si deve ottenere un’economia capitalista, non socialista, nella Russia sola; e dichiarano. Non è questa una tesi troppo debole? avranno molti pensato. Molti avranno ammesso la nostra prova dottrinale contro Stalin che la forma russa, anche nell’industria, ha carattere capitalista e non socialista, ma in un primo tempo saranno stati condotti a dire: Stalin è un porco, perché ha edificato capitalismo. Ha sapore più dialettico la posizione completa: Stalin è un porco (lasciamo la forma sommaria) perché ha abbandonata la rivoluzione europea, e perché chiama socialismo una forma borghese, mentre Marx e Lenin e tutti avevano stabilito che solo con la rivoluzione europea si poteva da quella forma uscire.
Adesso si vede bene, dopo la clamorosa gettata fuori bordo della dittatura per i paesi capitalistici, dopo il ripiegamento quanto a «filosofia della violenza» su posizioni puramente liberali, peggio ancora che socialdemocratiche, quale sbandata fu quella dei casti, che con Bucharin, dando causa irreparabilmente vinta allo stalinismo, dunque alla controrivoluzione, affermavano che, avendo la dittatura politica ferma in mano, non si sarebbero fermati e avrebbero a dispetto di tutto «creato il socialismo».
Stalin nel XIX congresso dichiarò che ormai questo era fatto, e che ci si accingeva a passare allo stadio superiore, al comunismo integrale: il mondo borghese rifischiò ovunque l’enorme panzana.
Il XX congresso, pure facendo strame dell’opera storica, politica. organizzativa, economica di Stalin, nei limiti in cui questa ancora era tale da far passare brividi marxisti nelle schiene borghesi, mantiene ancora la definizione di costruito socialismo, e di iniziato stadio comunista, mentre tende ai capitalismi esteri passerelle mercantili di affaristico fornicamento.
In questo stesso piano ed intento, porge le scuse di avere in Russia dovuto servirsi di dittatura, forza, violenza, terrore, e dichiara che sono arnesi di uso esclusivo, come lo knut. Era un affare interno, nazionale; quel solo superstite esempio storico di dittatura che si salva (mentre impudentemente si dice di lasciare Stalin per ritornare nel grembo di Marx-Lenin) bisogna riferirlo non ad una generale dottrina della fine del capitalismo, fondata da Marx e restaurata contro ogni attentato da Lenin, ma alle dottrine della fine del feudalismo, a Robespierre e a Danton. Marx è ridotto a zero, mentre si ostenta di togliere via i ritratti di Stalin e sbandierare la sua turbolenta barbaccia. Si promette al mondo borghese che la dittatura non la vedrà mai, perché le vie sono tante e tante, e solo quella russa era così amara e cattiva. È poco ancora la scusa: c’est la faute à Staline – quei signori del XX dicono di più: c’est la faute à… Raspoutine![129].
Consentiamoci dunque di guardate alla nostra umile, lenta, ma saldissima costruzione. È palese nell’ultima tappa la rovina di ogni parte storica, organizzativa, politica classista. Nelle giornate dell’ultimo «Dialogato» abbiamo mostrato l’estensione della rovina.
Storia: ci siamo nel nostro resoconto serviti passo per passo dell’ufficiale «Corso di storia del partito bolscevico», dimostrandone le enormi falsità: oggi l’ostacolo crolla davanti a noi spontaneamente. Il seguito del nostro testo prenderà un altro tono: piccola prova che non nasce da teste brillanti, ma dalla fedeltà al determinismo materiale.
Organizzazione: ad ogni tratto abbiamo messo in evidenza il compito del partito di classe, la necessità che sia continuo nel tempo, legato ad una stessa teoria: oggi abbiamo potuto mostrare come, non appena allentati i freni, sia pure tra ipocrite ortodosse dichiarazioni di rispetto, le affittate bande di social-traditori corrono a disonorare questa non meno fondamentale «pietra angolare» di cento anni di marxismo.
Lotta di classe: non si vede solo sconfessata la guerra civile, ma resa regola generale l’alleanza con classi medie e anche borghesi, nei limiti legalitari e costituzionali più proclamati e sacri.
Politica e teoria dello Stato: si vede distrutta la dottrina dello Stato di classe e della conquista del potere: come dicevamo, forza, violenza, dittatura e terrore sono cacciati via con indignazione da tutto il mondo: giustificati nella sola Russia. Ma qui non è eccezione tra le vie al socialismo; è conferma della regola per le vie al capitalismo, in Inghilterra, Francia, ovunque, e Russia infine! La teoria dell’autonoma rivoluzione proletaria è ritirata al mille per mille.
Filosofia: ogni dottrina sul generarsi della storia dalle forze collettive adagiate sulle situazioni economiche è barattata: abbiamo a fondo mostrato come nulla di ciò è salvato dal capolavoro dell’ipocrisia in questo congresso: il preteso svolto dal culto di Stalin alla direzione collegiale. Per Stalin vi è stato un solo svolto: il passaggio tra il suo tracotante atteggiamento verso le potenze borghesi, ad una piaggeria lubrica, ad un’offerta di buona coabitazione in un mondo comune, lupanare di affari del commercio borghese d’ogni riva.
Se ci è stato dato con tanta facilità di tratteggiare nel 1956 questo bilancio totalitario della calata dei guastatori in tutto il campo della nostra sovrastruttura ideologica, proletaria e marxista, ponendo in chiara luce il sostituirvisi in tutto e per tutto di sovrastrutture borghesi, è stato in quanto nel 1952 abbiamo constatato nella base economica del sistema di Stalin lo stesso totale abbandono delle posizioni socialiste e l’adesione alle leggi e forme di produzione e di scambio che definiscono il capitalismo e che allo stesso tempo abbiamo identificate nella realtà della forma russa, nella descrizione che Stalin ne confermava, e nella teorizzazione eterodossa e destituita di ogni forza scientifica che egli ne tentava.
È quindi di pieno valore determinista e marxista il legame indissolubile che stringe la fase storica che si vuol impersonare in Stalin e nella sua vita politica, con la corrente di quelli che, sulla scena del XX congresso, si sono voluti accreditare atteggiandosi a rinnegatori di lui.
In tal senso, la scuola del marxismo integrale dà peso a questo svolto, che ha attirato l’attenzione del mondo, e ne ribadisce la portata in nuovi passi verso l’altro svolto col quale, in non lontano avvenire, il regime statale russo si allineerà storicamente con quelli degli altri paesi, dichiarerà che la sua ideologia e la sua pratica coincidono con quelle dei paesi industriali esteri, e con quanto essi anche denunziano di socialità assistenziale, di sporca lode e gratitudine sociale alla classe soggetta a servitù di salario, di devozione al comune moderno stupido idolo della tecnica superproduttiva, del benessere e dell’alto reddito «nazionale».
Nell’esposizione storica, alla quale torniamo dopo avere non solo narrato tutte le vicende delle fasi rivoluzionarie successive e di quella finale di difesa del potere nella guerra civile dal 1917 al 1922, ma soprattutto dato passo passo l’interpretazione bolscevica e leniniana del processo che si svolgeva, siamo dunque appena passati allo studio delle misure sociali del nuovo potere, in quanto tendenti a controllare il processo economico.
Abbiamo stabilito e dobbiamo seguitare a stabilire una sicura coerenza tra queste «realizzazioni» e la teoria sempre svolta dal partito di Lenin, lui vivente, e poi rivendicata nelle varie tappe fino al 1926.
Siamo risaliti a testi di programma economico dovuti a Lenin e scritti alla vigilia dell’Ottobre, per mostrare quanto fosse chiara la prospettiva di dovere operare in una forma sociale mista di tipi preborghesi, in cui restavano da superare avanti tutto forme asiatiche, patriarcali, feudali, e per la quale la formazione sistematica di un mercato interno di scambio di prodotti industriali e agrari era ancora un passo avanti non solo, ma difficile e laborioso, fino a quando il capitalismo avesse imperato un metro oltre le frontiere della repubblica rossa.
In quell’opuscolo del 1917 è contenuta tutta la teoria posta a base dello scritto del 1921 sulla «imposta in natura», che ora si tratterà di utilizzare a fondo, costituendo uno dei fondamentali contributi di Lenin al marxismo.
Né Lenin né la Russia (né la storia) hanno nel 1921 deciso di fare un passo indietro, rinunziando a seguitare a prendere misure statali di contenuto comunista e socialista per dare il passo al «ritorno» su forme borghesi. Quella fase era in dottrina integralmente scontata, e le misure prese ebbero lo stesso carattere politico di «passi verso il socialismo», ed economico di materiale e necessario passaggio per tappe ancora capitaliste, e meno che capitaliste.
È quindi il momento di sfatare la leggenda del «comunismo di guerra» che abbiamo più volte mostrato vana. Senza di ciò non resterebbe che partecipare alle lodi di Stalin, che sarebbe dalla Nep andato oltre contro la borghesia rurale (il che nel giusto senso è un fatto) e che con questo avrebbe «edificato socialismo» (il che è corbelleria). E senza di ciò bisognerebbe sorbirsi nientemeno che la feccia dell’ultimo calice, quello di un Nenni che sogna con prostituta gioia addirittura ad oggi 1956 l’uscita dal «comunismo di guerra»; e ne deduce la vittoria del «comunismo costituzionale», del «comunismo di pace»; ossia (da uomo che non ha scrupoli nel calpestare la dottrina, e che quando lo fa non lo sa neppure) cammina, e sia lode a lui, da buon antesignano della gettata nella fogna dell’ultimo lembo della bandiera del socialismo, e del partito del proletariato, in cui entrò col grimaldello!
Evitiamo simili mefitiche compagnie, ed auguriamo una non lontana riconquista, non di bandiere, ma delle nostre parole, di quel cibo che (come in una frase di Galileo vecchio e perseguitato) solum è mio.
Noi che non abbiamo culti seguitiamo a mostrare la via di Lenin, il cui sguardo fissa con uguale potenza la realtà presente e la futura: ritmo basso e umile di trasformazione economica, dinamica scatenata della guerra sociale contro ogni immane forza nemica.
Notes:
[prev.] [content] [end]
Apparso nel numero 11/1956 de «Il programma comunista» e destinato a gettare un ponte fra i paragrafi 8 e 9 della II° parte, nell’intervallo fra i quali il 20° Congresso del PCUS ci aveva imposto l’ampio commento critico e demolitore del «Dialogato coi morti», uscito a puntate nei numeri intercalari de «Il programma comunista». [⤒]
Nel cit. «Dialogato con Stalin», pag. 8. [⤒]
Nel cit. «Dialogato con Stalin», pag. 6. [⤒]
Si veda anche nel nr. 14/1956 de «Il programma comunista» il «Plaidoyer pour Staline». [⤒]