Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXX)
Collegamento[273]
Queste ultime puntate del resoconto diffuso sulla struttura sociale russa hanno dovuto essere interrotte per due numeri del quindicinale al fine di dare posto al resoconto preliminare e riassuntivo sul tema della riunione di Ravenna, che ha invece trattato della società di Occidente. Occorre un ricollegamento, sotto forma di inevitabile e breve ricapitolazione di quanto già esposto nella seconda parte, riguardante i rapporti di produzione nella Russia odierna ed il loro storico svolgersi a partire dal 1917.
Non per un sunto ma per un richiamo di questa parte in corso, ricordiamo che prima di addentrarsi nelle questioni di economia essa ha dovuto sviluppare a fondo ancora argomenti politici e storici, da quelli inseparabili. Si è discussa a fondo quale era la prospettiva degli sviluppi economici che il partito bolscevico presentava come prevedibile dopo la conquista del potere da parte sua, e tutto ciò era indispensabile al fine di polemiche ancora ardentissime, per stabilire che mai si era presentata possibile la formazione di una struttura sociale comunista o anche di primo socialismo. La rivoluzione, nell’opera di Lenin, che molto minutamente esponemmo dimostrando come la prospettiva di base non fu mai mutata per svolti storici, aveva un contenuto politico totalitario, ma quanto a contenuto sociale si prefiggeva trapassi di forme produttive molto anteriori a quello dal capitalismo al socialismo: la sua leva di base era il legame alla rivoluzione politica operaia europea, dalla quale soltanto poteva derivare l’avvento della società socialista in Russia. Né si poteva non ricollegare questa polemica sui fatti storici e sui testi dottrinali con l’ardente dibattito attuale contro la menzogna del costruito socialismo nella sola Russia.
Sono state quindi ad ogni tratto riferite le opinioni di Lenin, Trotsky ed altri marxisti russi, e la grande lotta che nel partito si svolse alla morte di Lenin, come si erano ampiamente trattate quelle durante la sua vita.
Base essenziale della successiva storia delle mutazioni economiche fu la teoria contenuta nell’opuscolo sull’Imposta in natura, che consente di classificare le forme sociali presenti in Russia allo scoppio della rivoluzione e di esporre la nota successione delle fasi, la cui interpretazione non si è potuta non collegare in tutta ampiezza alle polemiche di allora, di dopo e di oggi: comunismo di guerra, nuova politica economica, «collettivizzazione» e guerra ai kulak, grande sviluppo da un lato dell’industrialismo di Stato, nella nostra tesi forma capitalista – mercantile – monetaria e dunque non socialista, e dell’agricoltura colcosiana, con la sua faccia cooperativa, che è di capitalismo privato, e l’altra familiare-aziendale che nella nostra tesi è la più retriva, e rispondente a forme sociali del tutto precapitalistiche.
Trattando dei rapporti produttivi di queste due sezioni della struttura russa, esse sono state ovviamente riferite all’ordine giuridico nello Stato, con la critica alle due Costituzioni del 1918 e del 1936, radicalmente diverse, e ai conflitti politici nel partito, in cui vinse sanguinosamente la fazione fautrice dell’autarchia nazionale e dell’abbandono dell’internazionalismo comunista.
Ad ogni tratto abbiamo confutato le tesi, dei trotzkisti e di altri gruppetti di falsa sinistra antistalinisti, sull’apparizione di una forma sociale intermedia tra capitalismo e socialismo, in cui classe privilegiata sarebbe la burocrazia delle gerarchie statali e di partito, opponendo a questa tesi amarxista quella del legame tra capitalismo russo e mondiale come forza di classe, malgrado gli insanabili conflitti imperialisti, negati dalle teorie pacifiste del Cremlino; e abbiamo sviluppato alla luce della teoria marxista la relazione tra il settore agrario e quello industriale, mostrando come nell’industrialismo di Stato si alloga una protezione alle classi medie e contadine a danno del proletariato, a questo più sfavorevole che in alcuni regimi di capitalismo classico e privatistico.
Indubbio legame determinista collega quest'economia interna di privilegio verso le classi medie alla politica medioclassista dell’opportunismo mondiale filorusso.
Dopo l’ampia dimostrazione della struttura del colcos, e la dimostrazione del peso economico delle sue due facce capitalista ed ultraprivatista minimale familiare, siamo giunti al rapporto quantitativo tra popolazione e produzione delle campagne e delle città. Le gravissime contraddizioni nella materia delle cifre russe ci indussero nell’ultima puntata a riesporre tutta la statistica storica demografica dal 1914 ad oggi, mettendo in rilievo i tragici contributi alle due immani guerre del capitalismo imperiale, e la morbosità dell’inurbamento in corso, che mentre piomba il proletariato delle fabbriche nella peggiore oppressione, è vantato come aspetto della vittoria del socialismo, esagerando perfino la portata già paurosa di questo fenomeno sconvolgente.
Chiave del problema sociale non è il passaggio dei mezzi industriali di produzione nelle mani dello Stato, che non li ha tolti ad una classe borghese ma accumulati col sangue operaio (e, nelle guerre, anche contadino) bensì il quadro della società rurale, che si legge luminosamente se vi si proietta la luce grandiosa della teoria marxista sulla questione agraria, di cui fu Lenin il più formidabile ed ortodosso dei propugnatori, contro il bestiale populismo individualista, che seppe prosperare sotto i colpi spietati del partito dei nullatenenti[274].
Innumeri volte abbiamo mostrato come l’effetto della guerra, dei rovesci dello zarismo, delle guerre civili che avevano accompagnato la sua caduta, dell’invasione tedesca che con due ondate formidabili costrinse alla pace di Brest Litovsk, delle successive non meno feroci invasioni ordite dai paesi borghesi dell’Intesa da tutti i lati dell’orizzonte geografico e politico, fu in realtà di distruggere la macchina economica. Resistette di più l’agricoltura appunto per le sue forme primitive, naturali ed immediate, pur subendo tremende falcidie; ma la produzione industriale fu ridotta praticamente a zero, e altrettanto dovette dirsi dei trasporti, dei commerci e di tutti i servizi pubblici generali. Ad un certo momento, verso il 1919, il solo problema militare conservava una trama di amministrazione, organizzata in forme materiali e coattive. Anche nella recente riunione di Ravenna[275] abbiamo ricordato gli indici russi della produzione industriale che legano i due capitalismi, quello di anteguerra e quello post-rivoluzionario. Rettifichiamo qui il materiale errore di riferire quegli indici al 1913 mentre sono quelli riferiti al 1929 (Stalin, Chruščëv ed altri). Il significato è tuttavia lo stesso: 1913: 52; 1920: 7; 1926: 56; 1955: 2049.
La rivoluzione non conquistò né ereditò nessun capitale accumulato: la guerra e la rivoluzione stessa lo avevano distrutto. Non si trattava di solo dissesto sociale ed umano, ma di dissesto delle cose fisiche: restavano le aree degli stabilimenti distrutti e abbandonati, ma non vi erano più macchine ed installazioni o almeno il loro rottame, usato a fini di emergenza da amici e nemici; non vi erano materie prime nei magazzini: il capitale costante era a zero. Il capitale lavoro era anche disperso essendo gli operai caduti, ovvero al fronte nelle formazioni rosse, mancando paurosamente la mano d’opera qualificata e avendo gli specialisti e dirigenti tecnici ed amministrativi seguita in gran parte la controrivoluzione, per cui a loro volta o erano stati uccisi o combattevano su vari fronti esterni.
Se restava un capitale finanziario e monetario, questo era fuori dalle disposizioni del potere rivoluzionario perché in parte lo aveva distrutto l’inflazione astronomica e dall’altra i crediti sull’estero erano fuggiti coi bianchi, e non restava che annullare i debiti esteri, con il che non risultava nessun attivo disponibile in Russia.
Abbiamo anche più volte dato le cifre della produzione, ad esempio, dell’acciaio, che negli anni 1918 e 1919 si ridusse a poche migliaia di tonnellate, in così immenso paese, e sebbene si trattasse della produzione base quando il primo problema è la guerra guerreggiata.
Questa situazione tante volte illustrata dal partito e negli scritti di Lenin sta a spiegare come tutto si falsi quando si mette in prima linea, quasi che nei suoi limiti fosse compreso tutto il socialismo, la presa di possesso degli impianti di produzione, che tolti ai capitalisti imprenditori privati passano allo Stato della rivoluzione. Praticamente questo trapasso mancava del suo oggetto, e non vi era nulla da prendere ai borghesi e da gestire, in forme più o meno collettive. Evidentemente la socializzazione dei mezzi di produzione è una formula del marxismo, ma rettamente intesa comporta una serie di altre condizioni, che si riassumono nella disponibilità dei prodotti di un ciclo attivo, che cessano di essere appropriabili dagli imprenditori e, tramite una nuova e ben diversa distribuzione come una ben diversa remunerazione del lavoro, divengono appropriabili dalla classe proletaria divenuta dominante nella società.
Il fatto giuridico di passare allo Stato le proprietà legali dei cantieri e degli stabilimenti vuoti e fermi, annullando il diritto dei borghesi fuggiti od uccisi, è un necessario atto rivoluzionario, ma manca del suo contenuto economico quando si tratta di una produzione a ciclo e gettito spezzato.
Lo Stato sovietico si dovette porre il problema di riaccumulare il capitale distrutto e svanito, anzitutto nella modesta misura del tempo zarista, con inadeguata partizione tra le varie industrie e le varie regioni del paese, e si trattò di creare una nuova dotazione industriale pressoché dal nulla e forse peggio che dal nulla. Partendo da mezzi di produzione efficienti e da alte scorte di prodotti di partenza e di arrivo dei cicli, con un’industria estrattiva non ferma e una rete di trasporti non bloccata, si può porre la questione di dar vita ad una nuova originale gestione dell’industria, non mercantile, aziendale e salariale; ma quando non vi è da porre la mano che su pezzi di carta, su titoli di diritto, e sulla fisica carcassa di qualche avente titolo recalcitrante e protestatario, il problema di aprire una produzione socialista non si pone nemmeno: la classe borghese vinta, dispersa ed annientata non resiste più (salvo che nei suoi velenosi legami con gli Stati capitalisti esteri) ma in ciò non è nessun pezzetto di economia socialista.
Riattivare l’industria era l’esigenza centrale, e prima ancora che sociale e politica fu esigenza militare, dato che gli eserciti nemici erano attrezzati e munizionati dal capitale ben vivo dell’estero, e non da quello della classe borghese russa, che lo aveva a sua volta perduto (prima che ne fosse espropriata) per fisica distruzione e disorganizzazione.
Questo problema restava difficile pur essendo la Russia un paese più che ricco di naturali risorse, nel sottosuolo e nell’energia idrica, punti che per primi attirarono l’attenzione e la fervida propaganda di Lenin; la cui frase che il socialismo significava il potere bolscevico più l’elettrificazione di tutta la Russia ancora si sfrutta, ma che quando fu detta stava a provare che per il momento la sola condizione del potere bolscevico era incompleta.
Abbiamo messo abbastanza in evidenza che Lenin riteneva indispensabile per una pronta riaccumulazione di capitale industriale andarlo a prendere dove ce n’era. Vedeva questa possibilità in due modi: il grande e classico, che mai fino alla sua morte uscì dalla sua prospettiva, era la conquista del potere da parte dei proletariati d’Europa, e in primo luogo di quello tedesco, il cui governo comunista avrebbe subito rovesciato in Russia macchine, materie prime, lavoratori qualificati e tecnici, di cui la dotazione era di molto superiore alla minima che permette, distrutta l’impresa mercantile, di far scattare una produzione sociale: come le riprese dell’industrialismo dopo le due guerre rovinose hanno dimostrato.
Il secondo mezzo era di farsi prestare questo capitale dai borghesi esteri, le concessioni su cui Lenin batté senza posa e senza timore. E siccome nelle campagne vigeva un ciclo produttivo sia pure primordiale, di far passare le forme di esso oltre il livello della produzione mercantile contadina e verso quello del capitalismo privato, scalino che precede il capitalismo di Stato. Dal che mostrammo non insensata la formula di Bucharin che preferiva nelle campagne un germogliare di capitalismo (indubbiamente pericoloso anche come nemico politico) al consolidarsi dell’ibrida forma di economia frastagliata, che si chiamò colcosiana e si spacciò per collettivizzazione rurale.
All’inizio della lotta tra stalinismo ed opposizioni e fin dal 1924, l’opposizione di sinistra che aveva a capo Trotsky e a cui tardi si riunirono Zinoviev e Kamenev, fu la prima a porre in evidenza la necessità vitale di far risorgere e di potenziare la caduta industria russa, e Stalin e i suoi vi si opponevano.
Si fecero allora calcoli su una velocità fantastica di industrializzazione, e la corrente Stalin derise i «super-industrializzatori». Eppure la corrente Trotsky era quella che non vedeva in quella corsa intensa all’industria la corsa all’economia socialista, ma stava ferma sul terreno che il socialismo russo, come nel concetto di Lenin, non poteva che seguire alla rivoluzione proletaria di Occidente.
Trotsky, nei primi capitoli della «Rivoluzione Tradita», cita queste parole di Stalin, contro l’opposizione del 1927. Egli ne deplorava «i fantastici piani industriali», e sosteneva che l’industria non doveva «anticipare troppo, staccandosi dall’agricoltura e trascurando il ritmo dell’accumulazione nel nostro paese». Al XV congresso del dicembre di quell’anno fu dato un avvertimento ai superindustrialisti contro «il pericolo di investire troppi capitali nella grande edificazione industriale»[276].
Secondo Trotsky fu proprio la sua opposizione a sostenere che si sarebbero dovuti raggiungere ritmi di incremento del 15 e 18 per cento annui «per avere, grazie all’accumulazione socialista, uno sviluppo ad un ritmo del tutto irraggiungibile per il capitalismo». Possiamo ammettere che in questo passo le parole di accumulazione socialista si riferiscono al colore politico socialista del partito che era a capo dello Stato, altrimenti sarebbe stato Trotsky a fare una concessione alla costruzione del socialismo in Russia[277]. Comunque la sua testimonianza è indubbia quando dice che quelle proposte furono derise dalla parte dirigente, tanto che il primo piano quinquennale del 1927, che l’opposizione bollò come meschino, si basò su un tasso di incremento produttivo che «doveva variare, seguendo una curva discendente, dal 9 al 4 per cento». I preparatori di questo piano furono poi processati per sabotaggio, ma l’idea della curva discendente non era in teoria economica sbagliata. Tuttavia l’Ufficio Politico stabilì poi il 9 per cento per ogni anno del quinquennio. A questo punto le posizioni, come tante altre volte, improvvisamente si invertono.
Ai primi successi del piano industriale si passa di colpo a sostenere che i ritmi devono salire dal 20 al 30 per cento; dopo sconfitta l’opposizione di Bucharin di cui abbiamo a lungo parlato, e la sua formula del passo di tartaruga, si prese la famosa decisione del «piano quinquennale realizzato in quattro anni».
Alla questione dell’accumulazione di Stato si collegò quella monetaria.
La dottrina di Marx sull’accumulazione del capitale ossia sulla sua riproduzione allargata, come quella sulla riproduzione semplice, tratta unicamente di un capitale che appare a cicli alterni come merce e come denaro. Questo è indiscutibile alla partenza ed all’arrivo di tutto il sistema marxista sulla produzione capitalistica: il sistema socialista ne resta dialetticamente definito e descritto, ma sono pochi i socialisti che hanno saputo fare il passo audace che dalla negazione dei caratteri del capitalismo fa emergere, al di fuori di ogni piano utopista, la definizione positiva dei caratteri del socialismo.
Se nel socialismo vi sarà un’accumulazione, essa si presenterà come accumulazione di oggetti materiali utili ai bisogni umani, che non avranno bisogno di apparire alternativamente come moneta e nemmeno di subire l’applicazione di un «monetometro» che consenta di misurarli e paragonarli secondo un «equivalente generale». Quindi tali oggetti non saranno più nemmeno merci e non saranno definiti dal loro valore (di scambio) ma solo dalla loro misura quantitativa fisica e dalla loro natura qualitativa, ciò che si esprime dagli economisti, e anche da Marx a fini espositivi, come valore d’uso.
Si può stabilire fondatamente che i ritmi dell’accumulazione nel socialismo, misurati in quantità materiali come le tonnellate di acciaio o i kilowatt di energia, saranno di aumento lento e di poco superiore a quello dell’aumento di popolazione: rispetto alle società capitaliste mature, probabilmente la pianificazione razionale dei consumi in qualità e quantità e l’abolizione dell’enorme massa dei consumi antisociali (dalla sigaretta alla portaerei) determinerà un lungo periodo di discesa degli indici produttivi, e quindi, nei termini analoghi agli antichi, di disinvestimento e di disaccumulazione.
Qui si tratta solo di esaminare l’accumulazione accelerata che fu necessaria per industrializzare la Russia. Ben presto il «centro» rubò alla sinistra – mentre si disponeva a jugularla, come sempre accade – l’idea degli alti ritmi di incremento. Sarebbe far torto grave all’opposizione russa, così bene impostata sulla questione della rivoluzione mondiale, dire che è stata rubata a lei la «originalità» del ritmo acceleratissimo come carattere di una economia ultracapitalista, o socialista addirittura, che è idea disgraziata e responsabile di immensi mali.
Quello che ci interessa in linea di fatto è che l’avvio all’accumulazione in Russia fu trovato da tutti possibile solo in una forma che si servisse di un mezzo monetario stabile nel valore.
Questa necessità fu enunciata da Lenin in molti scritti da noi studiati, ed in quello suggestivo sulla necessità dell’oro e quindi della moneta legata alla base aurea. Ma in Lenin quello che non si trova è che si tratti di introdurre una forma socialista: egli dice in cento passi che è una forma capitalista, di cui è tuttavia indispensabile provocare l’apparizione in attesa di quel momento famoso in cui si adoprerà l’oro per farne i pubblici orinatoi, dato che resiste bene ai liquidi acidi.
Trotsky accetta questa tesi, che deriva dalla dottrina della Nuova Politica Economica. Dovendo incoraggiare il formarsi del mercato per i prodotti agricoli, e un sistema equilibrato di scambio (naturalmente nascerà poi lo «scambio socialista» con tutto il resto del frasario di tal genere!) fra prodotti della campagna e dell’industria, si impone la riforma del mezzo monetario. Come sappiamo Trotsky chiama questo: impiego di una forma di contabilità capitalista. Egli non intende dire che si usa questa forma di registrazione e di controllo in un’economia già socialista; ma la sua tesi è che si tratti di uno stadio di transizione tra capitalismo e socialismo, nel quale si è costretti ad usare la moneta, legata all’oro, in quanto si tratta di lasciar sviluppare il mercato e la circolazione su scala grande dove questa, per la primitività delle forme agrarie, mancava ancora.
Tutto questo è giusto, in quanto per Trotsky non si tratta di un socialismo di primo stadio, o inferiore, ma di un periodo di trapasso ancora anteriore.
Non sono caratteri economici che gli vietano di rinunziare a parlare, fin che vive (1940), di una Russia socialista, ma il fatto politico che il potere fu conquistato dal partito comunista della classe operaia. Sennonché la situazione del partito e dello Stato sotto anche il profilo politico fu progressivamente invertita e capovolta, e lotte sanguinose, anche se note nell’aspetto unilaterale, dimostrarono un tal fatto.
La formula di Trotsky è questa:
«L’esperienza dimostrò presto che l’industria stessa, benché socializzata, aveva bisogno dei metodi di calcolo monetario elaborati dal capitalismo»[278].
Trotsky fa salva la giusta sua valutazione marxista dei traguardi del piano russo di accumulazione industriale, quando dice:
«Lo stadio inferiore del comunismo – per usare il termine di Marx – comincia al livello, a cui il capitalismo più avanzato si è avvicinato. Ora, il programma reale dei prossimi piani quinquennali delle repubbliche sovietiche consiste nel ‹raggiungere l’Europa e l’America›»[279].
Dunque nel costruire un capitalismo sviluppato. Ma per superarle il socialismo le dovrà conquistare con la forza, non con l’emulazione!
Notes:
[prev.] [content] [end]
Apparso nel nr. 5/1957 de «Il programma comunista». [⤒]
Allo studio ulteriore degli sviluppi dell’economia agraria e industriale russa sulla traccia fondamentale data nei paragrafi precedenti e in quelli successivi furono poi dedicate di anno in anno nutrite riunioni. Citiamo solo, fra le più vicine in ordine di tempo alla «Struttura», «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», ne «Il programma comunista» nr. 16–17 e 22–24/1957, 1–2 e 7–10/1958 e 1–7/1959, «Putrescente degenerazione della forma capitalistica ad Occidente, corso sciagurato della sua controfigura di Oriente», ivi, nr. 23 del 1958, e «La struttura economica e sociale della Russia e la tappa involutiva del trasformismo al XXI Congresso», nr. 9–18 del 1959, dove il lettore troverà ampi aggiornamenti di dati e raffronti con le economie occidentali. Tutte le annate successive dovrebbero però essere consultate numero per numero. Si veda infine la già citata «Appendice», più oltre. [⤒]
19–20 gennaio 1957 sul tema: «Struttura economica e corso storico della società capitalistica». Rapporto esteso e codicilli ne «Il programma comunista», nr. 3. 05. 1957. Per un riepilogo fino ad oggi, cfr. i nr. 1–2, 4–5 del 1976. [⤒]
L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 54. [⤒]
Per la verità, in seno all’opposizione, soprattutto in Preobraženskij, vi furono teorizzazioni in questo senso, e lo stesso Trotsky, sia pure con molte oscillazioni, non vi fu estraneo (cfr. il già citato ««Bilan d’une révolution») in un dibattito in cui i problemi politici ed economici si intrecciavano in modo disorientante per gli stessi interlocutori. [⤒]
L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 48. [⤒]
L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 74. [⤒]