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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXIV)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIV)
82 – La società di «fast»
83 – Tre questioni di Lenin
84 – «Il nodo della questione»
85 – Fase «rurale patriarcale»
86 – Piccola produzione mercantile
87 – A quale stadio si svolge la lotta?
88 – La prospettiva futura
89 – Lo svolto nella questione del grano
90 – Conclusioni di Lenin sulla NEP
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Notes
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIV)

82 – La società di «fast»

Nei paragrafi che precedono questo, abbiamo svolto il senso del passo di Lenin che per la sua straordinaria significazione vogliamo ripetere:
«L’espressione Repubblica Socialista Sovietica significa la decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto il riconoscimento che siano socialisti gli attuali ordinamenti economici».
Abbiamo questa volta collocato noi i corsivi, per bene porre in evidenza la contrapposizione tra i due concetti.

In questo testo vi è la parola abusatissima passaggio (non ripetiamo la nostra critica al vocabolo usato da chi ha tradotto: realizzazione). Ma vi è anche la risposta alla domanda sul significato della parola «passaggio». Esso non è che la Repubblica Sovietica nei suoi confini potrà darci la società socialista integrale, come poi si è «smammato». Esso è ben altro:
«che in quel dato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo».

Si tratta, come dall’espressione «in quel dato regime», di un teorema generale e non russo. Non abbiamo mancato di notare come una volta ancora, in questo classico scritto sull’«Imposta in natura» (1921), Lenin premetta che affronta il problema
«non dal punto di vista della sua «attualità», ma come una questione generale di principio».
Le virgolette alla abusata parola «attualità» sono sue, e sanno di sprezzo.

L’organismo «partito» non avrebbe ragione storica di esistere se non fosse possibile risolvere le questioni coi dati di principio. Principio è termine temporale, e significa risolvere la questione del 1956 coi dati del 1921, avendo risolta Lenin quella del 1921 coi dati del 1848–1860, e, meglio, coi dati di tutta la storia, in quegli anni ordinati a teoria di partito. E dopo ciò Lenin, sterminatore dell’opportunismo, è stato fatto passare per spregiudicato occasionista!

Nel marxismo, opportunismo non è un termine morale ma a sua volta temporale, e significa voler risolvere la questione coi dati dell’ultimo momento – il diametrale opposto della soluzione di principio. In una società fradicia e in dissoluzione dominano i pseudo partiti che campano sulle ultimissime della notte.

Il partito e lo Stato comunista o socialista si aggettivano con lo stesso criterio, ossia col criterio della decisione a lottare per il passaggio della società economica al socialismo. La «Repubblica Sovietica» ed in generale lo Stato della dittatura di classe si chiamano socialisti appunto in quanto agiscono temporaneamente (al passo storico) in una società economicamente non socialista, in una società mista di diverse «fasi» storiche. Nella società economicamente tutta socialista, e quindi comunista, non vi sono classi, non vi è lo Stato di classe, e quindi non vi è Repubblica di sorta. Meritevole di riflessione è la questione del Partito. Spentosi lo Stato, non lo potremo chiamare più partito di classe; e dal momento che lo stadio di dittatura ha abolito per sempre tutti gli altri partiti, nemmeno è esatto chiamarlo partito, perché tale vocabolo viene da parte, e una parte suppone che ve ne sia almeno un’altra.

Questo nostro abbici teoretico, cui occorre ad ogni tratto rifarsi, diventa una palinodia imbecille se lo si impianta sulla base assurda delle «vie nazionali» al socialismo. Lo Stato e il Partito di un paese, socialisti per decisione e non per strombazzata conquista di «realizzati ordinamenti», saranno forze di classe fino a che, entro altre frontiere del mondo capitalista sviluppato, vi saranno Stati e partiti nemici.

Lo Stato di classe è, per «attualità» e non per «decisione», nazionale. Il Partito di classe è internazionale o non è. Il Partito si chiama comunista, e lo Stato anche (in questo campo, socialista vale comunista) perché entrambi lo sono in funzione di principi come di finalità, ed oltre e fuori l’«attualità» dello stadio della mondiale lotta di classe.

Quando la guerra internazionale di classe sarà vinta, e gli Stati si estingueranno, non si estinguerà il Partito, che nacque con la classe proletaria e con la sua dottrina. Forse in quel lontano tempo non si chiamerà più partito ma vivrà come l’organo unico, il «cervello» di una società libera da forze di classe. In questo solo senso la nostra dottrina usa, fin da Marx e da Engels, la parola libertà; senso collettivo e sociale, non mai individuale, morale, personale, mistico, e, secondo la formula ultima di sapore clerico-scettico-ateo: dignitario. Dignità suppone indegnità, e indica una società di classe, di forza e di forca.

83 – Tre questioni di Lenin

Abbiamo prima già detto che Lenin, nel citare il suo scritto del 1918, premette di voler delucidare tre «circostanze» (qui altra piccola riserva lessicale). Abbiamo or ora chiarito il «terzo luogo», così enunciato:
«Bisogna ben comprendere il significato della differenza economica fra Stato sovietico e Stato borghese».
Crediamo di averlo messo in buoni termini. Ci rendiamo conto della difficoltà di ben leggere Lenin, dopo il gioco di due generazioni falsarie, di cui la più recente è la peggiore. Può leggerlo meglio, anche senza fare da padreterno, chi lungamente ebbe ad ascoltarlo in via diretta, e non ha ad oggi ancora tirato le cuoia.

Lo Stato borghese e quello sovietico sono entrambi organi politici.

Ma qui Lenin non chiede quale sia la loro natura, se politica od economica, ma quale sia la loro differenza. La differenza politica è abissale, perché le loro «decisioni» sono diametralmente opposte: lo Stato borghese esprime la decisione di conservare il capitalismo più a lungo possibile nella storia, lo Stato proletario quella opposta di accelerarne la distruzione. Questa differenza è totale, non frazionabile, non raggiungibile per parti, non tagliabile a fettine. Perciò siamo, e non è per noi termine di offesa, totalitari. Nella questione del potere gioca il tutto o nulla, l’aut aut più inesorabile, sempre, ovunque. Qui è il tutto Marx, rivendicato dal tutto Lenin.

Ma la differenza economica? Lenin stabilisce questo: grossa coglioneria rispondere: La differenza è che nello Stato borghese tutto è economia capitalista, nello Stato proletario tutto è economia socialista! Mai ha Lenin avuto tanta ragione di deridere i «sinistri», gli «estremisti» di cartapesta, che campano ancora, e danno una mano a frocoliare la rivoluzione.

La risposta marxista, resa un po’ cruda perché questi stomaci-cervelli malati non si curano con gli intingoli, con gli argomenti buoni per il «senso comune» o per «tutti gli onesti», è questa: La differenza è variabile, può essere grande, piccola e perfino nulla. La differenza economica; perché, specie all’inizio storico del periodo dittatoriale, per lungo tempo (Lenin citerà le «lunghe doglie del parto di una società nuova» di Marx) si è in un ambiente spartito in «fasi» evolventi, eterogenee.

Espressa la risposta matematicamente: Dallo Stato Borghese al Proletario la derivata del trapasso è infinita, politicamente; mentre economicamente è finita, e può essere in dato momento anche nulla: oseremmo dire anche negativa. Solo chi giace nello stagno dei Mollet o dei Saragat abbia la parola per dire la gran fregnaccia: Ciò contraddice al determinismo economico; se l’economia cambia goccia a goccia, sia lo stesso anche del potere. Ma che di diverso dicono dunque oggi gli incamminati, stile XX congresso, nel «ritorno al marxismo-leninismo»?

Ora il «secondo luogo». Bisogna rilevare l’errore di coloro che non vedono le
«condizioni economiche piccolo-borghesi e l’elemento piccolo-borghese, come il PRINCIPALE nemico del socialismo nel nostro paese».
Il maiuscolo è corsivo nel testo, abbiamo noi posto i corsivi didattici.

Vedremo nel seguito che la dimostrazione di Lenin tende a stabilire che il capitalismo di Stato col potere proletario è un vantaggio rispetto all’elemento piccolo-borghese, un vantaggio enorme, ma non è ancora l’elemento, la «fase» socialista.

Passiamo quindi al terzo luogo, non senza aver notato che il nostro cammino è questo (forse un poco a rilento, ma per esigenza della natura periodica della sua edizione): dopo aver utilizzato tutto il lavoro storico di Lenin quanto a sviluppo in Russia dei rapporti di produzione, esporre come nella società russa di oggi perfino la vittoria del capitalismo di Stato sulla «fase» piccolo-borghese non sia completa, soprattutto quanto a settore agricolo, settore dello scambio mercantile e monetario, e settore generale del consumo. In modo che la prova storico-politica che il potere in Russia non è proletario-socialista, ma capitalista, riposi non solo sulla dimostrazione delle differenze tra capitalismo di Stato e socialismo, ma sullo stadio inferiore che sta fra economia piccolo-borghese e capitalismo di Stato: ancor più, tra la prima e il capitalismo privato, con la sola eccezione della grande industria. E tali differenze vanno intese in linea marxista di principio così come le scolpisce Lenin nel 1921.

Più crassa è poi l’arretratezza nello schema di Lenin per le famigerate e oggi vacillanti «democrazie popolari» il cui campione codino è la Jugoslavia, a palese economia antisocialista, imitata «economicamente» tanto dalla (?) Polonia quanto dalla sospirata nel sangue nuova Ungheria.

Ben altra considerazione va fatta invece per la rivoluzionaria Cina, cui in dottrina si potrebbe concedere anche l’aggettivo comunista, perché, due gradini più sotto, sale e non scende la scala, cui siamo giunti, di Lenin, se non vantasse di «costruire» socialismo[209].

84 – «Il nodo della questione»

Il «primo luogo» era questo:
«analizzare qual è esattamente la natura del passaggio dal capitalismo al socialismo, che ci dà il diritto e il motivo di chiamarci Repubblica Socialista Sovietica».
Sappiamo che la questione è stata ridotta da metafisica a dialettica, ossia a questa:
«quali siano precisamente i diversi tipi di forme economico-sociali che sono presenti in Russia».

Lenin rizza la classica scala storica, ma prima di posarvi il piede si volge a guardarvi nel bianco degli occhi:
«E qui sta il nodo della questione».
Direte, estremisti inguaribili, senza accorgervi di arieggiare i destrissimi e i traditori: Da allora sono passati quasi quarant’anni! Ma quella che era una fesseria quarant’anni fa, lo è oggi quaranta volte di più.

Ecco la scala semplificata – non si tratta certo di analisi pedantesche! – a soli cinque scalini.
«1. L’economia patriarcale, cioè in larga misura economia naturale e contadina».
«2. La piccola produzione mercantile (comprendente la maggioranza dei contadini, che vendono il grano)». (La virgola è nostra, non del testo tradotto).
«3. Il capitalismo privato».
«4. Il capitalismo di Stato».
«5. Il socialismo»[210].

Prima di seguire la fondamentale analisi dei tipi, che al di sopra dell’applicazione alla Russia ha valore di principio e universale, sarà bene far riflettere che non vediamo tutti i tipi delle «forme di produzione» contemplate nella dottrina marxista. La cosa è notevole, e non certo fortuita.

Non vediamo qui da Lenin menzionati, ad esempio, il comunismo primitivo, né lo schiavismo, né il feudalismo-servitù. La ragione è semplice. Sono fasi non più presenti nel multiforme corpus sociale russo, fasi liquidate e ormai fuori dell’orizzonte storico. Per Marx (Prefazione 1859 alla «Critica dell’Economia politica») l’elenco comprende quattro forme: «il modo di produzione asiatico, quello antico, il feudale, ed il moderno o borghese». Si badi, tale è l’elenco delle «epoche che marcano il progresso della formazione economica della società», come è premesso, ed è quello che esaurisce «le forme antagonistiche del processo di produzione sociale» di cui la forma borghese è l’ultima e con essa «si chiude la preistoria della società umana»[211].

Per molti dei citati estremisti, si aggiunge a queste forme un’altra, preistorica e barbara anch’essa, la forma burocratica. Si tratta di anti-staliniani e perfino di anti-kruscioviani (sedicenti). Perché allora esclamano: dunque, non è permesso dopo un secolo nulla aggiungere a Marx?! La risposta è facile. Il fatto storico che oggi non si stampi pagina in cui il nome di Marx non figuri una volta almeno, è un dato fisico, meccanico di colossale portata, non riducibile al fatto che quel nostro adorato scabroso barbone abbia vinto un premio Nobel di sociologia, o inserito il suo cognome nella filza dei rivelatori di eterni vangeli. Aggiungete dunque quanto vi pare, cambiate parti essenziali della costruzione, o Pinchi Pallini, ma concedete, dopo tanto, di professare pincopallinismo e non marxismo.

La serie quaternaria di Marx esclude la forma di partenza, il comunismo primitivo e barbaro, che non aveva antagonismi (in una sua lettera alla Vera Zasulič egli scrisse: Ben vero questo primo tipo della produzione collettiva o cooperativa fu il risultato della debolezza dell’individuo isolato, e non di una socializzazione dei mezzi di produzione) come esclude la forma che esce dalla preistoria, il socialismo. I grandi tipi di «forme» possono dunque considerarsi sei. Vi sono poi misti, come le stesse grandi forme in innumeri situazioni storiche e geografiche anche durature, tipi minori, che in genere hanno per oggetto la piccola economia personale-familiare, forma numericamente vasta, ma che alligna all’ombra delle altre in cento modi, senza mai generare una propria storia, e non ha quindi l’onore dell’elenco[212].

Il «Manuale» sovietico di… marxismo dà tuttavia questo elenco:
1. Comunità primitiva; 2. Schiavitù (il modo antico di Marx); 3. Feudalismo; 4. Capitalismo; 5, Socialismo. Questa serie quinaria, che vuole comprendere gli stadi non antagonisti e quelli antagonisti, è zoppa. Manca il modo asiatico.

Dobbiamo, tornando alle cinque fasi di Lenin per la Russia 1918, mostrare come sono tre cose diverse: il comunismo primitivo, il modo di produzione asiatico, la piccola economia rurale naturale; tipo questa di secondo grado, come sono tali la piccola produzione mercantile (forma borghese di cui Lenin è fiero nemico, quanto Marx) e il capitalismo di Stato (altra forma borghese, ma evoluta, di cui Lenin è fiero amico in quello svolto). Ma la collimazione dottrinale tra la serie classica di Marx e l’analisi delle cinque fasi russe di Lenin è assoluta.

Disdegnano entrambi l’analisi pettegola, quella degli sciagurati arricchitori, sulla linea della prima prefazione al «Capitale»:
«All’analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d’astrazione»[213].

Fermatevi: la frase è grande. L’astrazione è lo strumento conteso ai Pinchi Pallini e ai Peluovisti!

85 – Fase «rurale patriarcale»

Il punto i di Lenin non è il comunismo primitivo e non è nemmeno il grande tipo asiatico. Tuttavia con piena ragione Lenin non classifica tale fase sotto il grande tipo feudale, e nemmeno, come subito farà col punto 2 (Piccola produzione mercantile), sotto il grande tipo borghese.

Nel comunismo primitivo non vi è ancora antagonismo di classe, non vi è minoranza economicamente sfruttatrice di altrui lavoro e non vi è Stato. Non vi è lavoro individuale, né familiare nel senso di famiglia individuale, perché la terra è condotta in comune dalla gens della tribù, e, nella forma che si avvicina al sorgere dello Stato militare, dall’orda nomade. Altrettanto dicasi della caccia e pesca e del primordiale allevamento. Di tale forma la Russia non aveva ormai che una tradizione, e non di comunità libere, ma soggette alla classe feudale. La prospettiva dei populisti, cui allude la frase di Marx sulla Russia (circa un legame tra il mir antico e il socialismo, condizionato dalla rivoluzione anti-capitalistica di Europa)[214] battuta dai bolscevichi teoricamente, è stata nella lotta liquidata.

Il grande tipo asiatico vede la produzione, collettiva nei limiti del piccolo villaggio rurale, soggetta a tributo verso una classe dominante di condottieri armati e signori urbani, e anche di sacerdoti, formanti un vero e proprio Stato politico. Tale forma è anche fuori di conto, per quanto in altri passi Lenin si riferisca alle sue vestigia nell’Asia centrale. Ma è facile la sua eliminazione appena vi arrivano le operazioni militari, e non abbisogna in questo le manovre economiche.

Come sono impossibili localmente e regionalmente questi due grandi tipi, così lo è il terzo che Lenin lascia fuori: il feudalismo. A parte le remota liberazione dei servi, le operazioni di guerra civile erano bastate a togliere di mezzo i loro oppressori: Stato zarista, aristocrazia terriera, chiesa.

Al posto di queste forme antichissime, estinte o uccise dalla rivoluzione, dopo la vittoria bolscevica sussiste, in primo luogo, l’economia contadina patriarcale, «in larga misura economia naturale».

Che cosa intende un marxista per economia naturale? È economia naturale quella di una società in cui i componenti tutti consumano direttamente i prodotti del proprio lavoro. Quindi il comunismo primitivo era anche una forma di economia naturale, in cui però il lavoro e il consumo erano comuni ad una associazione più vasta della piccola famiglia «patriarcale».

L’unità generativa della specie si va impicciolendo da queste forme. Tribù o gens fondata sul «matrimonio di gruppo» in cui è comunistico il rapporto di sesso e non v’è eredità né proprietà privata. Famiglia matriarcale, in cui lavorano e consumano in forma collettiva mariti e figli di una stessa Mater (alta e nobile figura, quanto scandalosa per il filisteo borghese moderno, cui il gran dialettico Fourier inflisse primo questa formulazione della serie storica: Stato selvaggio, barbarie, patriarcato, civiltà; così qualificando quest’ultima, ossia il tipo borghese: L’ordinamento civile eleva ogni vizio, che la barbarie presenta in un modo semplice, ad una forma di esistenza complessa, ambigua, ipocrita – nella civiltà la povertà scaturisce dalla stessa sovrabbondanza – come cita Engels nell’«Anti-Dühring»). Sotto il matriarcato, l’eredità e la guerra non compaiono ancora. Famiglia patriarcale con un capo poligamo cui le molte donne e i molti figli preparano la figura di capo e di padrone. Famiglia patriarcale monogama del diritto romano, in cui il Pater familias gravita sugli istituti di eredità e proprietà privata di schiavi e di terra. Con essa arriviamo allo spezzettamento in possessi familiari della terra fin allora comune[215].

La forma del punto 1 di Lenin è data dalla famiglia contadina cui il rovinare del feudalismo ha consentito di restare arbitra dell’uso del piccolo pezzo di terra, ma che, per lo stato primordiale della coltivazione del suolo e per il nullo o limitato sviluppo dei bisogni e del commercio, vive consumando il proprio raccolto di derrate, e senza nulla scambiare con prodotti altrui.

Statisticamente Lenin considera questa prima forma minoritaria e trascurabile. Essa non può vendere perché nulla le resta dopo un consumo di tipo bassissimo. Non versa più «decime» a nessuno, ma ignora il commercio che prima raggiungeva pigramente coi suoi manufatti solo i signori feudali o gli ecclesiastici.

86 – Piccola produzione mercantile

Come distinguiamo questa seconda fase dalla prima? Essa è definitivamente uscita dal campo dell’economia naturale, che in fondo restava il sostrato della macchina economica feudale. La famiglia contadina lavorava il suo lotto, e mangiava una parte dei prodotti, dopo averne recata una frazione al nobile, altra alla chiesa o al convento, e per i «servi dello Stato» al funzionario esattore governativo. Nelle zone più ricche, o meno miserabili a meglio dire, aveva già cominciato a togliere dal proprio consumo altra piccola parte da vendere, per acquistare dai mercanti che giravano il paese piccole scorte di oggetti manifatturati che trascendevano la produzione auto-artigiana, l’industria domestica. Prima il commercio russo, per i «governatorati» che producevano più grano di quel che consumassero, era condotto dai nobili, divenuti ormai grandi proprietari terrieri borghesi, e dallo Stato stesso. Ora questi contadini, piccoli agricoltori, si trovavano tra le mani per effetto della doppia rivoluzione politica un’eccedenza del prodotto sul consumo, e si erano direttamente collegati al commercio. Questa forma, così definita, cessa di avere caratteri naturali e patriarcali, ed entra, come Lenin subito illustra, nel tipo borghese.

Su questa seconda forma pesa la massima attenzione di Lenin, prima che egli si diffonda sulle ulteriori. Chiaro è il senso della forma di capitalismo privato, terza fase in Lenin, che è compiutamente borghese. Ulteriormente sarà condotta a fondo la discussione, che non ci è nuova, sulla differenza tra capitalismo privato e capitalismo di Stato, e tra questo e il socialismo, da dedursi dalla precedente.

Poiché tuttavia per Lenin il passaggio tra queste fasi alte non è ancora da attendersi sul piano generale, egli poggia tutta la sua forza sulla salita dal punto secondo in sú, ossia sulla lotta per superare la piccola produzione mercantile, per sostituirvi non il socialismo, e solo in certa misura il capitalismo di Stato, ma anche per tollerare che ne sgorghino forme di capitalismo privato, a seguito della NEP, dell’introduzione dell’imposta in natura. Ma ora è la giusta definizione marxista delle forme e dei tipi quella che ci interessa.

«La Russia è così grande e varia, che tutti questi differenti tipi di forme economico-sociali si intrecciano strettamente».
Dunque, tutti e cinque i tipi.
«Ma ci si domanda: quali sono gli elementi che predominano? È chiaro che in un paese di piccoli contadini predomina, e non può non predominare, l’elemento piccolo-borghese; la maggioranza, anzi l’enorme maggioranza degli agricoltori sono piccoli produttori di merci. L’involucro del capitalismo di Stato [si rifletta per intanto alle forme di tale involucro presenti al 1918–21] - il monopolio del grano, imprenditori e commercianti controllati, cooperatori borghesi – viene spezzato qua e là dagli speculatori, e l’oggetto principale della speculazione è il grano»[216].

Dobbiamo confessare che, pure avendo sempre lottato contro il bolso concetto che la rivoluzione bolscevica fosse una «prova» per decidere se il socialismo andava bene, o meno, nel 1920 i comunisti italiani hanno spesso riferito ad aspettanti folle operaie che in Russia il grano non si vendeva, ossia non si comprava e non si pagava. Gli operai ne ricevevano la razione (ricordate il paiok di Trotsky) dalla fabbrica – i contadini, ben s’intende, lo mangiavano sul loro proprio prodotto. Cittadini non operai, bambini, malati, ospiti, impiegati e così via lo ricevevano dallo Stato, dai Soviet, dal partito comunista secondo i casi. Questo fatto, come l’altro analogo del servizio gratuito dei tram urbani, dava la gloriosa sensazione del fenomeno rivoluzionario. Ma il marxista va in cerca di ben altro che di emozioni, di brividi, o di «gialli».

Comprendevamo fin da allora che questa era una forma rivoluzionaria della lotta e della guerra civile, non un solido stadio di un nuovo tipo di amministrazione (sebbene questo termine sia borghese, vale meglio che edificazione o costruzione economica). La gestione socialista non si andava a Mosca per vederla al cinematografo, ma si doveva avvicinarla con vittoriose lotte in tutta Europa, al che era alimento la preparazione teorica ed organizzativa che, facendo leva sulla vittoria dei compagni bolscevichi, si mirava a forgiare nell’Internazionale e nei partiti aderenti.

Questa era una delle forme del «comunismo di guerra» che Lenin nel 1918 già definiva con la più esatta formula di «capitalismo di Stato»: era il monopolio di Stato del grano. La formula pratica era: è vietato vendere pane, farina, grano. Ma il fatto che pullulassero gli «speculanti» provava che la nuova forma di distribuzione non aveva superato il rendimento delle antiche, era solo una stretta necessità soprattutto militare, per rifornire i combattenti della guerra civile, e il sistema di fucilare gli speculatori non risolveva il punto.

87 – A quale stadio si svolge la lotta?

Fin dal 1917 (testo a noi noto: «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa») Lenin aveva sostenuto che il capitalismo di Stato sarebbe stato, nella situazione economica russa, un gran passo avanti, e lo ripete ampiamente nel 1918 e nel 1921, in quanto la difficoltà economica è stata ancora aggravata dalle guerre civili 1918–1921 e dalle carestie del 1920. Tutto ciò sempre in lotta con quelli che ponevano come programma concreto l’immediata attuazione «del socialismo» e dichiaravano disfattista ogni diversa misura economica. Stabilite le note cinque categorie, Lenin non afferma solo che sarebbe un sogno – sempre in mancanza della rivoluzione occidentale – pensare alla lotta per il socialismo contro il capitalismo di Stato, ma stabilisce senza la più piccola esitazione che la lotta va fatta contro il nemico principale: la produzione piccolo-borghese mercantile, il sabotaggio speculatore.

Quindi la lotta è per superare il punto 2, andando verso il punto 4, il capitalismo di Stato, condotto dallo Stato politico degli operai, Ma intende senza ambagi dire che anche la lotta per salire dal punto 2 al punto 3, che è né più né meno che il capitalismo privato, ossia battere la piccola borghesia passando, economicamente parlando, a forme grandi-borghesi, non sarebbe tutta la vittoria, ma sarebbe un passo in avanti contro il pericolo anti-rivoluzionario.

La controrivoluzione non è, secondo Lenin, un movimento di ritorno al feudalismo. Politicamente e militarmente è stata fino allora sostenuta dall’estero, ossia da Stati di democrazia capitalista. Internamente essa fa leva sugli strati piccolo-borghesi contadini. La categoria feudalismo, come abbiamo notato, non figura tra gli «scalini» di Lenin. Il pericolo è dipinto come vittoria dei piccoli e medi contadini, che politicamente vuol dire vittoria di menscevichi, socialisti rivoluzionari, ed anarchici, ed economicamente risorgere di una trama di piccola produzione, terreno naturale di una accumulazione capitalistica, che trionferebbe se lo Stato proletario, a seguito di errori di politica economica, fosse indebolito nella sua forza materiale e classista.

Leggiamo; ancora è necessario:
«La lotta principale si svolge appunto in questo settore. Fra chi si svolge questa lotta, se parliamo in termini di categorie economiche, come il «capitalismo di Stato»? Fra la quarta e la quinta, secondo l’ordine che abbiamo or ora indicato [fra capitalismo di Stato e socialismo]? Certamente no. Non è il capitalismo di Stato che lotta qui contro il socialismo, ma è la piccola borghesia più il capitalismo privato che lottano insieme, come una cosa sola, sia contro il capitalismo di Stato, sia contro il socialismo [fin qui, vediamo 2 e 3 che lottano contro 4 e 5]. La piccola borghesia si oppone a qualsiasi intervento, inventario e controllo statale, sia dello Stato capitalistico sia dello Stato socialista. Questo è un dato di fatto reale, assolutamente indiscutibile, nell’incomprensione del quale sta la radice di una lunga sequela di errori economici».
Questo passo richiama la norma di Marx nella rivoluzione tedesca 1848–50, e la frase del «Manifesto» che dice che il proletariato appoggia all’inizio la borghesia non solo quando questa lotta contro il feudalismo, ma anche contro la piccola borghesia. In tutto il corso socialista non si è mai incontrata l’aberrazione di oggi, di un secolo dopo, in cui si vuole trascinare il proletariato ad una illusoria alleanza con la piccola borghesia contro la borghesia. Se Lenin dice che è il punto 2, piccolo-borghese, che lotta contro anche il controllo statale capitalista, nonché socialista, egli vuol dire che il punto 3, capitalismo privato, è preferibile al 2 perché, se è ben certo che lotterà alla morte contro il punto 5, socialismo, per intanto esso non lotta tanto ferocemente quanto il punto 2, piccolo-borghese, contro il capitalismo di Stato.

«Lo speculatore, il trafficante, il sabotatore del monopolio: ecco il nostro principale nemico interno, il nemico delle iniziative economiche del potere sovietico».
Va letto che perfino il grande intraprenditore capitalista privato potrebbe accettare la direzione dello Stato rivoluzionario, e sarebbe meno pericoloso del piccolo produttore – piccolo mercante di frodo.

Lenin dunque propugna misure atte a debellare l’irraggiungibile sabotaggio della speculazione piccolo-borghese, a condizione di dover ammettere, sotto stretto controllo, forme di intrapresa privata a tipo grande-capitalista, che allora proporrà nella forma delle concessioni a capitalisti esteri.

Nel corso di questo testo Lenin mostra che sarà un pericolo ancora maggiore delle concessioni al grande capitalismo quello della coltivazione (il termine è nostro) dello sparpagliamento dei piccoli produttori. E andiamo provando che una tale perniciosa coltivazione è stata fatta coi «colcos» e le tante altre forme staliniane e post-staliniane che si incontrano subito oltre il limite dell’industria ultrapesante. Ecco le parole:
«Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene rispetto al periodo medioevale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo legato allo sparpagliamento dei piccoli produttori»[217].

Torneremo sulla magnifica pittura del burocratismo che diede qui Lenin. Non solo esso non è l’avvento di una nuova classe, ma è l’effetto di un tipo sociale impotente – vedi sopra i richiami di principio – ad assurgere alla generazione di una forma di classe storicamente autonoma e capace di rivoluzione propria; è l’effetto della piccola produzione mercantile, di ogni piccola economia, come quella del campicello proprio familiare del colcosiano, del piccolo commercio e delle tante forme di piccolo accantonamento e «risparmio» in Russia legalizzate oggi. Qui proviamo la tesi che Lenin vede nel 1921 lo sforzo per salire dal punto 2 al punto 3 (capitalismo privato) anche prima che al punto 4 (capitalismo di Stato), con altro passo: «Ciò può sembrare un paradosso: il capitalismo privato nella funzione di collaboratore del socialismo? Eppure non è affatto un paradosso, ma un fatto assolutamente indiscutibile dal punto di vista economico.»[218]

88 – La prospettiva futura

Questa geniale descrizione delle fasi presenti nella società russa post-rivoluzionaria conduce al quadro dello sviluppo futuro.
«Si può concepire di realizzare il passaggio immediato da queste condizioni predominanti in Russia, al socialismo? Sì, si può concepire fino ad un certo punto, ma soltanto ad una condizione che ora conosciamo esattamente, grazie all’enorme lavoro scientifico da noi compiuto. Questa condizione è la elettrificazione. Se costruiremo decine di centrali elettriche nei distretti […] se ci procureremo una quantità sufficiente di motori elettrici, ed altre macchine […] allora non vi sarà bisogno, o quasi, di fasi intermedie, di anelli transitori fra il sistema patriarcale e il socialismo. Ma noi sappiamo benissimo che questa condizione ‹da sola› [a lungo Lenin parla di tutte le altre, istruzione tecnica e generale, ecc.] ha bisogno per lo meno di dieci anni soltanto per i lavori più urgenti, e che, a sua volta, si può pensare alla riduzione di questo termine soltanto nel caso in cui la rivoluzione proletaria riporti la vittoria in paesi quali l’Inghilterra, la Germania, l’America. Nell’immediato futuro dobbiamo invece imparare a pensare agli anelli intermedi capaci di facilitare il passaggio dal sistema patriarcale, dalla piccola produzione, al socialismo»[219].

Dopo il passo che abbiamo già dato segue la dura conclusione.
«Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è inevitabile, in un certo modo, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo, incanalandolo specialmente nell’alveo del capitalismo di Stato [dunque, non esclude Lenin, una parziale utilizzazione di capitalismo privato!] come un anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive».

Ricorre ad ogni passo nella visione di Lenin il concetto della lunghezza del cammino economico, della possibilità di afferrare solo successivi anelli, della necessità di travalicare periodi transitori, misurati a decenni e decenni, di forme pre-socialiste. Da questa visione è esclusa la catastrofe della degenerazione ed involuzione totale del potere proletario e bolscevico; ed è apertamente ammessa la piena possibilità di tenerlo in pugno anche nei lunghi termini in cui si tratterà di lavorare alle fondamenta, alle basi soltanto del socialismo futuro: la concezione che sappiamo difesa, quasi in articulo mortis, nel 1926 dai Trotsky, dai Zinoviev, dai Kamenev.

La garanzia per la lunghissima opera economica, e la non meno dura difesa politica, sta sempre, per Lenin, nel fattore internazionale. Verso la fine dello scritto, che esortiamo i nostri lettori a studiare tutto sulla base di questi elementari commenti esplicativi, egli così si esprime:
«La nostra forza consiste nella completa chiarezza e nella sobrietà con la quale valutiamo tutte le forze delle classi esistenti, sia russe che internazionali […] Noi abbiamo molti nemici; ma essi sono disuniti, e non sanno quello che vogliono (come tutti i piccoli borghesi, tutti i Martov ed i Černov, tutti i senza partito, tutti gli anarchici). Noi, al contrario, siamo uniti direttamente fra di noi e indirettamente coi proletari di tutti i paesi; noi sappiamo quello che vogliamo. Perciò siamo invincibili su scala mondiale, sebbene con questo non venga ad escludersi la possibilità della sconfitta di singole rivoluzioni proletarie in questo o in quel periodo di tempo»[220].

Dobbiamo chiudere le cento citazioni che battono questo duro tasto della gradualità e dei lunghi passaggi e transizioni. Prendiamo la chiusa di una risoluzione del partito sul compito dei sindacati, del 12 gennaio 1922. Si tratta di stabilire quanto poi negarono Stalin e i post-stalinisti, cioè la continuazione della lotta di classe operaia dopo la conquista del potere politico. Finché vi è salariato, il sindacato deve difendere gli operai contro il capitale. Ciò è una contraddizione con l’esistenza del potere politico proletario? Ma la situazione è piena di tali contraddizioni.

«Queste contraddizioni non sono fortuite e non potranno essere eliminate che nel corso di varie decine di anni. [Dobbiamo qui sottolineare le parole che valgono di smentita al bagaglio colossale delle falsificazioni successive]. Infatti, finché sussistono le vestigia del capitalismo e della piccola produzione [aliunde: il dominio del mercato], le contraddizioni in tutto il regime sociale fra queste vestigia e i germogli del socialismo sono inevitabili. […] Le contraddizioni suddette provocheranno inevitabilmente conflitti, disaccordi, attriti, ecc. È necessaria un’istanza superiore abbastanza autorevole per poterli risolvere immediatamente. Una tale istanza è il Partito Comunista, e l’associazione internazionale dei partiti comunisti di tutti i paesi: l’Internazionale Comunista»[221].

Quale migliore prova che inchiodi alla gogna i proclamatori del socialismo costruibile e costruito in Russia al di fuori della rivoluzione di Occidente, i liquidatori della gloriosa Internazionale, i fornicatori schifosi con le vie nazionali odierni?

89 – Lo svolto nella questione del grano

Che cosa precisamente comportò l’attuazione del decreto sulla «Imposta in natura» per i cereali, che tecnicamente fu un deciso successo nell’approvvigionamento di Stato? Ora si può dirlo, che sono chiariti i criteri di principio, se pure una tale via doveva portare avanti molte altre grandi questioni, che andavano – e per iddio vanno ancora oggi di più – a fondo illuminate.

Proprio perché gli operai sono la parte egemonica nell’alleanza militare coi contadini, devono capire che la situazione è così tesa, da dover subito con misure pratiche di «politica annonaria» elevare il tenore di vita dei contadini, che potrebbero passare alla controrivoluzione se spinti all’estrema fame. Per migliorare le condizioni degli operai e dei soldati bisogna ottenere dalla campagna pane e combustibile. Questo è impossibile senza misure che alleggeriscano la pressione sui contadini.

Nel periodo del «comunismo di guerra» il pane per le città e l’esercito veniva assicurato con «il prelevamento delle derrate eccedenti (ed alle volte anche non eccedenti)», Lenin dice. Aggiunge: per lo più le prendevamo a credito, pagando in moneta cartacea. Dato che il valore di questa moneta tendeva a zero, il grano veniva dato non alla vista della moneta cartacea, ma a quella delle bocche dei fucili operai. Comunque, dice Lenin, così vincemmo, ed il contadino sfuggì alla schiavitù sotto Kolčak o Wrangel, e allo sterminio.

Questo sistema fu di colpo abbandonato, poiché la produzione dei cereali calava spaventosamente per la disorganizzazione nelle campagne e le offerte del contrabbando, sempre più audace. Lo Stato decise allora che il contadino avrebbe potuto tenersi una parte delle «eccedenze», ossia del grano che non mangiava lui con la sua famiglia, e venderle senza rischio «legalmente», contro il denaro che poteva servirgli a comprare oggetti e manufatti di sua occorrenza, ma dopo aver versato allo Stato una certa quantità di cereali, determinata distretto per distretto ed anno per anno con criteri ordinati ed uniformi.

Questa era un’imposta in natura, perché il contadino non pagava denaro per tasse allo Stato, ma una certa misura di derrate, che dava a fondo perduto e senza ricevere moneta cartacea più o meno buona. Aveva però il vantaggio di fare del resto quello che voleva. Questa spinta a produrre di più fece subito effetto, e di fatto salvò l’economia rivoluzionaria, sebbene fosse una spinta del tutto piccolo-borghese, e creasse l’ambiente del commercio delle derrate, che indiscutibilmente è quell’ossigeno che la forma capitalista respira.

Dopo sistemate le questioni di dottrina, è superfluo insistere sulla confutazione della censura che si era tornati indietro da una conquista comunistica. Si era quindi presa la sola via logica che si sarebbe dovuto lungamente percorrere per arrivare al socialismo, in decenni e decenni. Non si era lasciata una via più diretta, ma solo assodato marxisticamente che essa non esisteva.

Il socialismo ha due condizioni: il grado di sviluppo delle forze produttive, e il grado di sviluppo della rivoluzione nei paesi borghesi avanzati.

Le forze produttive non si alzano da un livello patriarcale o medioevale senza un meccanismo economico che porti all’industria i prodotti agricoli, e viceversa. Questo trasporto (permettiamoci di sostituire questa parola all’altra di scambio) nella situazione della Russia 1921, ed anche in una dieci volte migliore, non si può fare che nelle forme del commercio capitalista, ed anche in forme deteriori, in quanto non avviene tra grandi unità produttive ma in parte con le infelici aziende piccolo-contadine. Una forma superiore di questo «doppio trasporto» non si avrà che dopo eliminata anche nelle campagne la piccola produzione. Ove è piccola produzione ivi è scambio mercantile, ivi è capitalismo, ivi non è socialismo. Ma siccome si muore senza quel doppio trasporto, ecco che, cessando di vietarlo, si deve lasciarlo giocare nelle forme borghesi. Volgarmente: o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra.

90 – Conclusioni di Lenin sulla NEP

Un preteso passo indietro, se questa fosse giusta definizione, nella economia russa, sarebbe largamente compensato, e lo fu, o lo sarebbe stato se l’opportunismo non avesse guadagnato, sotto Stalin e figli spergiuri, una spietata riscossa, dalla conquistata chiarezza teorica. Che per il proletariato mondiale non è perduta per sempre, purché piccoli fili la tengano collegata nel tempo.

«L’imposta in natura è il passaggio dal comunismo di guerra al regolare scambio socialista dei prodotti».
Ma ora leggeremo che lo scambio è capitalismo. Rettifichiamo allora la dizione: al trasporto dei prodotti tra città e campagna, regolato dal potere socialista.

«Lo scambio è la libertà di commercio, è il capitalismo. Questo ci è utile nella misura in cui ci aiuta a combattere lo sparpagliamento dei piccoli produttori e, fino ad un certo grado, il burocratismo […] Non vi è nulla di terribile per il potere proletario, finché il proletariato tiene saldamente nelle sue mani il potere, la grande industria e i trasporti».
Inappuntabile.

«La lotta contro la speculazione deve essere trasformata in lotta contro l’appropriazione indebita [sceglieremmo un termine meno da codice penale borghese; sperpero e sottrazione di forze produttive] e contro l’elusione dal controllo, dall’ispezione, dal computo statale [censimento]. Questo controllo ci permette di incanalare il capitalismo, inevitabile in una certa misura e a noi necessario, nell’alveo del capitalismo di Stato.»[222]

Lenin non lo aggiunge in una tesi apposita, ma emerge da tutto il testo: Non è tradimento seguire adagio e perfino al rovescio la serie degli anelli della catena, degli scalini della scala economica. Infamia e tradimento è mentire alla assoluta chiarezza marxista nell’identificare le categorie.

Trentacinque anni dopo il suo avvertimento, se si dovesse misurare col puro metro economico, alcuni scalini sono stati saliti, sono aumentate quantitativamente le forze produttive ed i mezzi di trasporto ma tuttavia non è avvenuto lo sganciamento deciso dalla insidiosa categoria del punto 2: la piccola produzione, e in genere la piccola economia.

La prova del tradimento (che col metro politico significa passaggio al nemico, il capitalismo internazionale) si evince insuperabile dalla menzogna gigante di avere qualificata come totale socialismo la presente economia russa. Un potere comunista rivoluzionario non avrebbe già salito la scala più presto: avrebbe evitato di bestemmiare il numero del gradino raggiunto. Sembra un minimo indizio: è una prova formale, e capitale.

Non bisogna, ma verrà la confessione, regina delle prove.



Notes:
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  1. Oggi, 1975, la nuova costituzione stabilisce per… decreto che in Cina vige non più una democrazia popolare, ma la dittatura del proletariato, e questa è già il comunismo inferiore o socialismo!!! [⤒]

  2. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 310–311. [⤒]

  3. Marx, «Per la critica dell’economia politica», Ed. Riuniti, 1957, pagg. 11–12. [⤒]

  4. Più sopra si allude agli «Abbozzi di risposta» alla lettera di V. Zasulič a Marx del 25 gennaio 1881, che si possono ora leggere al completo in versione italiana in K. Marx, «Il Capitale», Libro I, ed. Utet, Torino 1974, Appendice. Il passo citato, a pag. 1043. [⤒]

  5. Marx, «Il Capitale», Libro I, Prefazione alla prima edizione, Ed. Riuniti, 1967, pag. 32. [⤒]

  6. Cfr. la «Prefazione» alla seconda edizione russa (1882) del «Manifesto» nel citato «India, Cina, Russia», pagg. 245–246. [⤒]

  7. Le citazioni da Fourier si leggono in F. Engels, «Anti-Dühring», Editori Riuniti, Roma, 1968, pagg. 278 e 295. [⤒]

  8. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 311. [⤒]

  9. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 330. [⤒]

  10. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 334. [⤒]

  11. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 330. [⤒]

  12. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 340. [⤒]

  13. «Funzioni e compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova Politica Economica», risoluzione approvata il 12 gennaio dal CC e successivamente dall’XI congresso del PCR (b) nel marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 174. [⤒]

  14. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 343. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 23, Novembre 1956

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