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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XVII)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVII)
Riprende la parte seconda
Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica
9 – Ripresa a distanza
10 – Heri dicebamus
11 – Una tregua di classe?
12 – Teoria della guerra civile
13 – Marxismo internazionale
14 – La bussola al socialismo
15 – Controllo e socializzazione
16 – Il progetto di Lenin
17 – Le misure rurali
18 – Lenin sapeva bene
19 – Linguaggio aperto e sicuro
20 – Coerenza totale al marxismo
21 – Il compromesso quanto duró?
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Notes
Source


Parte seconda (continua)[130]

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVII)

Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica

9 – Ripresa a distanza

I primi otto paragrafetti di questa seconda parte del nostro studio sono quelli apparsi nel n. 4 di «Programma comunista» del 18 febbraio – 2 marzo 1956. Essi sono stati scritti prima che pervenissero le notizie delle discussioni nel XX congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

La lunga interruzione ha coperto ben dieci numeri del periodico, e gli stessi sono stati così occupati: sei numeri dal «Dialogato coi morti»[131], studio del tutto inerente al tema e dedicato al commento al Congresso russo; uno, il n. 11, ad un «Intermezzo», destinato a saldare meglio l’interrotto resoconto dei rapporti alle riunioni di Napoli e Genova (aprile ed agosto 1955) con la continuazione, che solo oggi riprende; altri tre dedicati al resoconto della riunione di Torino, tenuta il 27 e 28 maggio 1956, nella quale si è voluto riandare con opportuni complementi a tutto l’argomento russo, oggetto della complessa elaborazione[132].

Vogliamo anche ricordare che la prima parte del rapporto Napoli-Genova, sulla struttura sociale della Russia, aveva per titolo: «La lotta per il potere nelle due rivoluzioni», e non si è arrestata alla conquista bolscevica nell’Ottobre del 1917, proseguendo per tutti gli anni della guerra civile, in cui si continuò in forma asperrima la contesa per il potere, su fronti multipli e spesso minacciosi per la Rivoluzione vittoriosa. In tal modo l’esposizione si estese agli anni memorabili 1918, 1919, 1920, e anche 1921.

In tale periodo il compito primeggiante del partito vittorioso non fu quello della trasformazione dei rapporti sociali, ma quello delle guerre civili, che si innestarono all’altro non meno tremendo di uscire dalla guerra delle nazioni col memorabile episodio storico di Brest Litovsk. Volta per volta abbiamo indicato e trattato a fondo le ripercussioni di tali stadi all’interno del partito, e illustrati gli altri grandi passi politici: la dispersione dell’Assemblea Costituente e la definitiva rottura con l’unico ultimo alleato: il partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra.

Messi questi dati storici al proprio posto, siamo passati a studiare l’evoluzione delle forme economiche nella società russa, per effetto della distruzione del vecchio potere borghese-socialopportunista.

Con l’immutato metodo del costante collegamento ai nostri principi generali nel valutare il legame tra i fatti economici e quelli politici, ponemmo in rilievo, nell’esordire in questo secondo argomento, che un nuovo materiale storico stava ormai a disposizione: la serie dei provvedimenti e dei decreti del potere rivoluzionario in materia sociale. Nel periodo precedente, quando il partito proletario lotta all’opposizione, e quando come nel nostro caso e nel metodo tattico da noi propugnato esso rifiuta ogni blocco nell’esercizio del potere, anche programmaticamente, il solo materiale di cui disponiamo è materiale di propaganda, che va tuttavia dagli studi dottrinali ai programmi politici del partito. La fase della gestione del conquistato potere ci offre tuttora materiale del genere, ma in più quello dei provvedimenti di Stato e di governo. Notammo bene che anche in questo secondo campo, per un partito rivoluzionario, permane un compito e un dovere di agitazione e di propaganda in ogni atto del governare, che deve sapersi collegare anche ai più lontani obiettivi storici del partito, non ancora tuttavia attuali ed attuabili.

10 – Heri dicebamus

Dicevamo ieri, comincia il professore di mestiere anche quando riprende le sue lezioni dopo mesi. Ebbene, l’ultimo testo di cui ci servimmo nell’avvio della Seconda Parte fu un programma di Lenin circa i compiti sociali immediati, risalente a un mese prima della rivoluzione. E chiudemmo rilevando la potenza di un tale scritto in cui la cruda limitatezza delle misure proposte sul piano economico, tali che in ogni Stato borghese contemporaneo avrebbero potuto essere più avanzate, si accompagna alla profezia possente della vittoria dei lavoratori russi nella tremenda guerra di classe che si prepara.

Il lettore ricorda che quanto allora scrivemmo precedeva le dichiarazioni sensazionali del XX congresso, in cui, nello speculare su tutto lo speculabile, si è anche a quel classico testo fatto riferimento. E lo si è fatto con l’intento, più truffaldino di tutti quelli perseguiti da Stalin, sotto Stalin, e meglio in piena combutta con Stalin per tanti anni, di avallare con l’autorità di Lenin medesimo la «nuova» dottrina del passaggio «pacifico» al socialismo. Dove il falso è doppio: che Lenin volesse in quel momento non avanzare verso il socialismo, ma passare in Russia al socialismo – e che egli davvero avesse ammessa la scelta tra la lotta armata ed un procedimento incruento, per il debellamento dei nemici della rivoluzione: blocco tra monarchici, borghesi, e falsi socialisti della piccola borghesia.

Invero in quello scritto è il paragrafo «Lo sviluppo pacifico della rivoluzione». Esso è il finale, e chiude con le parole che noi riportammo; e che torniamo a riportare, con lo stesso inciso che allora intercalammo, prima, ripetiamolo, che il XX congresso lanciasse per il mondo le consegne del nuovo e più spregevole attentato alla grandezza incrollabile della dottrina «marxista-leninista».

«Se non si coglie questa occasione [leggete da dialettici: se non accettate questo ultimatum che canaglie vostre pari non possono accettare] la più aspra guerra civile tra la borghesia ed il proletariato è inevitabile, come dimostra tutto il corso della rivoluzione, cominciando dal movimento del 20 aprile fino all’avventura di Kornilov. La catastrofe [economica] inevitabile affretterà la guerra civile. Come lo attestano tutti i dati, e tutte le considerazioni accessibili alla mente umana, la guerra civile finirà con la completa vittoria della classe operaia, sostenuta dai contadini poveri, per quanto possa essere sanguinosa e crudele, per la realizzazione del programma suesposto».

Ribadivamo quindi la limitatezza sociale del programma «suesposto», per contrapporgli dialetticamente l’altezza gigante della previsione storica.

Né mancammo di notare, pur non avendo ancora tra i piedi un Chruščëv da sbugiardare con tutto il corteggio, come negli stessi giorni in cui questo scritto per il pubblico appariva, o meglio vari giorni prima (13 e 14 settembre v.s.) era partita la lettera al Comitato Centrale, testo interno di partito (reso pubblico solo nel 1921), dal titolo «Il marxismo e l’insurrezione».

In tale scritto Lenin rivendica la questione di principio che per il marxismo, e per il partito marxista, l’insurrezione è un’arte. Ciò al dichiarato fine di scongiurare la bestemmia che il mezzo dell’insurrezione possa da un marxista venire deprecato. Mentre aveva tale profonda preoccupazione, che gli dettò in quei giorni memorandi pagine di fuoco, poteva egli mai aver parlato di «occasione» per lo scioglimento «pacifico» della lotta altro che come mezzo di propaganda e di agitazione per finire di aprire gli occhi dei proletari e dei contadini sul compito storico delle forze borghesi ed opportuniste, ineluttabilmente dirette a spargere sangue e terrore perché la rivoluzione si fermasse, e rinculasse?

11 – Una tregua di classe?

Su due testi fondamentali è d’uopo che si faccia a quelli del XX congresso battere di bel nuovo il camuso naso.

I lettori scuseranno se l’economia sta ancora per qualche decina di minuti in anticamera. È la stessa questione. La macchina staliniana per fabbricare falsi storici è in miglior funzione oggi, che nelle stesse mani dell’inventore. E spezzando il falso politico spezziamo insieme quello economico: che Lenin avesse, lui, posto a compito immediato del potere bolscevico l’edificazione del socialismo. Infatti nel «Breve Corso» questa potente bugia di Stalin, ancora oggi in piedi, la troviamo subito:
«Nella primavera del 1918 comincia il passaggio 'dall’espropriazione degli espropriatori' alla nuova tappa dell’edificazione socialista […]. Lenin giudicava necessario approfittare al massimo della tregua [ma quale?] per cominciare a gettare le fondamenta dell’economia socialista…»[133].
Siamo lì, era più prudente il mentitore in capo che i suoi scagnozzi 1956. «Le fondamenta» sono un concetto giusto, la «costruzione del socialismo» una fesseria, che invano cercano in Lenin.

Comunque l’altra bugia, dell’aver Lenin messo una sospensiva all’insurrezione, alla dittatura, che oggi si lancia sfrontatamente, non la si trova nemmeno in quel florilegio della frode, che è il gettato alle ortiche, oggi, «Breve Corso». Figuriamoci! Fin dal clandestino VI congresso bolscevico del 26 luglio – 3 agosto fu dichiarato:
«Il periodo pacifico della rivoluzione è finito, è cominciato il periodo non pacifico, il periodo dei conflitti e delle esplosioni».
Dichiarato da Lenin, state per soggiungere, sicuri. Macché «dal compagno… Stalin»[134].

Un altro, signori del XX, errore di Stalin?

Vediamo ora quale razza di occasione Lenin indicò alle canaglie dei partiti social-traditori di agosto nello scritto «economico» su «I compiti della rivoluzione». Il paragrafo precedente a quello sullo «sviluppo pacifico» si intitola: «Lotta alla controrivoluzione dei proprietari fondiari e dei capitalisti».

Ci scusiamo di ricordare la situazione. Il potere era nelle mani del governo provvisorio di Kerenski, appoggiato, oltre che dai liberali borghesi, dai partiti socialdemocratico e socialista rivoluzionario. Questi avevano nel Soviet la maggioranza contro i bolscevichi, e avevano consegnato il potere al governo provvisorio. Il primo tentativo armato dei bolscevichi di prendere il potere era stato in luglio schiacciato, e Lenin era nascosto.

Lenin parte dalla rivolta successiva di Kornilov e Kaledin che, appoggiati dai fondiari, dai capitalisti e dal partito borghese dei cadetti, avevano tentato di abbattere il governo provvisorio, ma nel settembre erano stati battuti dal «fronte unico» cui i bolscevichi avevano dato appoggio.

Lenin stabilisce che vi saranno altri assalti controrivoluzionari, e che non vi potrà mai resistere il governo provvisorio, ma solo il potere dei Soviet. E allora prospetta a questi, in cui i bolscevichi erano minoranza, l’ultima possibilità di evitare lo scontro tra i partiti dei compromessisti con la borghesia, ed i bolscevichi, assumendo (senza partiti borghesi) il potere.

Una tale decisione è dunque indirettamente rimessa ai due partiti di maggioranza: menscevichi e socialrivoluzionari. Ma che significava, secondo la «proposta» di Lenin, prendere il potere da parte dei Soviet, tutto il potere?

Anzitutto, toglierlo al governo di Kerenski, il quale era un socialrivoluzionario! Già citammo «ficcare il premier in prigione»! Poi avrebbero dovuto (tra l’altro), questi «democratici» per la pelle, chiudere le tipografie dei giornali controrivoluzionari borghesi, confiscarle, riservare la stampa e la pubblicità allo Stato.

Per quindi dimostrare che al potere dei Soviet, in Russia, nessuna forza avrebbe potuto resistere, Lenin ne spiega il compito con queste altre parole:
«Per vincere la resistenza dei capitalisti al programma dei Soviet basterà far sorvegliare gli sfruttatori dagli operai e dai contadini, e punire i recalcitranti con la confisca totale dei loro beni e con un po’ di prigione»[135].
Un po’, s’intende, in caso di capitolazione! Insomma quello che Lenin propone ai Soviet, e solo in senso polemico agli opportunisti che ancora (ma per poco) li controllano, è di applicare in sostanza le forme della dittatura, cui erano pronti i soli bolscevichi, anzi, come i fatti mostrarono, non tutti questi, e neppure i più del Comitato Centrale!

Questa estrema diffida di Lenin non conteneva menomamente l’ipotesi storica di un governo comune ai partiti presenti nel Soviet, ed aveva dialettico sapore di derisione l’offa mostrata ai socialdemocratici di assicurare l’elezione della Costituente (era fin dalle «Tesi di Aprile» che Lenin l’aveva, contro le incredibili deflessioni di Stalin e compagni, condannata per sempre!) pagando il prezzo di sposare la tesi comunista: tutto il potere ai Soviet! Ed infatti Lenin parla più oltre dell’eventuale «passaggio pacifico del potere da un partito all’altro» e di «lotta pacifica», ma in seno ai Soviet!

Subito dopo egli leva la dichiarazione, prima riportata, della ineluttabilità della guerra civile. Ha dovuto parlare come ha parlato solo per dare l’ultima spinta ai partiti dei traditori, e sconfiggerli nei Soviet; solo per stabilire che ai marxisti rivoluzionari la guerra sociale serve non per sete di sterminio, ma per la dimostrata fatalità che i partiti borghesi e piccolo-borghesi alleati, prima di cedere il potere, sia pure alla «volontà del popolo», ricorrano sempre al bagno di sangue.

12 – Teoria della guerra civile

Per liquidare questo osceno tentativo di spezzare con documenti falsi la gloriosa linea di Lenin, serrata nelle linee indefettibili della dottrina e della manovra politica, condotta senza pause e interruzioni tra le pagine dei libri e dei giornali e le raffiche delle mitragliatrici degli insorti, va, prima di procedere oltre, richiamato il senso dell’altro contemporaneo testo sull’insurrezione; pure avendo noi già commentato a fondo questa serie di documenti, che urgono e pungolano il Comitato Centrale per lo scatenamento dell’assalto, nella precedente trattazione.

Allora non avevamo davanti questa nefandezza ulteriore, che oggi si perpetra al Cremlino, di prospettare la via dell’insurrezione come propria, al più, della rivoluzione in Russia, ma disertabile negli altri paesi.

Quando Lenin comincia giustamente a preoccuparsi che la Centrale del partito bolscevico, scottata dalla sconfitta del luglio, e anche deviata dall’euforia della vittoria strappata su Kornilov con la tattica (rapidamente transitoria) del fronte unico con tutti i partiti operai-contadini, esitasse a dare l’ordine di far ricorso alle armi per abbattere il governo, egli teme che le obiezioni si riferiscano non a ragioni contingenti della situazione russa, ma ad un’esitazione di principio a proposito del metodo dell’insurrezione, alla tema dell’accusa di «blanquismo» e di «non marxismo»[136].

Nella possente sua indignazione egli vede già levarsi davanti a sé la bestia oscena dell’opportunismo, vede levarsi gli argomenti dei Kautsky, dei social-sciovinisti del 1914 che, con indescrivibile rabbia di ogni rivoluzionario marxista, al fine di avviare milioni di proletari ad essere sgozzati al servizio delle borghesie patrie, avevano osato sostenere che i dettami di Marx vietassero al proletariato di abbattere con la forza e col sangue un potere che per avventura fosse suffragato tuttora dalle menzogne dei mandati parlamentari.

In poche pagine irruenti Lenin sventra la questione come questione di principio, come questione europea e non russa, con dati che Marx ed Engels hanno stabilito fin dal 1848 per tutti i paesi del mondo capitalista, respingendo con ciò la versione di tanti insensati, di allora e degli anni successivi, che solo nel 1917 e nel quadro russo fosse stata costruita la dottrina formidabile della presa violenta del potere, dell’insurrezione guerreggiata, della dittatura e del terrore.

Con quella lettera indimenticata e indimenticabile Lenin discute del «passaggio al socialismo» non per l’Ottobre 1917 e per la Rivoluzione di Russia, di cui sono evidenti tutte le «particolarità» a chi come noi la studi, ma ai fini della vittoria di tutti i proletari, in tutti i paesi capitalistici.

Egli uccide l’ipotesi velenosa che pur in un solo paese possa levarsi un partito marxista, che cancelli dalle sue tavole programmatiche l’arte della forza.

Ed oggi sarebbe ritorno a lui – e a Marx, che qui e in mille altri luoghi difende dalle secolari offese – stabilire, dopo aver chiesto lurida scusa della immortale gloria di Ottobre, che vi sono altre vie, e vie di pacifica strisciata ai piedi della classe sfruttatrice, per passare al socialismo; vie buone nell’altra Europa, negli altri continenti; prescrivendo a questa umanità presa dal delirium tremens e dalla follia del suicidio di specie, rispetto a cui quella del 1914 aveva volti da Campi Elisi, l’anestesia storica, la Rivoluzione indolore!

Né ci occorrerà molto citare, sul volto impunito dei rivendicatori di marxismo-leninismo, dei ringentilitori della ferocia di Stalin, degli «anestetizzatori» dei lavoratori in rivolta a Poznan, delle rivolte scoperte ed annunziate come «già liquidate» in nome delle vie pacifiche (e perché poi non lasciare campare in un gabbiotto, per mostrarcelo a tutti e stabilire da quale pianeta è calato, almeno uno degli «agenti dell’imperialismo»… emulativo?).

13 – Marxismo internazionale

«La menzogna opportunista secondo la quale la preparazione dell’insurrezione, e in generale il considerare l’insurrezione come un’arte, è ‹blanquismo› è una delle peggiori deformazioni del marxismo e forse la più diffusa nei partiti ‹socialisti› dominanti».

Periodo che non parla dunque di Russia, ma di Francia, Germania, Austria, Italia, ecc.

«Il capo dell’opportunismo, Bernstein, si è già guadagnato una trista celebrità accusando il marxismo di blanquismo, e gli opportunisti attuali che gridano al blanquismo in fondo non rinnovano e non ‹arricchiscono [ah come sta bene al suo posto questo verbo, che Stalin insegnò a coniugare ai suoi scolarini: io arricchisco, tu Chruščëv arricchisci, egli Mikojan arricchisce, noi moscoviti arricchiamo, voi italo-francesi arricchite – e questi signori presi assieme appestano tutti quanti] di una jota le già povere ‹idee› di Bernstein.
Accusare i marxisti di blanquismo perché considerano l’insurrezione come un’arte! Si può forse deformare la verità in modo più disgustoso [si può dunque, Roma, Parigi, Mosca?] quando nessun marxista può negare che Marx stesso si è pronunciato nel modo più netto, preciso, categorico sulla questione, definendo appunto l’insurrezione un’arte, dicendo che bisogna trattarla come un’arte, che bisogna conquistare un primo successo, e proseguire di successo in successo, senza interrompere l’offensiva contro il nemico, approfittando del suo smarrimento, ecc.?«
[137].

Nella scottante vigilia Lenin non aveva tempo per erudire le citazioni. Le parole che qui cita, e le altre che si riferiscono a Danton citate nella lettera ancora più accesa dell’8/21 ottobre: de l’audace, encore de l’audace, toujours de l’audace!, come quella: «la difensiva è la morte di ogni insurrezione armata», e quella che citiamo ora noi: «creare un potere esecutivo forte, attivo, senza timori [corsivo nel testo]!» stanno nella serie di lettere che Engels scrisse, in collaborazione con Marx, per la «New York Tribune», e precisamente in quella pubblicata il 18 settembre 1852. Le lettere[138], tutti lo sanno, riguardano la Germania e l’Austria. Se servivano a schiaffeggiare i traditori (nel testo Marx-Engels: In una rivoluzione, chi occupa una posizione decisiva e la abbandona, invece di costringere il nemico a prenderla d’assalto, immancabilmente merita di essere trattato come un traditore – 17 aprile 1852) dopo ben 65 anni di storia, lo servano anche oggi, per i rinculatori spregevoli del XX congresso, dopo 104 anni. Le regole della Rivoluzione sono secolari: questa gente di sterco ogni sei mesi blatera di stare aprendo un nuovo corso. Ma è sempre lo stesso corso, è la cloaca massima della controrivoluzione.

Indubbiamente Stalin, pur macchiato di sangue di compagni, sta uno scalino meno in fondo di questo abisso. Crepò mentre diceva ancora all’imperialismo di Occidente: Ci volete? prendeteci d’assalto!

Lenin nel seguito chiarisce la distinzione tra blanquismo e marxismo, e compie un ciclopico sforzo per fare entrare nella testa dei membri del Comitato Centrale il senso della manovra di fronte unico: dov’è quello che, dopo di lui, l’ha capita? Noi soli, forse, che la rifiutammo sempre in Europa, anche sulla fede di lui.

L’offerta di compromesso, egli grida, non ci lega affatto!
«Sarebbe il più grave degli errori credere che la nostra proposta di compromesso non sia stata ancora respinta, che la ‹Conferenza democratica› possa ancora accettarla. [Dopo poco, da questa conferenza-commedia, per fortuna, e per merito di Trotsky, i bolscevichi uscivano sbattendo violentemente la porta, sebbene alcuni reprimessero i brontolii: vedi nostra Prima Parte]. Il compromesso è stato proposto da partito a partito, non poteva essere proposto altrimenti […] Considerare la Conferenza democratica come un parlamento sarebbe, da parte nostra, errore gravissimo, cretinismo parlamentare della peggior specie, perché anche se la Conferenza si proclamasse parlamento, e parlamento sovrano della rivoluzione, non potrebbe egualmente decidere nulla: la decisione sta fuori della Conferenza, nei quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca. Abbiamo davanti a noi tutte le premesse obiettive per un’insurrezione coronata dal successo […] La crisi è matura. Tutto l’avvenire della rivoluzione è in gioco. Tutto l’onore del partito bolscevico è in gioco. Tutto l’avvenire della rivoluzione operaia internazionale per il socialismo è in gioco […] Attendere è un crimine verso la rivoluzione»[139].

In possesso della storia di Ottobre 1917 e della lotta terribile che allo stesso Lenin toccò condurre contro i migliori capi marxisti, in presenza di tutta la successiva rovina per quarant’anni, in tema di marxismo europeo e mondiale, noi siamo decisi a sostenere che nel marxismo-leninismo deve rimanere integrale e universale la dottrina dell’arte dell’insurrezione, che nacque con esso. Vogliamo inoltre, dopo avere fieramente rivendicato il valore della vigorosissima linea di Lenin in Russia, impoverirlo per il mondo occidentale della manovra dell’«offerta di compromesso».

Nell’odierna offerta di emulazione non vi è la certezza della ripulsa, e la ferma decisione di organizzare la lotta che ha per programma e per punto di arrivo la guerra di classe. Vi è, già consumato verso tutti i punti cardinali, il naufragio nel cretinismo parlamentare bollato da Marx, e da Lenin con lui, nel liquame che corre nel fondo della cloaca capitalista.

Morto Stalin, disonorato Stalin, si ha l’ultima prova che tutto è colato a fondo. Quanto meno, per quelli che l’attendevano ancora.

14 – La bussola al socialismo

La catastrofe economica, la disintegrazione della struttura produttiva, che Lenin denunziava nell’agosto del 1917, malgrado la vittoria della finalmente scatenata insurrezione rivoluzionaria, si presentarono con intensità ancor più grave man mano che i mesi e gli anni trascorrevano, davanti al nuovo potere costituito in Ottobre.

Mentre i quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca prendono la cosa nelle loro mani, e dietro di loro quelli di tante altre città della Russia (e con ondate non immediatamente ripercosse le stesse campagne) il Congresso Panrusso dei Soviet, come abbiamo descritto, attribuisce la maggioranza dei mandati al partito bolscevico, e sotto la presidenza di Trotsky, che dirige il Comitato Rivoluzionario, riceve ed acclama Lenin, e adotta i primi decreti in cui si compendiano gli atti della Seconda Rivoluzione.

Abbiamo detto abbastanza in quanto precede di quelli «politici». Il Governo provvisorio è deposto, i membri che sono fuggiti, arrestati. Tutto il potere centrale e locale passa ai Soviet. Il nuovo governo russo propone l’immediata pace a tutti i belligeranti, con armistizio di tre mesi. Il partito bolscevico delinea la sua politica al riguardo: se gli Stati dell’Intesa rifiutano, offrirà la pace separata agli imperi tedeschi. Abbiamo già detto quali crisi seguirono a questo orientamento storico, che Lenin sentì per il primo, nel seno del partito e nei rapporti coi socialisti rivoluzionari, che anelavano ad una «guerra santa rivoluzionaria» contro la prepotenza e l’invasione tedesca. Ancora una volta Lenin vide più lontano di tutti, e solo i più decisi marxisti in Europa seguirono chiaramente tale tremendo svolto.

E va ora detto come il Secondo Congresso Panrusso, Primo della Rivoluzione proletaria, considerò le storiche misure sociali.

Siamo in presenza di due gruppi di decisioni. Gli uni riguardano la questione dell’economia manifatturiera, urbana, commerciale – gli altri la questione della terra.

I secondi sono molto più espressivi dei primi per la descrizione dei rapporti propri della società russa, e della loro palingenesi. E perciò si potrà parlarne dopo.

Due avversari sono stati prostrati con le spalle a terra, e si tratterà solo di domare con la forza ogni loro riscossa: la classe dei proprietari feudali e borghesi della terra – e la borghesia industriale e commerciale. Quindi nell’economia dei manufatti non si ripresenta il problema di una lotta tra forze opposte. Ma nell’economia delle campagne tutto è ancora incandescente, perché sotto il governo provvisorio, e con la complicità degli opportunisti, si è tenuta in sospeso per quanto possibile la lotta per la terra, con la pretesa che dovesse in materia legiferare l’assemblea costituente. Una pleiade di forze sociali in contrasto, e tutt’altro che in equilibrio, si muove qui ora.

Diremo dunque delle misure industriali e commerciali. Sebbene qui si tratti delle città, in cui la vigorosa gente «dei quartieri operai» è lì pronta a «sventare» qualunque cattivo giochetto, pure le misure sono, in coerenza a quanto da gran pezza abbiamo tentato di prospettare, limitatissime e si può ben dire timide. Vinta ogni timidità sul diritto ad insorgere, e sulla sicurezza di vincere, e guadagnato un sicuro controllo del campo, poco si può fare nelle operazioni di «politica economica».

Poco il partito e Lenin avevano promesso, e soprattutto mai avevano promesso, nell’economia russa, limitata e spossata dalla guerra, miracoli collettivisti.

Vanno seguite le misure di intervento dello Stato dei Soviet nel campo manifatturiero e commerciale, al solo fine di chiarire l’equivoco base della staliniana «edificazione del socialismo», per dimostrare quanto la realtà, il partito bolscevico, la visione sicura di Lenin ne fossero lontani.

Ben vero dal momento che il partito comunista ha vinto politicamente ed è al potere un governo socialista, nel giusto senso, finalmente, della parola, ogni misura che si adotta è tale da essere volta nella direzione del socialismo, da costituire uno dei quei «passi» nel senso indicato dalla bussola del socialismo, che non solo i borghesi, ma i social-opportunisti soprattutto, non volevano assolutamente fossero compiuti, ritenendo, in forza dei legami che li avvincevano, che fosse dovere «democratico» rispettare gli interessi «legali» anche dei borghesi dell’industria, del commercio, della banca.

15 – Controllo e socializzazione

Abbiamo un progetto di regolamento sul controllo operaio del i 6 novembre 1917[140] (seguiamo il nuovo stile d’ora in poi) e un progetto di decreto sulla socializzazione dell’economia nazionale, del dicembre, opera di Lenin.

Il primo provvedimento di Stato ha la data del 14 novembre, il secondo del 28 dicembre: ma esso riguarda solo le banche.

Il Consiglio Superiore dell’Economia nazionale è istituito con decreto del 18 dicembre. Esso ha in teoria il diritto di «costringere i diversi rami di industria e commercio a sindacarsi» e anche di «requisire e confiscare», ma soprattutto di controllare tutta l’economia del paese[141].

Un primo decreto di confisca a favore della Repubblica viene emesso il 18 dicembre contro la Società Elettrica 1886, col motivo che «si era rifiutata di sottomettersi al decreto sul controllo operaio». Ne seguono molti altri per ragioni isolate: disorganizzazione, debito verso lo Stato, ecc.. È del 20 giugno 1918 il primo decreto di nazionalizzazione di portata generale che riguarda molti settori di base dell’industria, e molti grandi stabilimenti. Il 3 marzo 1918 viene emesso un primo decreto sulla gestione delle officine nazionalizzate. Sarebbe lungo citare per ora la serie di misure sulla disciplina del lavoro: salari; orari; assistenza; vertenze; lavoro delle donne e dei minori, ecc.

Esaminiamo il contenuto delle prime misure che Lenin e il governo studiarono.

Il controllo operaio venne stabilito pochi giorni dopo la rivoluzione, per tutte le aziende con più di 5 operai e 10 mila rubli di giro di affari. I rappresentanti degli operai devono essere immediatamente eletti. I loro poteri sono di vietare ogni sospensione del lavoro nelle industrie di importanza nazionale, di ispezionare tutti i carteggi e i magazzini. Proprietari e delegati operai sono responsabili verso lo Stato dell’ordine e della disciplina nella produzione. I Soviet e le conferenze generali di comitati di operai e di impiegati possono emanare più dettagliate norme sul controllo.

Il 13 dicembre 1917 il governo adotta più precise istruzioni sul controllo e i suoi limiti. In sostanza il controllo consiste nel diritto di sapere tutto sull’andamento dell’impresa, con la facoltà di richiamare l’attenzione del pubblico potere su ciò che si ritenga pregiudizievole alla classe operaia o all’economia generale. Ma dice l’art. 7: il diritto di dare ordini nella gestione dell’impresa, il suo andamento e funzionamento, resta di spettanza del proprietario. La commissione di controllo non partecipa alla gestione dell’azienda e non ha alcuna responsabilità nel suo andamento e funzionamento. Tale responsabilità continua ad incombere al proprietario. E l’art. 8: La commissione di controllo non si occupa delle questioni finanziarie dell’impresa. Ove tali questioni siano sollevate, esse sono trasmesse alle istituzioni direttive del governo.

Queste disposizioni, coerenti alle ben note vedute dei marxisti non deviati in aziendisti-sindacalisti, e a quelle di Lenin, trovarono note resistenze in dati strati della classe operaia e del partito, che inclinavano alla soluzione dell’autonomia delle aziende, in un primo tempo controllate soltanto dal loro personale, e in un secondo, eliminato il proprietario, addirittura condotte non solo tecnicamente ma anche finanziariamente dal personale stesso.

Non svolgiamo ancora a fondo una tale questione, ma è bene dire che essa non corrisponde affatto ad un «modello» di società socialista, e nemmeno alla prima fase economica in cui ci troviamo, nella quale si tratta di un controllo di stato sull’industria tuttora privata, termine di passaggio alla misura, più avanzata ma non certamente ancora «socialista» nel senso economico (in quello politico può ben esserlo anche il semplice controllo operaio o statale), della gestione di un’azienda industriale o altra da parte dello Stato.

16 – Il progetto di Lenin

Il decreto sulla socializzazione dell’economia nazionale è più importante nella redazione che gli dette Lenin, ma non lo si trova tradotto negli stessi termini nelle raccolte di legislazione sovietica. Le proposte di Lenin furono attuate con altre misure. La nazionalizzazione delle Banche fu sancita col breve decreto del 28 dicembre che istituiva la «Banca del Popolo», e dichiarava tutte le operazioni bancarie monopolio di stato. Del 29 dicembre è il decreto che sospende il pagamento dei dividendi sulle azioni di società anonime, e del 21 gennaio 1918 quello che annulla tutti i prestiti dello Stato, interni ed esteri. Varie misure successive salvano i diritti dei piccoli sottoscrittori.

Il decreto sul lavoro obbligatorio, per il territorio di Pietrogrado, è dell’8 ottobre 1918.

Lo schema di Lenin, pure apparendo molto più radicale, non assurge ad una statizzazione generale dell’economia, e si basa sulla motivazione della critica situazione economica, dell’imminente carestia, del sabotaggio borghese, del generale sfacelo,
«che rendono necessari provvedimenti rivoluzionari straordinari per lottare contro queste calamità»[142].

Le misure contenute sono queste. Tutte le società per azioni sono proprietà dello Stato. I membri delle amministrazioni e delle direzioni hanno obbligo di restare al loro posto con determinati stipendi, e sotto il controllo.

Segue l’annullamento dei debiti dello Stato, interni ed esteri.

Altra misura garantisce gli interessi dei piccoli possessori di obbligazioni e azioni. Viene istituito l’obbligo generale del lavoro (sancito come vedremo dalla Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, ossia dalla Costituzione del 1918). Sono limitati i prelievi periodici di persone che hanno fondi in banca; è vietato detenere denaro liquido, è prevista una sostituzione della moneta per punire i trasgressori.

Per quanto riguarda la distribuzione, questo schema di Lenin abbozza un sistema di società di consumo, cui ogni cittadino dovrebbe appartenere, per
«un giusto inventano e una giusta distribuzione sia delle derrate alimentari che degli altri prodotti necessari»[143].

Ma in effetti il meccanismo distributivo nei primi tempi rimase nelle mani del commercio privato, frazionatosi in mille speculatori, che, anche volendoli reprimere spietatamente, risultavano, in tempi di guerra nazionale e civile, inafferrabili. Sul commercio con l’estero lo Stato rivoluzionario poté subito influire: tuttavia solo del 24 aprile 1918 è il decreto che ne stabilisce il monopolio di Stato. Col decreto dell’8 febbraio lo Stato requisisce tutta la flotta mercantile, salvo i piccoli battelli fluviali e pescherecci.

Tutto questo insieme di misure, in un periodo di assoluta emergenza economica, in sostanza limitava il proposito del potere rivoluzionario a rendersi padrone di un completo censimento delle attività economiche, in modo da potere con misure di eccezione fronteggiare la crisi, la carestia e la miseria, e soprattutto assicurare il vettovagliamento dell’esercito ed il funzionamento dei fondamentali servizi generali e pubblici. Ma anche tale compito, fino a che per gli eventi militari i fronti sono instabili e l’estensione dei territori non è definita, costituisce un problema pressoché insolubile.

Non si trattò dunque di attuare con decreti di Stato il «socialismo»; e se si parlò di periodo di comunismo di guerra fu nel senso di un sistema di provvedimenti di imperio, a cui anche gli Stati capitalistici e tradizionali avevano in molti casi e tempi storici ricorso, con confische, requisizioni, sistemi di controllo, obblighi di denunzie e di consegne di merci, titoli e valute, e così via.

In nessuno di questi decreti, o nella loro presentazione politica al partito e al paese, troviamo in questa fase la dichiarata decisione di «edificare il socialismo» nella produzione dei manufatti o nella loro distribuzione. E del resto gli stessi termini della Costituzione della Repubblica, pur avente il carattere di una formidabile dichiarazione di agitazione rivoluzionaria, non hanno un simile carattere[144].

17 – Le misure rurali

Passiamo ad un campo dove il materiale è molto più espressivo nel senso storico e in quello sociale.

Al secondo Congresso Panrusso dei Soviet lo stesso Lenin presenta la relazione sulla terra, che contiene l’ossatura del relativo decreto, e si riporta ad un testo, già concordato con gli alleati socialisti rivoluzionari di sinistra, partecipi coi bolscevichi al governo, per il «Mandato contadino sulla terra» già pubblicato fin dall’agosto 1917 sulla base di 242 «mandati» dei contadini delle più varie località della Russia. Lenin lesse questo testo l’8 novembre, e il congresso lo approvò insieme alla dichiarazione costituzionale della repubblica.

La relazione di Lenin è integrata da una lettera di lui alla redazione della «Pravda» in data 2 dicembre 1917[145].

Qui noi abbiamo l’incontro di due programmi storicamente diversi ed opposti: quello dei marxisti bolscevichi e quello dei socialisti rivoluzionari. Gran parte dei contadini seguono i secondi, e sono suggestionati dalla loro formula: il godimento egualitario della terra.

Questa formula rispecchia l’ideale della piccola coltura familiare, e confonde col socialismo nel senso completo della parola un semplice egualitarismo, che vuole evitare che una famiglia abbia più terra di un’altra, un contadino più di un altro. La partizione presume che la terra sia ovunque della stessa fertilità; altrimenti gli appezzamenti dovrebbero essere non di pari estensione, ma di pari potenza produttiva. In effetti la campagna russa era quasi tutta di ridottissima fertilità, e malamente popolata e coltivata. Sotto il servaggio o il semi-servaggio colonico al signore o al padrone fondiario, praticamente già ogni famiglia si distendeva su un pezzetto di terra adeguato alla sua forza di lavoro, solo che del poco prodotto ne doveva tale parte al signore e padrone, che col resto riusciva a scarsamente, vilmente, alimentarsi.

La rivoluzione agraria concepita dai «populisti» consisteva nel liberare il contadino, restato fermo sulla piccola terra, dal tributo al nobile, al terriero borghese, all’ordine religioso, o anche allo Stato, lasciandogli tutto il prodotto del suo campo e delle sue braccia, il che avrebbe costituito un enorme vantaggio. A questo postulato si legava, come è chiaro, un’enorme pressione delle masse agrarie, che abbracciavano nello stesso inestinguibile odio la nobiltà feudale, la borghesia di campagna, lo Stato e il clero monastico.

La rivoluzione di febbraio non aveva sgombrato il campo da tutte queste classi e forme sociali; la lotta fremeva nelle campagne, e i contadini ogni tanto insorgevano, mentre il governo provvisorio si andava mostrando sempre più proclive ad adottare i mezzi di repressione poliziesca del regime autocratico.

Questo programma della partizione in pezzi uguali non poteva venire accettato dai marxisti rivoluzionari. Esso avrebbe in sostanza legato la Russia alla secolare eterna miseria, che la stessa emancipazione dei servi nel 1861 aveva aggravato, tanto che le cifre di resa produttiva e di tenore di vita del contadino erano orribilmente basse rispetto a qualunque altro paese.

I marxisti non potevano non propugnare la formazione di più ampie unità di produzione, ove avesse potuto aver gioco il vantaggio del lavoro associato, e a base di una simile formazione della grande coltura ponevano la formula dell’espulsione dalla terra di signori, proprietari e altri enti parassiti, con il passaggio alla proprietà dello Stato: alla partizione (ed anche alla municipalizzazione sostenuta da altre correnti) opponevano la socializzazione della terra, la nazionalizzazione – senza indennizzo – di tutta la proprietà fondiaria.

Mentre per gli esserre il contadino ridotto a bracciante, ossia privo di terra e di anche minima scorta di attrezzi, è un aspirante al «godimento» del suo frammento «ugualitario», per i bolscevichi marxisti egli è proletario puro affratellato nel lavoro ai compagni in una progredita unità, che non deve aspirare a spezzarla ma a strapparla al padronato fondiario e al capitalista rurale per darne la gestione al proletariato vincitore delle città e delle campagne.

18 – Lenin sapeva bene

Esisteva già allora per tutto il mondo una banda di idioti che attribuivano a Lenin il programma della spartizione ai contadini del latifondo, e il trasporto, su questo storico urto tra forze produttive e forme di proprietà, del baricentro della dinamica rivoluzionaria mondiale, subordinandogli quello tra il salariato senza riserva ed il capitalismo della grande impresa. Questa specie di disgraziati non è ancora estinta dopo quarant’anni, ed è dedita a tutt'uomo a spezzettar latifondi con la formula, che prima di ogni altro frega il contadino lavoratore, del godimento egualitario.

Lenin seguiva anche in quel momento la sua magnifica traiettoria storica a cavallo di decenni e decenni, che lo collegava alla teoria agraria di Marx ed alla futura rivoluzione comunista mondiale, senza rotture e storture.

Lenin sapeva che senza muovere i contadini russi la rivoluzione non sarebbe passata, e che mancavano le premesse tecnico-economiche per dare ad essi, a determinarne il moto, alcunché che andasse oltre il «godimento» e lo «sfasamento».

Egli sapeva che diverso era il caso per l’altra base della dittatura rivoluzionaria, il proletariato urbano. I lavoratori dei «quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca» non si sollevavano per ottenere godimenti immediati e palpabili. Erano ben più oltre della capacità cui si limita l’energia rivoluzionaria per classi di piccola borghesia povera. Il grado di capitalismo e di imperialismo che in Russia da alcuni decenni aveva fortemente allignato aveva dato loro, come ai loro fratelli di oltre frontiera, quel tanto di pane e di copechi e di istruzione elementare che aveva loro consentito di comprare la stampa del partito, il giornale di classe. Avevano la tradizione e l’esperienza di anni di lotte tremende, dagli anni lontani del 1905 e dai mesi del Luglio e del Settembre, in cui li aveva imbevuti la tradizione bolscevica di partito.

Essi sapevano bene che le «misure» (prima da noi trattate) anche più risolute, nel campo dell’economia manifatturiera urbana, non avrebbero dato loro un etto di pane in più, ma solo provveduto a far reggere l’esercito sui fronti di classe, e le loro squadre armate, a far camminare i treni e funzionare lo Stato della dittatura rivoluzionaria. Il loro partito, e Lenin che per esso parlava, poteva contare su essi e rispondere di essi: non chiedevano godimenti eguali né ineguali, ma sapevano di dover ulteriormente soffrire per la liberazione della loro classe dalla schiavitù capitalistica internazionale.

La base dualista dell’originale potere rivoluzionario che in quel giorno trionfava stava davanti agli occhi dei marxisti e di Lenin: tutto bisognava dare per la stretta alleanza delle due classi, ma non dimenticare mai che la dottrina la mostra passeggera nella storia; passeggera come le meteore che lasciano tutto immutato sul loro passaggio.

Il socialismo era ben più lontano: all’alleato contadino russo doveva presto succedere quello proletario europeo: al massimo (vedi resoconto della riunione di Torino) «venti anni di buoni rapporti coi contadini…» preveduti da Lenin, come la più sfavorevole delle ipotesi.

19 – Linguaggio aperto e sicuro

Lenin ha appena finito di leggere al congresso il «Decreto sulla Terra» ed il «Mandato Contadino». Leva gli occhi sulla fremente assemblea.

«Si sentono qui voci le quali affermano che il Decreto stesso ed il Mandato sono stati elaborati dai socialisti-rivoluzionari. Sia pure. Che importa chi li ha elaborati? Come governo democratico, non potremmo trascurare una decisione delle masse del popolo, anche se non fossimo d’accordo con essa. All’atto pratico, con l’applicazione del decreto, con la sua attuazione nelle varie località, i contadini stessi comprenderanno dov’è la verità. Ed anche se i contadini continueranno a seguire i socialisti-rivoluzionari, e anche se daranno nell’Assemblea Costituente la maggioranza a questo partito, diremo anche qui: sia. La vita è la migliore maestra e mostrerà chi ha ragione. I contadini partano pure da un estremo e noi dall’altro [udite, udite, diciamo noi, non il congresso] per risolvere la questione […]. I contadini hanno imparato qualche cosa durante gli otto mesi della nostra rivoluzione. Essi stessi vogliono risolvere tutte le questioni della terra […]. Le risolvano essi secondo il nostro programma o secondo quello dei socialisti rivoluzionari – non è questo l’essenziale. L’essenziale è che i contadini abbiano la ferma convinzione che i grandi proprietari fondiari non esistono più nelle campagne, che i contadini risolvano essi stessi tutti i loro problemi: che essi stessi organizzino la loro vita». (Fragorosi applausi)[146].

Quali erano i termini dell’incontro, partendo dai due estremi opposti? Il decreto comincia: «La grande proprietà fondiaria è immediatamente abolita senza alcun indennizzo». Qui hanno capitolato gli esserre. Un loro decreto avrebbe detto: la proprietà, anche del demanio statale, passa ai contadini che lavorano la terra – oppure anche: alle municipalità rurali che la attribuiranno egualitariamente alle famiglie contadine. Vittoria solo teorica: d’accordo.

Il secondo articolo dice che le tenute tutte e le loro scorte passano
«a disposizione dei comitati agricoli mandamentali e dei Soviet distrettuali dei delegati contadini fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente».

Di qui il richiamo nel discorso di Lenin alla fine. Ma poco dopo Lenin avrebbe vergato il decreto di scioglimento di quell’assemblea, in cui bolscevichi e socialrivoluzionari di sinistra sarebbero stati battuti nel voto. Poco ancora più oltre, con la questione di Brest Litovsk, i socialrivoluzionari avrebbero rotto l’accordo di governo e preso le armi, restando battuti.

Lenin sapeva tutto, e quindi giocò ascoltatori ed alleati? Oh quale miseria! Il partito era condotto in modo da superare tutte quelle alternanti eventualità, e fare a meno a breve scadenza dell’appoggio del partito politico degli esserre, a scadenza storica dell’alleanza contadina. Ben preparato a non consumare la scempiaggine di lasciare il potere per il voto di una Costituente, e magari di un Congresso dei Soviet, senza il saggio della fisica forza.

Il terzo articolo contiene misure radicali contro i possibili danneggiamenti di colture e attrezzi utili in una precipitosa invasione delle terre confiscate, sotto la responsabilità dei locali Soviet. Il quarto richiama il Mandato. Il quinto (successo degli esserre) esclude da confisca le terre «dei semplici contadini e dei semplici cosacchi».

Nel «Mandato» è ripetuto il rinvio alla Costituente. È contenuto il principio della nazionalizzazione di tutta la terra che diventa «patrimonio di tutto il popolo e passa in godimento [o usufrutto] di coloro che la lavorano». È il principio esserre del godimento, che sopprime decime e affitti in natura o denaro. È sancito che il grande capitale scorte passa allo Stato, il medio alle comunità, il minimo ai contadini «che hanno poca terra». Formula di compromesso: dalla spartizione della terra si passa a quella del capitale. Ma la prima è eterna, il secondo no.…

È vietato il lavoro salariato, prevista la gestione di famiglia, e anche quella cooperativa. La terra confiscata è divisa dalle comuni locali col principio del godimento uguale «in base alla norma del lavoro e del consumo», ma la tecnica di gestione è dichiarata libera: sono previste le ripartizioni periodiche. Qui vediamo tornare un’istituzione che è pre-borghese, propria del mir agricolo, e superstite fino al secolo XX tra comunità asiatiche e germaniche: la ricomposizione dei possessi – l’ideale che i populisti scambiano grossolanamente col socialismo, seguiti da cento partiti, dai cattolici ai repubblicani e ai fascisti.…

20 – Coerenza totale al marxismo

La lettera alla «Pravda» del 2 dicembre rispose evidentemente alle perplessità di non pochi bolscevichi: non abbiamo fatto concessioni di principio?

Lenin spiega di avere rassicurato i presenti al Congresso Contadino sulla possibilità di un’alleanza «onesta» tra bolscevichi ed esserre, tra operai salariati e contadini – mentre tale possibilità manca in ogni alleanza tra classi sfruttate e borghesia.

Lenin cita Kautsky «quando era ancora marxista». I provvedimenti di transizione verso il socialismo non possono essere gli stessi nei paesi di grande e di piccola agricoltura.

E Lenin ricorda quali provvedimenti del genere interessano gli operai salariati:
«controllo operaio sulle fabbriche, seguito dalla loro espropriazione; nazionalizzazione delle banche; creazione di un Consiglio superiore che regoli tutta la vita economica del paese».
Assicurate queste condizioni
«perché vinca il socialismo» gli operai «debbono consentire alle misure transitorie proposte dai piccoli contadini lavoratori e sfruttati»[147].

Un esserre di sinistra chiese a Lenin: che farete, se dipenderà da voi la maggioranza dell’Assemblea, quando la borghesia si opporrà alla spartizione del godimento della terra? Lenin ebbe la pazienza enorme di non dirgli: Aspetta un poco, e non vedrai né frazione borghese, né Assemblea; e rispose, dal poderoso dialettico che era: Ebbene, voteremo per la vostra proposta, dopo aver fatto una dichiarazione secondo la nostra dottrina agraria marxista. «Esprimeremo il nostro disaccordo teorico dal godimento egualitario della terra», la cui esistenza non nuocerà alla causa del socialismo, se il potere è nelle mani di un governo operaio e contadino.

21 – Il compromesso quanto duró?

Evidentemente nel «piano» di Lenin la tolleranza dei piccoli godimenti avrebbe trovato un rapido superamento se una vittoria dei comunisti europei avesse posto nelle mani del proletariato vincitore forti capitali pronti all’esercizione agricolo, da rovesciare anche nelle campagne russe. In mancanza di questo egli pose in venti anni il limite per disporre in Russia di un simile capitale industriale statizzato, e far prevalere la grande coltura, che nello stesso mandato contadino era stata fatta salva per le terre ad alta coltura che passavano – oltre che in proprietà – anche in godimento dello Stato.

Come la forma attuale ha risolto il compromesso del 1917? Ecco il risultato che deve uscire dall’esame della struttura russa. La gestione statale (sovcos) è oggi gravemente minoritaria. Ha forse una gestione cooperativa prevalso su quella familiare? Esse si sono «ibridate» nell’istituzione dei colcos, in cui terra e capitale, in quanto non di godimento dello Stato (e, quanto al capitale e alle case, nemmeno di proprietà di esso), si suddividono tra i grandi lotti collettivi del colcos, in cui praticamente i colcosiani lavorano da salariati, e la somma dei piccoli lotti delle unità familiari nelle quali vive e trionfa la formula del «godimento egualitario». Fu questa subita da Lenin, ma non con la visione di ben quarant’anni, e non col proposito di «consolidarla» anziché assoggettarla ad una progressiva eliminazione; non alla moda di una repubblica fascista, o clericale, o laico-popolare.

Ai congressi di Mosca raccontano molte storie dell’economia russa, ma non forniscono i dati per misurare, relativamente tra gestione statale, cooperativo, e familiare le grandezze: della terra goduta, in superficie e valore fertile, del capitale che vi è dedicato, della forza lavoro che vi si applica.

Noi possiamo tentare questa misura, e quel che più importa indagare la curva della sua presumibile variazione. Ma fin da ora una cosa per noi è certa, morto Lenin, morti i nemici di Stalin, e Stalin: nessuna delle tre è forma socialista!



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Qui riprende la Parte Seconda interrotta con lo «Intermezzo». [⤒]

  2. Poi ristampato in volume: «Dialogato coi Morti (Il XX Congresso del P.C. russo)», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano. [⤒]

  3. L’«Intermezzo» è quello or ora pubblicato; il testo contenuto negli altri tre numeri è quello con cui termina il presente volume. [⤒]

  4. «Storia del PC (b) dell’URSS», ed. Mosca 1945, pag. 187. [⤒]

  5. G. Stalin, «Opere complete», Roma 1951, III, pag. 212. [⤒]

  6. Lenin, «I compiti della rivoluzione», cit., in «Opere», XXVI, pag. 56. [⤒]

  7. Nel già citato «Il marxismo e l’insurrezione» [in Lenin, «Opere», XXVI.] [⤒]

  8. Lenin, «Il marxismo e l’insurrezione», in «Opere», XXVI, pag. 12. [⤒]

  9. Poi raccolte in «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania». [⤒]

  10. Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 15, 69 (in «La crisi è matura», 9 sett.), 126 (nella «Lettera al C.C.», 1/14 ott.). [⤒]

  11. In Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 257–258. [⤒]

  12. R. Labry, «Une législation communiste», Parigi, 1920, pagg. 62–63. I decreti qui illustrati si leggono alle pagg. 96, 119 sgg., 139 sgg., 131 sgg., 294, 271, 273, 55 sgg. [⤒]

  13. Lenin, «Progetto di decreto sulla nazionalizzazione delle banche», in «Opere», XXVI, pag. 373–376. [⤒]

  14. Lenin, «Progetto di decreto sulla nazionalizzazione delle banche», in «Opere», XXVI, pag. 374. Era, dirà poi Lenin, un compromesso: se si fosse riusciti a organizzare il controllo e l’inventario su scala generale,
    «avremmo raggruppato la popolazione in una unica cooperativa diretta dal proletariato». («I compiti immediati del potere sovietico», 28 aprile 1918, in Lenin, «Opere», XXVII, pag. 228). [⤒]

  15. Cfr. per tutto questo complesso di decreti, Lenin, «Risoluzione» per la seduta del Soviet di Pietrogrado, 25 ott./7 nov. 1917; «Rapporto sulla situazione economica degli operai di Pietrogrado», 4/17 dic.; «Discorso sulla nazionalizzazione della banche», 14/27 dic.; «Come organizzare l’emulazione?» 23–28 dic. / 7–10 genn. 1918; «Progetto di decreto sulle cooperative di consumo», id.; «Rapporto sull’attività del Consiglio dei Commissari del Popolo», 11/24 genn.; «Progetto di decreto sulla nazionalizzazione della flotta mercantile marittima e fluviale», 18/31 genn.; «Discorso ai propagandisti», 6 febbr., che si leggono nel vol. XXVI delle «Opere», rispettivamente alle pagg. 225–226, 346–348, 368–370, 386–395, 396–397, 435–451 e 490–494; e «Tesi sulla politica bancaria», marzo-aprile 1918; «I compiti immediati del potere sovietico» e relative «Tesi», pagg. 213–286 del vol. XXVII. [⤒]

  16. Rispettivamente, «Rapporto sulla questione della terra», in «Opere», XXVI, pagg. 239–243, e «L’alleanza degli operai con i contadini lavoratori e sfruttati», ivi, pagg. 318–320. È suggestivo della continuità ed invarianza in Lenin che l’adozione del «mandato» fosse già prevista – e per gli stessi motivi – in uno scritto del 29 agosto/11 settembre 1917, «Dal diario di un pubblicista – Contadini e operai»: cfr. «Opere», XXV, pagg. 263–270. [⤒]

  17. «Rapporto sulla questione della terra», 26 ottobre/8 novembre, in Lenin, «Opere», XXVI, cit., pag. 243. [⤒]

  18. «L’alleanza degli operai con i contadini lavoratori e sfruttati», in Lenin, «Opere», XXVI, pag. 319. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 15, Luglio 1956

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