Il congresso si aprì il 3/16 giugno 1917 e si prolungò fino al 24 giugno/7 luglio, con lunghe discussioni che per il momento lasciarono la situazione come l’avevano trovata. Ma con quel congresso si chiuse la fase di preparazione legale del partito bolscevico, di agitazione sulla piattaforma stabilita dalle «Tesi di Aprile», e si aprì la nuova fase, ossia non il passaggio del partito all’attacco insurrezionale, bensì l’attacco ad esso della controrivoluzione, la fine dell’utilizzazione delle pubbliche libertà, il ritorno forzato «nel sottosuolo», ossia a quell’azione illegale in cui il partito era ferratissimo.
Al potere come sappiamo era il governo della coalizione stabilita il 6/19 maggio tra i borghesi e i social-opportunisti: Lvov presidente, altri dieci ministri tra ottobristi e cadetti (i «dieci ministri capitalisti»), i menscevichi Tsereteli e Skobelev, i socialrivoluzionari e affini Kerenski, Pereverzev, Černov, Peshekhonov. Kerenski, anima dannata degli alleati di occidente, era alla Guerra: il partito socialrivoluzionario era in quel torno il più numericamente influente in Russia.
Tre mesi corrono fra l’arrivo di Lenin e la lotta di Luglio: il riarmo del partito fu valido: nel lato teorico con la precisa definizione degli obiettivi, nel lato tattico con l’indirizzo di svolgere per il momento azione di organizzazione, propaganda ed agitazione tra le masse.
Deriva da questa fase la tradizione, poi esageratamente stamburata, di una speciale «ricetta» che la «bolscevizzazione» conferirebbe per dare la sveglia alle masse se dormono, con un lavoro tenace, indefesso e così via, come in una abusata demagogica campagna. Tale ricetta venne in tutto il tempo della dominazione staliniana impiegata in modo ipocrita, filisteo e tecoppesco per chiudere la bocca a chi, invece, vedeva la vera tradizione venir tradita bassamente e impunemente. Si trattò, invece, di una particolare attitudine a valutare il trapasso storico, dalla lunga preparazione teorica previsto ed atteso, e non di un espediente da ciarlatani per capovolgere sempre ed ovunque situazioni stagnanti. Oggi noi stagniamo da trent’anni, allora la situazione evolveva ogni mezzo mese. Non in ogni tempo è dato andare alle «grandi masse», ma solo in quello in cui esse sono in moto verso la rivoluzione: tempo che si capisce, non si provoca.
Quei tre mesi non furono, in quello specifico tempo e luogo, certo buttati via. Il Comitato centrale di Aprile aveva così riassunto i compiti:
«1. Spiegazione della linea e dell’indirizzo proletario per mettere fine alla guerra.
2. Critica della politica piccolo-borghese di fiducia e di appoggio al governo dei capitalisti.
3. Propaganda ed agitazione da gruppo a gruppo in ogni reggimento, in ogni officina, particolarmente in seno alle masse arretrate dei domestici, braccianti, ecc. [testo non di Leninista penna qui, o mal tradotto, se appaia i domestici di città e campagna, versione peggiorata del servo russo della gleba, con gli operai agricoli puri], poiché soprattutto su di essi la borghesia ha cercato di far leva nei giorni della crisi.
4. Organizzazione, organizzazione e ancora una volta organizzazione del proletariato in ogni officina, in ogni rione, in ogni quartiere«[63].
Questa è lezione storica di primo ordine nello studio dei processi rivoluzionari; non è una filosofia eterna quanto spicciola dell’organizzazione, forma storica il cui gioco sta nel suo contenuto, e che automaticamente non è rivoluzionaria, e può anche essere l’opposto. Seguiamo infatti il gioco ardente delle forze sociali.
Alla vigilia del congresso varie volte i bolscevichi misurarono il grado della loro assidua preparazione: alla Conferenza dei comitati di fabbrica e d’officina tenuta il 30 maggio – 3 giugno (12–16 giugno nuovo stile), in cui i tre quarti dei delegati accettarono la linea bolscevica di Lenin – ben illustrata dalla «Risoluzione sulle misure di lotta contro lo sfacelo economico» –[64], alla conferenza delle organizzazioni militari bolsceviche tenuta durante il congresso panrusso tra i soldati, e in altre occasioni e manifestazioni. I sindacati operai erano saliti in quel periodo a 130 di nuova costituzione nella capitale e 2000 in tutta la Russia.
Il Congresso Panrusso, aperto il 3/16 giugno sotto la regia dei capi opportunisti del governo e del Soviet della capitale, constava di mille delegati e più, ma solo 822 avevano voto deliberativo. Di questi 285 erano socialisti rivoluzionari, 248 menscevichi, che, seguiti da varie piccole frazioni, disponevano della maggioranza schiacciante. I bolscevichi non erano che 105. Al Congresso erano rappresentati 305 Soviet locali unificati di deputati contadini e soldati, di tutta la Russia; 53 Soviet regionali e provinciali; 21 organizzazioni dell’esercito attivo; 8 della riserva; 5 della marina da guerra. Era la disposizione di una forza colossale inquadrata e armata: si mostrò totalmente impotente.
La solida frazione bolscevica non aveva in quel congresso né il proposito di raggiungere la maggioranza, né quello di attaccare il congresso dal di fuori quando questo ne avesse respinte le proposte. Il passo di quel momento era solo di proclamare in campo più vasto il programma rivoluzionario fatto proprio dal partito in aprile.
Alla presidenza sedevano per i bolscevichi Kamenev, Zinoviev, Nogin, Krylenko. Oratori principali furono Lenin, Zinoviev, Kamenev. Ma il lavoro della frazione fu silenziosamente condotto da due organizzatori di forza: Stalin e Sverdlov, che mai andarono alla tribuna. Trotsky non era ancora nel partito bolscevico. È giusto il suo rilievo che se Sverdlov non fosse morto, presto avrebbe egli assunto, vicinissimo a Lenin, le funzioni di segretario organizzativo del partito.
Comunque i bolscevichi, che come i fatti mostrarono già controllavano le masse della capitale Pietrogrado e avrebbero potuto premere dall’esterno sul congresso, per l’ultima volta condussero una grande battaglia di parole e di idee, su un terreno neutro, che fu una dichiarazione di guerra vicina tanto alla borghesia quanto agli opportunisti, ancora insediati a dividersi l’eredità dello zarismo.
La questione primaria era quella dell’attitudine verso il governo provvisorio. Socialrivoluzionari e menscevichi sostenevano, nel congresso panrusso, la posizione che avevano fino allora fatta prevalere nel Soviet di Pietrogrado: lasciare il potere governativo al ministero di coalizione, formato fuori dei Soviet, nel seno dell’equivoco comitato che pretendeva risalire alla vecchia Duma «eletta» sotto lo zar. Ed intanto rimettere tutto all’Assemblea costituente da eleggersi «come nei paesi liberali e civili».
Tsereteli, uno dei più loquaci oratori, ripete per l’ennesima volta:
«Nel momento attuale, non vi e in Russia nessun partito politico che dica: dateci il potere, andatevene, noi occuperemo il vostro posto. Un tale partito in Russia non esiste».
Il vecchio retore era sicuro del suo effetto e della sua platea, ma una voce – era quella di Lenin – gli rispose da uno dei banchi dei delegati:
«Questo partito esiste!»
Tra rumori e commenti stupiti Lenin salì alla tribuna:
«Egli, Tsereteli, ha detto che in Russia non c’è un partito politico che si dichiari pronto a prendere tutto il potere nelle sue mani. lo rispondo: C’è! Nessun partito può rifiutarsi di far questo, e il nostro non vi si rifiuta: esso è pronto, in ogni momento, a prendere tutto il potere nelle sue mani!»[65].
Questa narrazione sarà un poco romanzata, forse, ma noi abbiamo nelle «Opere» di Lenin due testi: quello del discorso che appunto il 4 giugno tenne sulla questione dell’attitudine verso il governo, e quello della risoluzione proposta sulla scottante questione agraria.
Nel discorso (verbale ufficiale del Soviet non bolscevico?) figura la risposta alla frase citata di Tsereteli: evidentemente Lenin riprese l’interruzione lanciata in precedenza, e la dichiarazione di essere pronti a prendere il potere. Segue tra parentesi: (applausi, risa). Infatti il congresso in parte applaudiva l’aperta dichiarazione; i capoccioni, povera gente, ostentarono di sghignazzare: eran quelli che in aprile avevano sentenziato: Lenin rimarrà solo, mentre noi staremo alla testa della rivoluzione!
Compito primo del movimento marxista, dichiarata organizzazione per prevedere la storia, è l’inesausto confronto coi fatti delle previsioni di quei bravi uomini che ci trattano da visionari. E questa ce la offriamo.
Prima di citare i passi che resero acido il riso di uno Tsereteli, sottolineiamo un istante questo fatto storico: il partito non nasconde mai di essere costruito per tenere, solo, il potere.
Badate: nel momento che quel Lenin ritenuto in tattica – da chi nulla ha mai capito – un imprevedibile funambolo senza scrupoli, un acrobata del doppio gioco, assesta con assoluta calma quel fendente, la situazione è questa: non si tratta di costruire la società socialista, di attuare il programma socialista; non si tratta nemmeno di minacciare per domani l’azione in piazza, la violenza insurrezionale, di darne dalla tribuna la parola d’ordine alle masse; si dichiara ancora di intendere di usare le facoltà legali di propaganda; non si dice – e lo si dirà, e, come vedremo, in dottrina lo si teorizza fin da ora – che restando in minoranza si vedrà di far fuori la maggioranza a spintoni; non si chiede al Soviet di assumere immediatamente il potere, sotto pena di boicottarlo. Niente di tutto questo, ma, per gli infernali iddii, pur non annunziando né minacciando la rivoluzione alle porte, si proclama altamente che il partito della classe lavoratrice esiste per raggiungere questo solo scopo: pigliare il potere, e non già, sia pure nella fase più a lui sfavorevole, per quello di parteciparvi al fine di reggere i pendagli all’amministrazione altrui.
Valga questo per gli «allievi» di Lenin, che dicono di avere imparato da lui quella duttilità che le ragazze-squillo imparano dalla ruffiana, e (oggi 1955) che il loro partito altro scopo non ha che il bene della nazione, e a tal fine la governi chi vuole. Maiali!
È in un ambiente ostile che Lenin parla, ed è esatto l’altro episodio verbalizzato.
«(Il presidente: Il vostro tempo è scaduto).
Lenin. Fra mezzo minuto finisco… (Rumori, grida, inviti a continuare, proteste, applausi).
(Il presidente: Comunico al Congresso che la presidenza propone di prolungare il tempo concesso all’oratore. Chi è contro? – La maggioranza è favorevole)»[66].
Il discorso terminerà «fra gli applausi di una parte dell’assemblea».
Egli cominciò col chiedere: che tipo di istituzione è questa assemblea? Potete voi dire che esiste in qualche altro paese del mondo? No. E allora la questione è questa: o un governo borghese come in tutti i paesi odierni, o questa istituzione a cui oggi si fa appello perché decida del potere. Ora questa nuova istituzione è un governo, di cui si trovano esempi solo nella storia dei più grandi slanci rivoluzionari, come quello del 1905 in Russia, e del 1792 e del 1871 in Francia.
La conclusione di Lenin ci è familiare: è una conclusione contro la coesistenza. Governo borghese di tipo parlamentare e Soviet non possono coesistere: quindi o si sopprime il primo, ovvero il secondo sarà travolto dalla controrivoluzione ed al più naufragherà nel ridicolo.
Conformemente a questa dottrina (non dite, Lenin grida, che si tratti solo di una questione teorica!) abbiamo sempre, da allora ad oggi, dato del bagolone a tutti quelli che, senza nessun movimento e stando bene in piedi il governo parlamentare borghese, volevano «fondare in Italia i Soviet»[67].
Tutti ce l’hanno col costruire, edificare, fondare. L’animus borghese dell’impresa di costruzione! Siamo rivoluzionari in quanto aspiriamo solo ad abbattere demolire e sfondare!
Ma vogliamo fermarci sulla notevolissima affermazione che un’istituzione di governo sorgente dalle masse sfruttate si ebbe non solo nella Russia del 1905 e nella Comune di Parigi, ma altresì «nella Francia del 1792».
Questa è una tesi di Marx e di Lenin fondatissima. La rivoluzione francese del 1789–1793 fu una rivoluzione borghese, ossia fu determinata dalla pressione del modo capitalista di produzione che doveva sostituire quello feudale; né poteva esservi altra prospettiva sociale che il passaggio del privilegio economico e del potere politico dalla nobiltà feudale alla grande borghesia. Ma lo scontro si manifestò come urto delle masse povere della città e della campagna contro l’antico regime e le sue difese: ed è proprio di una rivoluzione storicamente a cavallo tra feudalismo e capitalismo che resta ben detto rivoluzione veramente popolare. Fu una rivoluzione di classe per la borghesia, ma non della borghesia, che fece combattere i poveri, e i medi dell’intelligenza. Vera rivoluzione di classe e non di popolo sarà la nostra, perché il proletariato farà la rivoluzione per se stesso, e più ancora per distruggere le classi tutte; la farà la stessa classe operaia, ed essa sola.
In Russia nel 1917 tra febbraio e ottobre non abbiamo il problema storico della rivoluzione tra capitalismo e socialismo, bensì quello ancora della rivoluzione tra feudalismo e capitalismo. Solo che nel lontano 1792 si trattava della seconda rivoluzione borghese, e il popolo povero poteva combattere ma non governare; nel recente 1917 si trattò della… penultima rivoluzione borghese, ed il proletariato, già ben presente, dovette combattere col popolo e governare con esso – in egemonia su esso.
Non ci dilungheremo ora in citazioni di Marx e di Lenin a proposito di un dualismo di potere nella rivoluzione antifeudale rivelatosi già nella rivoluzione francese del sec. XVIII (e potremmo dire anche nell’inglese del XVII al tempo di Cromwell e poi degli Orange) e finito in entrambi quei casi con la disfatta dell’embrionale «potere del popolo» e il trionfo di quello della classe possidente minoritaria di fabbricanti, banchieri e terrieri borghesi. In questo concetto si vede contrapposta al primo Parlamento, agli Stati Generali, del 1789, la Convenzione estremista del 1793 che esprimeva l’ardore rivoluzionario dei sanculotti urbani e degli incendiari servi liberati delle campagne, cadendo nel Termidoro sotto il potere grande-borghese, come doveva tanto tempo dopo cadere la Comune sotto gli sgherri di Thiers.
Tralasciando una tale analisi daremo un passo di Lenin che conferma come la Rivoluzione russa era nel suo complesso una rivoluzione borghese, e tra queste si svolse come «veramente popolare» – il che non contraddice alla tesi che vinse in Ottobre come rivoluzione politica socialista, e diretta allo sviluppo sociale anticapitalista, pure essendo, alla fine del ciclo e con la sconfitta del partito rivoluzionario e internazionalista seguita a quella dei comunisti europei, ritornata a chiudersi – non meno della francese del 1793 – nel grande trapasso feudalismo-capitalismo. Il passo è questo, di «Stato e rivoluzione»:
«Se prendiamo ad esempio le rivoluzioni del XX secolo, bisogna ben riconoscere che le rivoluzioni turca e portoghese furono rivoluzioni borghesi. Ma né l’una né l’altra furono popolari, poiché la massa del popolo, la sua immensa maggioranza, non intervenne in modo attivo e indipendente, con rivendicazioni economiche e politiche proprie, né nell’una né nell’altra di queste due rivoluzioni. La rivoluzione borghese russa del 1905–1907 [Lenin scrive tra febbraio e ottobre, proprio al tempo di quel congresso di giugno, e qui denunzia Tsereteli per avere, pochi giorni dopo il discorso che stiamo trattando, avanzata la sua candidatura al compito di fucilatore dei bolscevichi] è stata invece senza dubbio una rivoluzione veramente popolare [frase presa da Marx ed Engels, che senza posa denunziarono la mancanza di questo trapasso storico per la Germania borghese] poiché la massa del popolo, la sua maggioranza, i suoi strati sociali inferiori più profondi, oppressi dal giogo e dallo sfruttamento, si sono sollevati in modo indipendente e hanno impresso su tutto il corso della rivoluzione il suggello delle loro esigenze, dei loro tentativi [qui, immaginate un corsivo messo da noi alla profetica parola] di costruire a proprio modo una nuova società al posto dell’antica che essi distruggevano»[68].
Qui resta chiaro che tra le rivoluzioni borghesi quella russa è stata squisitamente popolare, e che Lenin ha condotta una rivoluzione popolare nel corso del 1917, rendendosene perfettamente conto. In tutto questo ha camminato sulla via della rivoluzione anticapitalista europea, in un’Europa in cui ormai non si verificava la condizione del 1871
«in cui sul continente in nessuno degli Stati il proletariato non costituiva la maggioranza del popolo»,
come dice subito in seguito a quel passo.
Ma vile e traditore è chi dice che proprio Lenin ha tracciato una nuova via della rivoluzione di classe d’Europa, degradandola a «veramente popolare»: laddove era questa una promozione autentica per una rivoluzione capitalistica-borghese nascente, come la Russia, dal feudalismo storico.
Avvenuta che fosse tale rivoluzione, che egli non vide, la rivoluzione russa non sarebbe scesa da popolare a capitalista, ma di colpo veramente salita da popolare a proletaria classista e comunista. E ciò fu.
Ma torniamo al I Congresso dei Soviet.
Lenin deride la mania di questa frase pomposa negli opportunisti. Egli non lascia il suo binario di venti anni (come inventa lo stalinismo) e non nega affatto di proporre solo una dittatura del proletariato e dei contadini poveri nella rivoluzione democratica. Siete voi, dice, che non dovete parlare di democrazia rivoluzionaria, ma di «democrazia riformista con un ministero capitalista». E qui che l’oratore si rivolge a quello che non chiama certo compagno, ma «cittadino ministro delle Poste e Telegrafi» e gli dà la risposta che suscitò negli opportunisti le già dette risate.
«Potete ridere quanto volete, ma se il cittadino ministro pone anche noi, oltre che un partito di destra [oh, quanto vecchia risorsa di rinnegati!] di fronte a questa questione [del potere] riceverà la risposta che si merita. Finché esiste la libertà, finché le minacce di arresto e di deportazione in Siberia – profferite dai controrivoluzionari con i quali i nostri ministri quasi-socialisti si trovano tutti uniti in uno stesso collegio – non sono che minacce, ogni partito in simile momento dice: dateci la vostra fiducia e noi vi esporremo il nostro programma. La nostra conferenza del 29 aprile ha esposto questo programma […]. Cercherò di darne al cittadino ministro una spiegazione ‹popolare›»[69].
Lenin fa seguire l’esposizione delle idee e delle proposte di aprile. Il governo vuole che la guerra continui, perché tale è l’interesse dei capitalisti russi ed esteri, ed è un governo della stessa classe.
Ma la confutazione di Tsereteli sul diritto dei partiti in regime di libertà ebbe un gran sapore dialettico e polemico. Purtroppo Lenin non ha potuto rivedere i volumi delle sue «Opere»… Lenin prevedeva che era questione di giorni per la messa fuori legge dei bolscevichi, dei soli nemici della coalizione coi borghesi, ossia della servitù sotto i borghesi.
Egli contrappone le due alternative: Se, per evitare che il proletariato, e il nostro partito, vadano al potere, prendete contro di noi e le nostre possibilità di agitazione nelle elezioni dei Soviet, nella stampa, ecc., misure repressive, ciò ben mostrerà che la nostra tesi è giusta. Ma fino a quando asserite che la libertà democratica ha con voi trionfato, allora perché, dopo la consultazione delle classi lavoratrici in seno ad una democrazia rivoluzionaria, pretendete che l’assemblea dei Soviet per principio rispetti il potere di un centro esterno ad essa, precostituito? Invitate i lavoratori a eleggere delegati menscevichi e socialisti rivoluzionari, li invitate a seguire questi partiti che si dicono socialisti; ma con quale logica, se tali partiti affermano per principio di non volere arrivare al potere?
Questa chiara quanto tagliente argomentazione tende a realizzare la serie dei risultati: solo i Soviet devono avere il potere e formare il governo. Ma perché questo sia possibile bisogna che nei Soviet non prevalgano i partiti che si dicono operai mentre propongono alla classe operaia di rinunziare in partenza ad ogni eventualità del potere.
Dal discorso di Lenin riceve luce anche la questione delle misure pratiche anticapitaliste che il governo di coalizione è impotente a prendere. Gli opportunisti qui si difendono con la solita solfa: la situazione economica è grave, la Russia è povera ed ulteriormente immiserita dalla guerra. Chiedere misure contro la grande industria significa pretendere di «instaurare» il socialismo: essi si dicono socialisti, ma eccepiscono, ben fuori di luogo, che il socialismo segue solo sulla base di uno sviluppato capitalismo. Lenin spiega che non si tratta di questo, ma solo di andare avanti nel senso degli interessi dei lavoratori e contro quelli borghesi. Noi abbiamo chiesto in aprile solo l’accertamento, egli dice, dei profitti del 500 e 800 per cento degli industriali di guerra, col mezzo di schiaffarne alcuni in prigione per un po’ di tempo in modo che rivelino tutto, e mediante il controllo degli operai rivoluzionari nell’azienda. Questo non è socialismo.
Siamo sempre sullo stesso punto della polemica. Sono una serie di passi nella direzione della lotta della nostra classe, possibili anche fin quando non sarà possibile il socialismo, che come punto di arrivo è fuori della rivoluzione in Russia, ma deve restare il traguardo della classe e del partito. Si tratta dunque del controllo operaio, della cartellizzazione obbligatoria, ossia della costituzione di sindacati industriali controllati dallo Stato. Questo lo fanno anche i governi borghesi (in Italia le varie IRI) ma al fine di accrescere il profitto capitalista con soldi dello Stato: la rivoluzione deve farlo per incamerare parte dei profitti. E finalmente, ma solo più tardi, i bolscevichi proporranno la statizzazione delle fabbriche.
Fin dal 1918, e nel 1921, Lenin spiegherà che non si tratta, nemmeno con l’espropriazione senza indennizzo, di socialismo, ma di salire il gradino del capitalismo di Stato, che è sulla marcia verso il socialismo.
Ma ponete la questione come concreto rapporto di forze politiche. Il partito rivoluzionario dà la parola delle fabbriche di industria bellica, pesante, allo Stato, per rafforzare la forma armata dello Stato stesso e il potere politico della classe operaia. Gli opportunisti si oppongono, perché non vogliono togliere ai capitalisti né il profitto né il potere, e assumono che non essendo maturo il socialismo non è il momento di statizzare i grandi mezzi di produzione! La giusta risposta è duplice: statizzazione industriale è capitalismo di Stato, e non ancora socialismo (nemmeno nel senso di fase inferiore del comunismo). Ma nel negare questa misura e nel sostenerla si ha un atto della lotta contro il socialismo e per il socialismo, lotta quest’ultima che il proletariato conduce anche sapendo che viene ad amministrare il potere, ancora in forma democratica, di una società borghese.
Lenin concluderà dicendo che la rivoluzione non può sostare: deve fare tutti quei passi reali in avanti, o deve cedere alla controrivoluzione se indietreggia. Ma i tempi non sono ancora maturi e questo Primo Congresso rincula, vota per Tsereteli, per Černov. Prima però i bolscevichi avranno dato la dimostrazione piena che il governo vuole e conduce una guerra di vittorie imperiali, e prepara rovinose offensive militari, che esso non sostiene i diritti degli operai delle città contro l’esosità dei padroni, che inganna i contadini fermando ogni riforma fino alla decisione dell’Assemblea Costituente[70].
A questo proposito, per un’ennesima volta, poderosa è la stesura di Lenin della – respinta – risoluzione sulla questione agraria, nel progetto da lui redatto per il I congresso dei deputati contadini di tutta la Russia, 17 maggio – 10 giugno, ovvero 4 – 28 maggio vecchio stile[71].
Le formule economico-sociali sono quelle ben note e strettamente marxiste:
«Bisogna incoraggiare la trasformazione di ogni grande proprietà fondiaria in un azienda modello, coltivandone la terra in comune, con i migliori attrezzi, sotto la direzione di agronomi e secondo le decisioni dei Soviet dei deputati operai agricoli».
Più che mai la populista spartizione e la proprietà contadina parcellare sono fieramente condannate.
Ma il punto interessante politicamente è quello 2.
«I contadini devono prendere immediatamente in gestione tutta la terra, in modo organizzato […] senza che ciò pregiudichi la decisione definitiva dell’Assemblea costituente – o del Consiglio dei Soviet di tutta la Russia, se il popolo darà a tale Consiglio il potere statale centrale - sul regime agrario».
Qui la dizione sente con pari potenza delle posizioni di principio e di dottrina e di una prospettiva storica sicuramente tracciata.
I Soviet, se non devono sparire, e mancare oltre a tutti gli altri compiti a quello di ricevere collettivamente la terra dei grandi fondiari, ed evitarne la frammentazione, certamente giungeranno al punto di avocare a sé il potere centrale dello Stato, eliminando il Governo provvisorio. Questo eliminato, cade la necessità dell’Assemblea Costituente: saranno «costituenti» in materia agraria e in ogni altra i Soviet nel Consiglio centrale supremo.
Leggiamo già la condanna, che parve – ai fessi – improvviso ripiego al non avervi avuto la maggioranza, dell’Assemblea costituente futura ad una poco lusinghiera liquidazione appena nata!
Nessuna forma costituzionale ed organizzativa in sé e per virtù propria può fare miracoli.
Questo congresso opportunista e timoroso del potere capitalista ne fu la prova: presto udremo Lenin pronunziare ben altra condanna; e dire che la formula: il potere ai Soviet va fino a che i Soviet si muovono come forza di classe: altrimenti la formula viene, come fu, mutata: la classe e il suo partito possono, se necessario, prendere il potere senza i Soviet e contro la loro maggioranza.
Né l’involucro della democrazia parlamentare, né quello particolarmente instabile e fugace della «democrazia rivoluzionaria» sono in diritto di arrogarsi l’esclusiva della rivoluzione: questa potrà passare anche senza e contro tali forme, anche se è, come è, una rivoluzione socialmente antifeudale, ed è condotta come anticapitalista nel senso «potenziale», ma non ancora in quello «attuale».
Durante e dopo il Congresso gli avvenimenti incalzano.
Durante il Congresso, che erano ben sicuri di controllare fino in fondo, i partiti menscevico ed esserre avevano preparato una manifestazione in onore dei caduti della rivoluzione, fissandola al 12 giugno. Cominciando a trepidare per gli umori del proletariato di Pietrogrado, esitarono e finirono con lo spostarla al 18 giugno (1 luglio). Ma in tale giorno doveva per fatale coincidenza essere scatenata la nuova offensiva sul fronte tedesco, che il semidemente Kerenski aveva fomentata, e i piani della quale, pronti da tempo, erano quelli stessi del febbraio dello Stato Maggiore Generale zarista, con la complicità di una serie di generali controrivoluzionari, che saranno poi famosi, come i Kornilov e i Denikin.
La dimostrazione del giugno riuscì all’opposto di quello che i maneggioni del Congresso aspettavano. Gli operai di Pietrogrado scesero nelle piazze con bandiere, cartelli e grida infrenabili che riecheggiavano in tutto le parole del partito bolscevico: «Tutto il potere ai Soviet!» – «Abbasso i dieci ministri capitalisti!» – «Pane, pace e libertà» – «Controllo operaio sulla produzione» e simili. Benché già prima del giorno 12 al congresso si fosse da Dan e Tsereteli inveito contro i bolscevichi accusandoli di complotto controrivoluzionario e sabotatore della rivoluzione, la dimostrazione del 18 giugno vedeva pacificamente mobilitato mezzo milione di cittadini di Pietrogrado e dei centri vicini. I pochissimi gruppi con motti di fiducia al Governo provvisorio furono derisi e dispersi dagli stessi dimostranti, e grave fu la paura degli opportunisti. I giornali menscevichi ebbero a scrivere cose di questo genere:
«La dimostrazione del 18 giugno si è trasformata in dimostrazione di sfiducia al Governo Provvisorio. Esteriormente produceva una impressione deplorevole. Sembrava che la Pietrogrado rivoluzionaria si fosse staccata dal congresso dei Soviet di tutta la Russia… Alcuni giorni prima questo aveva votata la sua fiducia nel Governo. Il 18 tutta la Pietrogrado rivoluzionaria sembrava esprimergli una netta sfiducia».
I bolscevichi in questa occasione non avevano affatto l’obiettivo di uno scontro armato, e contennero il movimento nei limiti di una dimostrazione imponente, ma tranquilla. Ma frattanto gli eventi precipitavano: gli opportunisti preparavano piani di repressione, di cui si erano in pubblico congresso vantati, i soldati fremevano per le notizie dei successivi invii di formazioni verso il fronte, e i lavoratori di Pietrogrado, tra cui non pochi compagni bolscevichi impazienti, cominciavano a domandarsi se non era meglio attaccare con tutte le forze il governo e tentarne l’abbattimento.
Siamo in effetti ad uno svolto storico, ad uno di quei capovolgimenti che solitamente sono invocati per pretendere una revisione totale ed una completa inversione non solo delle disposizioni tattiche di azione, ma anche, con grave errore e danno, per elaborare tutta una nuova visione della prospettiva storica e della valutazione dottrinale fino allora dal partito seguita, ed è in queste svolte che scoppiano le crisi dell’infezione opportunista.
La forza del partito bolscevico, come alla luce dei fatti andiamo qui dimostrando, a sbugiardamento della pessima, falsa, traditrice utilizzazione di queste celebri e grandiose esperienze, fu invece di spostare con magnifica sicurezza il fronte del suo schieramento e i mezzi pratici di combattimento, ma senza mai smarrire la linea solidamente ininterrotta della sua teorizzazione e previsione sul corso della rivoluzione in Russia. In verità in tutti questi svolti ora Tizio ora Sempronio, ora la tale tendenza ora l’altra, non evitarono la crisi, e ciò difficilmente era evitabile, ma quasi sempre il partito come unità superiore ai singoli prese e tenne la giusta via.
Non è nemmeno giusto attribuire questo eccezionale favorevole risultato della lotta storica più memorabile che abbia fin qui registrato il movimento operaio alla presenza dell’uomo di Genio che appare solo ogni cinquecento anni, come Zinoviev si lasciò una volta andare a dire. Lenin stesso ha provato e dichiarato che il risultato utile si dovette ad una costante, per lunghi anni, osservanza dei principi del partito, all’utilizzazione coerente del cammino del movimento proletario in un lungo corso ed in tutte le nazioni, al rigoroso confronto dei fatti presenti con le leggi del divenire storico in tutte le fasi passate, elaborate dalla nostra teoria rivoluzionaria. Volontà, tenacia, coraggio e dominio di sé davanti ai momenti terribili ne mostrarono centinaia e migliaia di compagni e di proletari.
Il Congresso dei Soviet si chiude dopo le interminabili e talvolta vuote discussioni il 24 giugno / 7 luglio 1917: nei venti giorni dei suoi sterili lavori tutto è mutato.
Dopo la dimostrazione del 18 giugno i movimenti dei nemici del bolscevismo stringono i tempi: ministri capitalisti e generali zaristi sotto la pressione dei collegati imperialismi di occidente devono far scattare la guerra, sia pure al solo scopo di alleggerire la pressione tedesca contro i paesi «democratici»; gli opportunisti del «socialismo», anche quelli che erano stati in una vaga attitudine internazionalista e zimmerwaldiana quando alla testa dell’esercito era la monarchia autocratica, sono irresistibilmente trascinati sulla via del tradimento social-nazionale dei partiti europei: essi hanno insultato Lenin come agente tedesco quando questi additava loro la via segnata da Liebknecht, incarcerato in quel tempo per aver detto ai soldati tedeschi di sparare sul loro Kaiser. Essi non capiscono che la loro coalizione coi borghesi facilita il legame di questi con la controrivoluzione, anche autocratica e zarista, come poco tempo dopo vedranno senza tuttavia poter guarire – Lenin prevedrà e constaterà nelle fasi seguenti che simili rinsavimenti non sono possibili.
Le famose giornate di luglio si datano tra il 4 e il 6, ossia tra il 17 e il 19 nuovo stile: il 7/20 sarà spiccato il mandato di arresto di Lenin, il quale dovrà nascondersi. Intanto il Congresso dei bolscevichi, che ammetterà Trotsky e la sua tendenza, è convocato per il 26 luglio/8 agosto e sarà completamente sotterraneo: il 22 lo stesso Trotsky verrà arrestato e con lui Kamenev e molti altri compagni. Stalin rimasto libero condurrà tutta l’organizzazione della messa in salvo di Lenin in Finlandia come del congresso illegale, le cui discussioni dovranno, ancora una volta, molto risentire di quel tornante tumultuoso.
Come abbiamo detto proprio il 18 giugno/1 luglio, mentre le masse manifestavano in Pietrogrado, si iniziò l’offensiva, con circa 300 mila uomini su un fronte di 70 chilometri e con l’impiego di rilevante artiglieria, 800 pezzi leggeri, più di 500 medi e pesanti. Vi fu un iniziale successo militare. Fino al 25 giugno i russi registrarono successi e avanzarono sia pure sacrificando 60 mila uomini. Ma i tedeschi contrattaccarono e già il 6 luglio sfondarono il fronte definitivamente facendo fallire la famosa offensiva di Kerenski e Brusilov e determinando la dissoluzione dell’esercito russo combattente.
Tutti questi eventi: il tradimento dei social-opportunisti, dei «fautori dei compromessi», col passaggio alla reazione poliziesca, le collusioni tra i loro capi e ministri e i generali zaristi, la catastrofe dell’offensiva imposta dagli alleati imperialisti, il ritorno all’illegalità del partito e alla situazione di guerra civile, erano integralmente previsti nella prospettiva seguita da Lenin.
Tutto ciò confermava la tattica seguita nei Soviet che doveva arrivare fino allo smascheramento della politica borghese opportunista innanzi alle masse contadine del fronte, ed il partito vi era dunque pienamente preparato.
Tuttavia la strategia predisposta da Lenin e dalla maggioranza non era ancora quella di accettare la battaglia nelle strade e di rovesciare il governo: anche questo era svolto storico previsto dalla teoria e preparato tatticamente, ma il partito non aveva e non avrebbe scelto il luglio: era troppo presto. Tuttavia dopo il riarmo dell’Aprile il Luglio non fu affatto una sorpresa, ed anzi venne a provare che si era visto giusto, e che si procedeva bene sulla via storica che il partito si era disposto a percorrere fino alla fine.
E falso dunque il titolo che nel VI congresso il partito (come nella solita Storia ufficiale) si orientò verso l’insurrezione armata. Esso era da tempo orientato verso di essa, e non aveva mai ammesso che per altra via potesse arrivare alla vittoria e al potere. Lenin non aveva nulla di nuovo da scoprire in materia, e tanto meno aveva bisogno che lo scoprisse Stalin, giusta la grossolana insinuata manipolazione!
Le dimostrazioni spontanee scoppiarono nel quartiere di Vyborg il 3/16 luglio, e si fusero in un’unica grande manifestazione di lavoratori, questa volta armati, sotto la parola del passaggio dei poteri dal Governo provvisorio ai Soviet. Il partito fu presente per evitare che si sferrasse l’assalto armato, ma il governo scatenò sui dimostranti gli junker (allievi ufficiali) e il sangue prese a scorrere. Borghesi e guardie bianche si illusero di aver vinto[72].
Notes:
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«Risoluzione del CC del POSDR del 22 aprile /5 maggio 1917», in Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 209–210. La traduzione italiana è qui leggermente diversa dal testo surriprodotto, e anziché di «braccianti» vi si parla di «manovali», termine tuttavia ancora vago e di dubbia interpretazione. [⤒]
In Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 522–524. [⤒]
Lenin, «Discorso sull’atteggiamento verso il governo provvisorio», 4/17 giugno, in «Opere», XXV, pag. 14. L’episodio di cui sopra è confermato, in base ai verbali poi editi, da E. H. Carr ne «La rivoluzione bolscevica, 1917–1923», Torino 1964, pag. 91. [⤒]
Lenin, «Discorso sull’atteggiamento verso il governo provvisorio», 4/17 giugno, in «Opere», XXV, p. 17. [⤒]
Si vedano, nella nostra «Storia della Sinistra comunista 1919–1920», cit., le pagg. 112–115, 140–143, 167–168, 225–258 e gli scritti apparsi su questo tema nell’organo della Frazione comunista astensionista, «Il Soviet», fra il settembre 1919 e l’aprile 1920. ivi riprodotti a pagg. 183–184 [«Tesi sulla costituzione dei Consigli Operai proposte dal CC della Frazione Comunista Astensionista del PSI»] e 274–294 [«Il sistema di rappresentanza comunista », «Formiamo i Soviet?», «Per la costituzione dei Consigli Operai in Italia»]. [⤒]
Lenin, «Stato e rivoluzione», in «Opere», XXV, pag. 393. [⤒]
«Discorso sull’atteggiamento verso il Governo provvisorio», 4/17 giugno, in «Opere», XXV, pag. 14. [⤒]
Cfr. il «Discorso sulla guerra» tenuto da Lenin nella stessa sede il 9/22 giugno, in «Opere», XXV, pagg. 22–34. [⤒]
Lenin, «Progetto di risoluzione sulla questione agraria», in «Opere», XXIV. pag. 495–496, cui fa seguito un grande discorso sullo stesso tema, al quale rinviamo il lettore (ivi, pagg. 497–515). [⤒]
Sulle giornate di luglio, si veda l’ampio e fremente racconto di Trotsky nella «Storia della rivoluzione russa», cit., vol. II, pagg. 541–626. [⤒]