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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (III)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (III)
12 – La inventata teoria
13 – Paesi e rivoluzioni
14 – Alla radice. Manifesto!
15 – Armoniche strutture
16 – Dal 1848 alla Comune
17 – Revisionismo socialdemocratico
18 – Nuovo solo l’opportunismo
19 – La trasformazione socialista
20 – Potere ed economia
21 – Produzione e politica
22 – Infamia e filistei
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (III)

12 – La inventata teoria

Ci siamo diffusi sulla artificiale antitesi tra due teorie, la «vecchia» e la «nuova», sulle «questioni della guerra, della pace e della rivoluzione» accampata nella Storia (ufficiale) del partito bolscevico edita in Russia.

Autore della nuova teoria sulla «rivoluzione in un solo paese» sarebbe Lenin, mentre la vecchia, propria dei vecchi marxisti, sarebbe quella della «simultanea rivoluzione proletaria in tutti i paesi civili».

Abbiamo detto che tale teoria non è vera né falsa: soltanto, essa è inventata di sana pianta perché nessuno l’ha mai sostenuta. La vecchia teoria coincide con la nuova. Marx ha stabilito questi punti come Lenin li ha rivendicati. I marxisti (escludendo quelli che si dicono tali ma alla rivoluzione non credono) sono stati sempre per l’attacco rivoluzionario anche in un solo paese, quanto a strategia politica, a lotta per la presa del potere.

Quanto alla trasformazione della struttura sociale in socialismo, che con espressione teoricamente non meno falsa delle altre si chiama costruzione del socialismo, e si dovrebbe chiamare distruzione del capitalismo, essa è sempre stata considerata proponibile e possibile anche in un solo paese. Ma sotto due condizioni, di cristallina evidenza da Marx a Lenin. Primo: che il capitalismo in quel paese esista pienamente; secondo: che il proletariato vincitore di quel paese sappia applicare la consegna: non sono venuto a portare la pace, ma la guerra!

Non esiste altra teoria della guerra, della pace e della rivoluzione. Esistono, e ne nasce una ad ogni generazione, nuove teorie, e sono, come quella della Storia moscovita, le teorie della controrivoluzione.

Per dare questa dimostrazione riportiamo ancora il passo che inventa la teoria antica, e inventa l’invenzione di Lenin, sistematicamente degradato da integrale combattente marxista a fantoccio da altare e da monumento.

«Questa teoria [di Lenin, che, come riportammo, ne avrebbe gettato le basi nel 1905 nella sua opera «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica», a dire del testo che infila altra perla nella collana di gaffes teoriche e storiche: come fondare una nuova teoria per un problema «arretrato» da riferire per la Germania al tempo di Marx giovane, per la Francia a quello di Babeuf? Secondo questi falsari Lenin avrebbe dissertato sul come costruire il socialismo con la rivoluzione democratica, e sarebbe il più straccione degli ultradestri] questa teoria differiva radicalmente dalla concezione diffusa tra i marxisti del periodo pre-imperialista allorché i marxisti ritenevano che il socialismo non avrebbe potuto vincere in un solo paese, ma avrebbe trionfato contemporaneamente in tutti i paesi civili».

Non ripetiamo la critica della definizione civili. Se al posto dell’aggettivo civili vi fosse quello capitalisti (riferito alla struttura economica) o democratici (riferito a quella politica) la formula sarebbe meno priva di senso intrinseco, pur restando parimenti falsa. Quei «marxisti» non sono mai esistiti. Marx era indubbiamente un marxista del periodo pre-imperialista. E con questo? O Marx è fesso e il marxismo fesseria, oppure nel marxismo, teoria nata nel 1840, le leggi della tappa (non periodo) imperialista del capitalismo sono già date. Lenin infatti non le produsse come secreto della sua testa, ma come applicazione delle dottrine del Capitale. Basta leggerlo. Ridimostrò traverso gli eventi della tappa imperialista la nostra teoria del capitale, ridimostrò che paci di Stati e di classi ne vanno escluse e che, come nei primi albori, dominano al chiudersi del ciclo le fiamme della catastrofe sociale e della generale esplosione di violenza.

Fuori i nomi! Marxisti di quel tipo non ne sono esistiti. Andremo oltre: socialisti generici, nemmeno.

13 – Paesi e rivoluzioni

Fin dalla sua forma idealistico-utopistica il socialismo non è pensato come internazionale: nemmeno nazionale! Esso è pensato come socialismo in una sola città, nella Repubblica di Platone, nella Città del Sole di Campanella, nella Utopia (ossia città che non ha luogo) di Moro, nella Icaria di Cabet, nel paese del sovrano assoluto, illuminato tra tutti, dei grandi utopisti francesi, nella fabbrica cooperativa di Owen, nel falansterio di Fourier, e se vogliamo nel monastero medioevale di Benedetto. Questa roba avrebbe Lenin, o babbioni, riportato fuori come «teoria nuova»?

Questo primo ingenuo e nobile socialismo è pensato dai suoi (loro sì) costruttori come atto prima di opinione, poi di volontà, trasmesso al popolo dal sapiente guidatore, o anche dal grande re. E chiaro che nessuno lo subordinerà a coincidenza di queste ondate di illuminazione delle menti in vari paesi al tempo stesso; fin da quando è utopista il socialismo è previsto tra precise frontiere, e nei più suggestivi di questi «progetti» sociali è considerato permanente (questa concezione non è dinamica, ma statica in sé, e salvo i voli di non pochi intelletti geniali, come il poderoso Saint-Simon) il ceto militare, l’esercito stanziale e la difesa del paese eletto contro invidiosi nemici.

Passiamo dall’utopismo al marxismo non per una più fine «ripensatura» del tema, ma per l’effetto del comparire della produzione capitalista. Il marxismo costruisce la sua dottrina e il suo programma soprattutto lavorando sull’Inghilterra. Questo solo, solissimo paese gli dà la trama per provare che l’economia socialista, ad un certo stadio dello sviluppo mercantile-industriale, è non solo possibile e costruttibile, ma è determinatamente necessaria, ad una condizione non più tecnica produttiva ed economica, ma solo storica, cioè che vincoli antichi, rapporti di produzione e proprietà, siano infranti e travolti dalle forze produttive debordanti, non da luminose avanzate dell’opinione.

Quando nascono quindi le tesi sull’economia capitalistica e quelle più generali del materialismo storico, nascono grazie alla dinamica della società inglese del XVII e XVIII secolo.

Il programma socialista nasce non come una profezia del millennio ma come una possibilità in base a condizioni già acquisite, ma in un solo paese: l’Inghilterra in senso stretto, senza Irlanda, ove si attende la borghese rivoluzione agraria, senza la gran parte della Scozia.

All’albore dell’ottocento la Francia è pienamente borghese, ma meno assai capitalistica: la Francia non è un’isola, ma la locomotiva di Europa, il suo compito storico è di estendere ad occidente la fiamma della grande Rivoluzione. Solo tra il 1831 e il 1848 il proletariato inizia le sue epiche lotte, che non sono ancora per costruire socialismo, ma per diffondere la rivoluzione verso oriente: poniamo per audace che sia l’ipotesi che gli operai di Parigi avessero vinto nel 1848; sarebbe stato preminente rispetto al compito di distruggere il capitalismo interno quello di una guerra rivoluzionaria contro la reazione in Europa: ancora in largo senso il problema storico delle «Due Tattiche», non ancora la domanda se è possibile una Francia socialista. Ma ciò per ragioni storiche, che nulla di comune hanno con la stessa necessità di attendere che vi sia trama economica socialista oltre Reno e oltre Danubio o oltre le Alpi.

14 – Alla radice. Manifesto!

Giunti però al maturo 1848 noi abbiamo quello che deridono come «Bibbia dei comunisti»: il «Manifesto» di Marx e di Engels. Il problema della rivoluzione proletaria è già posto in pieno, insuperabilmente: non solo non vi è traccia della rivoluzione simultanea in tutti i paesi, attribuita ai marxisti dei vecchi tempi, ma è evidentemente proposta la rivoluzione socialista anche in un paese solo. Non è solo proposta o ammessa, è contenuta in tutta la poderosa unitaria costruzione, né potrebbe altrimenti essere.

Nei suoi ultimi anni, nel 1893, Federico Engels dettò la prefazione alla edizione italiana del «Manifesto». Ebbene, in questa breve prefazione sono alcuni passi storici, come quello che dice: Il «Manifesto» rende piena giustizia all’azione rivoluzionaria che il capitalismo ebbe nel passato. La prima nazione capitalistica è stata l’Italia. Ed Engels pone il trapasso dal medioevo feudale all’era moderna, al 1300, al tempo di Dante.

Tuttavia, tornando alla situazione del 1848, e nel ricordare come da Milano a Berlino e a Parigi furono gli operai primi sulle barricate in tutta Europa, e nel ribadire questo tratto di «simultaneità» europea della rivoluzione come guerra di tutte le classi, egli aggiunge le significative parole:
«Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l’intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell’antagonismo fatale che esisteva tra la propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse francesi erano giunti al grado che avrebbe resa possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque in ultima analisi raccolti dalla classe capitalista».

Si possono trarre diversi corollari, a parte il solito che abbiamo prima sfiorato della piramidale buaggine della lotta anti-medioevale nell’Italia 1945, o nelle… elezioni siciliane 1955. Errorucci di sei secoli e mezzo. In Sicilia più che ovunque – Palermo di Federico II – fu la prima metropoli borghese.

Nel 1848 Engels pensa che la trasformazione economica socialista non sia possibile nella borghesissima Francia! Egli, che ne aveva tratta la prospettiva sicura da giovanili studi sull’economia inglese!

Dunque la maledetta costruzione del socialismo è stata dai più antichi marxisti vista come cosa di un paese solo, né Lenin doveva scoprirlo nel 1905 o 1914.

Inoltre: fu forse inutile la lotta Parigina socialista del 1848? Mai! Engels dice che lo sfruttamento capitalista della rivoluzione condusse alle formazioni nazionali d’Italia e Germania, ricorda che secondo Marx quelli che avevano abbattuto la rivoluzione del 1848 ne furono esecutori testamentari.

Quindi la nozione del proletariato che lotta per la rivoluzione capitalistica, che deve per essa lottare, che lo dovrebbe se fosse sul punto di scegliere la sua via, anch’essa non è invenzione di Lenin 1905.

Quello che la storia riservò agli operai francesi del 1848, lo riservò agli operai russi del 1917: Lenin lo vide e teorizzò decisamente in anticipo; i fatti storici lo mostrano oggi in luce abbagliante: battersi con sviluppata organizzazione di classe e coscienza socialista di partito in una rivoluzione proletaria, mentre i frutti di tale rivoluzione consistono nell’instaurazione del capitalismo.

Ma richiamiamo il contenuto del «Manifesto» a questo riguardo, per notissimo che esso sia.

15 – Armoniche strutture

Occorre ricordare la «sistematica» del nostro codice storico? Il primo personaggio che viene sulla scena è la borghesia, di cui il peggiore nemico ineguagliabilmente scrive la «chanson de geste». Combatte e scorre il mondo, scuote dalle fondamenta secolari istituzioni, scatena forze immani dell’attività degli uomini, suscita diabolicamente i suoi becchini, i proletari.

Le classiche enunciazioni sulla «organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico», si riferiscono al quadro nazionale del «solo paese». Vi è infatti la nota osservazione: La lotta del proletariato contro la borghesia è anzitutto nazionale, ma piuttosto nella forma che nella sostanza. Il proletariato di un paese deve naturalmente sbarazzarsi prima della propria borghesia.

Questa tesi celebre è più oltre ribadita dalle non meno note frasi, e seguono il passo sugli operai che non hanno patria:
«Poiché il proletariato deve prima conquistarsi il potere politico [i social-traditori leggevano: il suffragio universale!], elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, anch’esso è nazionale, benché non nel senso borghese».

Il senso di tali parole, tanto discusse e falsate allo scoppio della prima conflagrazione, contiene in sé la teoria del potere e dello Stato. La borghesia aveva il traguardo di costruire lo Stato nazionale – il proletariato non ha come fine né la costruzione permanente dello Stato – né quella della nazione, ma, dovendo impugnare l’arma del potere, dello Stato, appunto quando abbia solo ottenuto il crollo della propria borghesia («anzitutto») e del proprio Stato borghese, edifica il suo Stato, la sua dittatura, si costituisce in nazione, ossia difende il suo territorio contro borghesie di fuori, in attesa che a loro volta le rovesci il proletariato.

Quanto perciò fin dalle tavole primarie abbiamo sul tracciato dell’avvento rivoluzionario, sviluppa non come eccezione ma come norma l’ipotesi della vittoria in un solo paese, e la teoria ne esiste dagli albori del marxismo.

Come altrimenti leggere quanto per un secolo i filistei hanno cercato di leggere a rovescio, ossia la parte ulteriore programmatica:
«Il proletariato si servirà del potere politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione in mano allo Stato, ossia al proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per accrescere il più rapidamente possibile la massa delle forze produttive»?

Ciò non è che l’inizio della «trasformazione dell’intero sistema di produzione» e si tratta di «interventi dispotici» e di «misure economicamente insufficienti e insostenibili». Vecchie cose, certo. Ma dobbiamo appunto provare che è vecchia e non nuova teoria quella della presa politica del potere e dell’avvio della trasformazione sociale. Come altrimenti continuerebbe il testo:
«Naturalmente queste misure saranno diverse a seconda dei diversi paesi»?

E ne aggiungerebbe un elenco per i più progrediti all’epoca 1848? E come il capitolo finale tratterebbe nazione per nazione la prospettiva della conquista rivoluzionaria del potere.. se non fondando sul concetto, che tutto guida, che la rivoluzione potrà cominciare in ogni paese ove si sia formato con lo sviluppo produttivo un moderno proletariato, e perfino prima in Germania che in Inghilterra e in Francia, perché ivi incombe la rivoluzione borghese
«con un proletariato molto più sviluppato che non avessero la Francia nel XVIII secolo e l’Inghilterra nel XVII»[18]?

16 – Dal 1848 alla Comune

Dopo la grave sconfitta del 1848 le prospettive della conquista proletaria del potere nei paesi europei si sono allontanate. Nel lungo successivo periodo, Stati e nazioni borghesi si sistemano in una serie di guerre, i partiti proletari non hanno posizioni di primo piano, la politica marxista si orienta verso quelle guerre che conducono alla sconfitta delle riserve reazionarie, a turno Austria, Germania, Francia, e soprattutto e in ogni fase Russia, come tante volte sviluppato.

La nuova sistemazione nasce dal grandioso episodio della Comune di Parigi. Questa volta il proletariato non solo si impegna per rovesciare la borghesia nazionale, ma vi perviene, pur sotto il peso di due forze nemiche, il vincitore esercito prussiano e le forze armate dello Stato borghese divenuto repubblica.

Qui si leva la memorabile analisi di Marx nelle classiche opere: Volevate capire che cosa era la rivoluzione proletaria, la dittatura del proletariato, lo Stato socialista? Eccovi il primo esempio storico: la Comune!

Forse Marx, o uno solo dei marxisti del tempo, nel mettersi a fianco della Comune si è sognato di condannarla per il motivo che, a differenza del 1848, nelle altre capitali di Europa il proletariato non si muove, e tanto meno a Berlino, sicché è palese che l’esercito tedesco in piena forza interverrà contro lo Stato socialista di Parigi, se non basteranno le forze borghesi di Francia?

Non era dunque totalmente in piedi (in piena fase pre-imperialista del capitalismo) ed in piedi essa sola, una teoria della rivoluzione in un solo paese, e dei primi passi, classicamente levati ad esempio da Marx e sulle sue esattissime orme da Lenin, della trasformazione sociale con decreti ed editti famosi?

Quale marxista, anche delle tendenze meno accese, ha sconfessato la Comune o le ha consigliato di cedere le armi, perché o si fa rivoluzione in tutta Europa, o non si fa in Francia?

Vi erano in quel momento due posizioni nella Prima Internazionale, la marxista e la bakuninista; vi sono due «versioni» della Comune, entrambe nel senso di esaltare senza riserve il suo insorgere, il suo breve ciclo di vita, e la gloriosissima caduta, onta e vergogna dei regimi «civili».

Nessuna di queste correnti può riaccostarsi all’inventata teoria della rivoluzione contemporanea in tutta Europa.

Nella visione libertaria la Parigi della Comune non è uno Stato politico, ma risponde al mito del comune locale che nel suo stretto ciclo si libera insorgendo della tirannia statale e dell’oppressione sociale, fondando un’autonoma collettività di liberi ed eguali. È noto perché secondo noi marxisti questo è per non dir peggio un sogno, ma lo ricordiamo per escludere che quest’ala dei socialisti (socialisti anarchici, si diceva) abbia mai creduto nella rivoluzione simultanea: lungi da ciò, essi avrebbero ammessa la rivoluzione nemmeno nazionale, ma cittadina, comunalistica.

Qualche anno dopo combattevano per fondare l’anarchia in Spagna e in qualche sua provincia, sostenendo tortuosamente di non avere eserciti e governi, cadendo sotto l’inesorabile demolizione critica di Engels e Marx.

Quali che ne siano gli errori, nemmeno in questa direzione peschiamo i fautori del: niente rivoluzione, se non in dieci paesi.

Abbiamo poi la versione ortodossa, marxista, della Comune, la versione, a spregio dei manipolatori di frottole, in degno senso Leninista.

La Comune non è solo la municipalità di Parigi assediata due volte; è la Francia, il proletariato francese costituito finalmente in classe, che ha piantato sulle rive della Senna la bandiera della sua costituzione in classe dominante, eretto lo Stato rivoluzionario della nazione francese. Non nazione nel senso borghese e contro la nazione tedesca, ma nel senso che con i suoi cannoni tenta di jugulare il traditore Thiers dal suo seggio di controllo di tutto il territorio francese, e versa per questo obiettivo il generoso sangue della rossa Parigi, anche se sa che, mentre il boia indigeno avanza, l’operaio di Berlino, di Vienna, di Milano non ha imbracciato la carabina. È la teoria che nel fulgore fiammeggiante diventa ardente storia. E diventa patrimonio e contenuto della rivoluzione mondiale, sua vittoriosa conquista, anche dopo il tacere delle ultime scariche contro il muro del Père Lachaise, nella generale coscienza dei marxisti che ben nascerà un giorno da una vittoriosa prima Comune nazionale l’incendio progressivo inarrestabile del mondo del capitale.

17 – Revisionismo socialdemocratico

Furono i nemici odiati di Lenin che dal 1900 fondarono una «nuova teoria» che pretendevano marxista, versione moderna del marxismo; e con ciò prepararono la catastrofe del 1914, che a dire degli intrappolatori di Mosca avrebbe indotto Lenin a rifare tutta la parola marxista su Guerra, Pace e Rivoluzione.

Mentre nel campo operaio Bernstein e tutti gli altri elaborano il riformismo gradualista – a sua volta per nulla nuovo, ma intruglio delle eresie, contro cui Marx bruciò tutta la sua vita, dei socialisti prussiani di Stato, del lassallismo, del social-radicalismo francese, del tradunionismo inglese, e così via – la borghesia elabora la sua teoria della guerra e della pace, rimettendo su il mito del disarmo, dell’arbitrato e della pace universale. Anche questa antica storia e già stritolata dai colpi di maglio di Marx, fin da quando dopo il 1848 ebbe a che fare con la sinistra radicale borghese, Mazzini, Blanc, Garibaldi, Kossuth e simili, di cui ben sappiamo con quale indignazione furente si occupasse.

Il revisionismo legalitario smonta la visione marxista pezzo per pezzo. Ne vengono anzitutto espulsi l’insurrezione, la violenza, le armi, la dittatura: si ammette per breve tempo una denicotinizzata «lotta di classe» che si obbliga a svolgersi nei limiti della legalità statale, con la conquista elettorale dei posti nelle assemblee politiche. Il modello è la socialdemocrazia germanica, mostruosa macchina per elezioni, e si fa basso sfruttamento di una delle ultime frasi di Federico Engels: La sua distanza dal potere si può ormai calcolare dalle statistiche degli ultimi progressivi scrutini. Ma Engels aveva ben detto che, passato un tale traguardo, il capitalismo avrebbe scatenato lui il terrore!

Non dobbiamo ripetere la critica di questa tendenza e della sua prospettiva. Maggioranza alla Camera, governo legale socialista, serie di leggi progressive che attenuano lo sfruttamento proletario e i profitti borghesi, fino ad avviare un graduale mutamento del capitalismo in socialismo: non ci occorre qui ricordare come pian piano in Francia, Belgio e altrove la stessa lotta di classe in forma cartacea fu barattata ammettendo che si potesse dai partiti operai entrare come minoranze in governi borghesi, fondando quello che fu detto ministerialismo, possibilismo, millerandismo. Lo condannò – in pace – la Seconda Internazionale, ma poi gli aprì vergognosamente le porte in guerra, scatenando l’anatema di Lenin. Non sapeva questi che la Terza lo avrebbe ammesso e vantato non solo in guerra ma anche in pace, col motivo solo che facesse comodo a un qualche Nenni.

Sia quel che sia di questa accolta di gentiluomini, si possono nelle loro file scovare quei misteriosi marxisti pre-imperialisti che volevano la conquista del potere il dì stesso in tutti i paesi civili?

Evidentemente se l’ascesa al potere non deriva più da un’azione con le armi e per le strade, da uno sprofondare nel vuoto delle basi del capitalismo, ma solo dal salire della massa dei voti «socialisti», non importa proprio nulla che il dì radioso della chiamata al potere di un premier socialista sia dappertutto lo stesso, anzi è certo e sicuro che avverrà in tempi sfasatissimi e nulla impedirà che convivano dieci regimi, capitalista cento per cento, socialista dieci per cento, venti per cento e così via, sorridendosi, arbitrandosi, disarmandosi, nobelandosi, picassandosi, attraverso le frontiere.

Nemmeno dunque in questo campo troviamo chi sia contro la costruzione del socialismo in un solo paese. Se questo si costruisce pian piano per leggi dello Stato borghese, solo cambiando il partito che ne è alla testa, l’esigenza della simultaneità europea non se la sogna, come non se la sognò, nessuno.

18 – Nuovo solo l’opportunismo

Non Lenin ma proprio i rinnegati che egli flagellò fecero allo svolto dal 1914 la nuova teoria della guerra, della pace e della rivoluzione.

Non lasciarono parola su parola della vecchia teoria, dell’unica teoria di Marx.

Marx diceva che la rivoluzione proletaria avviene con la guerra civile delle classi e il rovesciamento dello Stato – lo negarono.

Marx diceva che la guerra tra gli Stati cesserà solo col cadere del capitalismo e mai con un accordo generale tra gli Stati borghesi. Essi lo negarono.

Marx diceva che la guerra tra Stati capitalisti e precapitalisti può avere un contenuto che interessa il proletariato che deve parteciparvi, ma che nel campo del capitalismo di occidente, dal 1871, tutti gli eserciti sono contro il proletariato e questi è contro tutte le guerre europee e inter-capitaliste. Essi lo negarono nella prima e nella seconda concezione e dissero che in ogni guerra tra due Stati il proletariato deve aiutare il proprio, per poco che sia minacciato di soccombere. Furono pacifisti finché la guerra non v’è, guerristi appena essa scoppia.

Lenin rimise i processi di pace e guerra e rivoluzione al posto in cui sempre il marxismo li aveva tenuti. E, come sempre il marxismo aveva detto, chiese disfattismo e rivolta proletaria ovunque, e anche unilateralmente ed in un solo paese, nel campo e nel corso storico che la guerra civile del 1871 aveva aperto.

Non generò nessuna nuova teoria, ma volle strozzare quella nuova del social-patriottismo.

Quando da questo suo storico e imponente lavoro di restauratore della dottrina non vecchia, ma unica, si volle far sorgere come cosa originale l’ovvia strategia dell’attacco alla borghesia nei campo nazionale anche unilateralmente, enunciata nel «Manifesto» e in tutti i testi marxisti, tra cui quelli sulla Comune, per Lenin basilari e sacrosanti come da cento sue pagine; e quando si tradusse questa non nuova tesi in quella che senza rivoluzione europea poteva aversi in Russia una trasformazione sociale in senso comunista, le occhiute mammane del Cremlino tentarono una vera sostituzione di infante, attribuirono a quello che considerano il Piccolo Padre della rivoluzione in Russia un pestifero bastardo; non ne fecero il distruttore di un’antica teoria di inesistenti vecchi marxisti, ma il distruttore di quella che lui stesso, sulle dorsali del sistema generale, aveva elevata con genialità vera: In una rivoluzione che non si estenda fuori di Russia, il proletariato dovrà prendere il potere, ma per attuarvi la rivoluzione democratica e per favorire con ciò l’avvento e lo sviluppo del sistema capitalistico di produzione, superabile solo con la rivoluzione proletaria vincente in altri paesi d’Europa.

Teoria che Lenin costruì con completezza veramente meravigliosa, di cui vide realizzarsi la verifica, e che mai rinnegò o ritirò.

È inutile insultarlo insinuando, con ardite falsificazioni, che lo abbia fatto, dato che la storia dopo di lui ne ha dimostrato all’evidenza le fasi ulteriori, nell’ordine da lui costruito.

19 – La trasformazione socialista

La questione del passaggio della Russia dalla repubblica controllata non dalla borghesia, ma dal proletariato vincitore, con programma sociale di nazionalizzazione agraria e statizzazione industriale, ad un’economia socialista, non è al suo luogo se posta al momento del problema, del tutto pregiudiziale, di liquidare la guerra. Al momento del crollo della Seconda Internazionale la prospettiva russa – anche fin quando a Lenin non risulta che molti socialisti di varie rive anche lì hanno tradito – non si pone in modo più favorevole di quanto si ponesse nell’anteguerra. Fino al 1914 Lenin fa molto conto sul movimento operaio marxista dei paesi più sviluppati per abbreviare il corso del capitalismo in Russia, che ormai saltare non si può, non si crede più possibile. Ma nel momento in cui la potente socialdemocrazia tedesca con gli altri grossi partiti dei paesi industriali paurosamente rovina nell’opportunismo, diviene più difficile la previsione del succedere alla rivoluzione democratica antizarista russa di una rivoluzione proletaria in paesi europei, su cui possa far leva una meno lontana trasformazione socialista della Russia.

A questo svolto del 1914 abbiamo dunque visto come Lenin nelle sette tesi ricapitola il programma.

In Russia, lavorare in profondità alla disfatta, al crollo dell’esercito e della dinastia. Il programma successivo resta lo stesso: non governare con partiti borghesi e piccolo-borghesi, ma dirigere la repubblica con la dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Socialmente una tale repubblica attuerà la nazionalizzazione agraria, le otto ore, la banca di Stato ed altre misure non uscenti ancora dai limiti del capitalismo.

In Europa: lotta per eliminare gli opportunisti, organizzazione di una nuova Internazionale proletaria, nuovi gruppi e partiti che conducano la lotta disfattista contro la guerra. Ovunque sia possibile, tentare la presa del potere politico con la parola della dittatura proletaria affidata al partito comunista.

Solo dopo che la guerra abbia fatto rovinare in parte almeno di Europa il potere borghese, si porrà il problema della trasformazione socialista europea e del suo appoggio all’evoluzione economica e tecnica in Russia.

Quindi il problema di far socialista la sola Russia non si pose nel momento in cui la storia ufficiale assume che sia stato da Lenin e posto per la prima volta e per la prima volta risolto in modo positivo: costruire socialismo in una Russia uscita dal feudalesimo e chiusa tra paesi capitalistici.

Un simile svolto nel pensiero di Lenin bisogna indagarlo dopo, e lo faremo: al momento della caduta dello zarismo, all’arrivo in Russia, alla lotta per il potere al solo partito bolscevico, al periodo successivo alla conquista del potere, a quello delle prime misure economiche e al fondamentale svolto della NEP, anch’essa tanto poco nuova che un simile titolo non fu mai dato da Lenin.

Il solo fatto di avere inventato questa conversione di Lenin fuori del tempo storico e del quadro teorico proprio, anticipandola artatamente, dimostra la falsa posizione che sta alla base di tutta la politica dello Stato russo, quale dopo la morte di Lenin e i noti eventi si enucleò dalla situazione.

20 – Potere ed economia

Come questa questione della trasformazione socialista in rapporto ad una conquista del potere in paese ancora non capitalistico vada posta in linea generale, va meglio chiarito se si vogliono evitare equivoci gravi, e al solito bisogna stare attenti alla distinzione tra l’aspetto economico e quello politico del trapasso tra i vari modi di produzione.

La nostra risoluta difesa della tesi che mai ci aspettammo di vedere in Russia, data la sua struttura sociale e la sua misera economia all’uscita dalla guerra, funzionare l’economia, la produzione e la distribuzione socialiste, può scuotere qualche lettore che vi veda l’eco della posizione opportunista che per anni ed anni fu scagliata a diffamare i bolscevichi.

Secondo il marxismo la trasformazione dell’economia in socialista non si può propriamente avviare se nella struttura di un paese il grande industrialismo, il capitalismo delle grandi aziende, la formazione del generale mercato di scambio, la commercializzazione di tutta la terra e dei suoi prodotti, non sono fatti e caratteri dominanti. Quando queste condizioni sono presenti, la trasformazione non è graduale e spontanea, ma, giusta Marx e Lenin e la sinistra rivoluzionaria, non si apre se non avviene la rivoluzione politica: ossia violento abbattimento dello Stato capitalista, fondazione del nuovo Stato del proletariato, con il partito marxista chiaramente alla testa.

Non basta quindi scatenare questa lotta politica e realizzare questa conquista, per garantire la trasformazione socialista.

Ma, come sarebbe errore il dire che con la semplice azione del colpo sul potere, alla Blanqui, alla putschista, possiamo introdurre il socialismo integrale nella Nuova Guinea, sarebbe errore l’escludere situazioni in cui si debba prendere il potere politico anche ben sapendo che su tale sola base la trasformazione socialista non vi sarà.

Quindi chi avesse detto: Bolscevichi, senza la rivoluzione in Europa non costruirete socialismo, non avrebbe errato. Ma non questo dissero i filistei. Dissero che non potendo assicurare la trasformazione socialista i comunisti avevano il dovere di non prendere il potere, anche avendone, come il fatto provò, le forze; dovevano delegarlo ad altre classi e partiti, o eventualmente sostenere e partecipare remissivi ad un governo provvisorio di Lvov, di Kerenski.

Ma i comunisti russi non risposero che essi avevano voluto – e dovuto – prendere il potere perché era il mezzo per fare la Russia, anche da sola, socialista. Allora non se lo sognarono neppure. Avevano, e proclamarono al mondo, una diversa serie di ragioni storiche, più vaste dei problemi dell’economia russa futura. Non era una gara per amministrare la Russia come se fosse una grande farm o un trust di produzione. Era una gara per cacciare dal potere ed abbattere forze di classe e politiche che indubbiamente avrebbero allontanato maggiormente la futura trasformazione socialista russa e mondiale, che avrebbero resa ancora più dissestata la contingente economia del paese, che avrebbero esposto la Russia al grave pericolo della controrivoluzione, non nel senso di tenervi un Kerenski o un Miljukov, ma in quello di abbandonare il potere a governi reazionari emananti dai paesi imperialisti del gruppo tedesco o di quello anglo-francese, o addirittura dalle risorte forze dello zarismo, che avrebbero rialzato la testa nel compito classico di carabiniere della rivoluzione democratica in Russia, e proletaria nel resto d’Europa.

Il solo partito che avesse di questi sviluppi chiara visione, che potesse fronteggiare quella serie di pericoli, che rendesse evidenti l’impotenza e il tradimento progressivo degli altri tutti, era quello di Lenin: i comunisti di tutti i paesi plaudirono quando prese per sé tutto il potere, lo invitarono a tenerlo saldamente e fecero il loro possibile per opporsi ai colpi dei suoi mille nemici: non gli chiesero di fabbricare socialismo, ma pretesero, meno quelli che erano dei piccoli borghesi sbandati, di far vedere come da socialisti si vivesse.

Questa domanda avrebbe dai russi dovuto venire agli europei. Venne, preceduta da altra chiara richiesta: Buttate giù il capitale, ove è pienamente maturo, prendete il potere, proclamate la dittatura, a compito integrale storico, del proletariato, di lui solo, del partito comunista.

21 – Produzione e politica

Ma se la produzione socialista non è nemmeno alle viste, e bisogna quindi ob torto collo vedere dilagare come nuova la forma capitalista, non è contraddetto il determinismo economico dal fatto che un potere politico socialista poggi su di un’economia non ancora socialista? L’argomento è soltanto capzioso. Anzitutto una vera economia socialista non ha bisogno, una volta uscita dalle forme capitaliste e mercantili, di generare poteri socialisti o meno: anzi li esclude.

Chi si perdesse a questa difficoltà, nulla avrebbe capito della storica grandiosa polemica sulla dittatura. Non diremmo agli anarchici che lo Stato e la violenza dittatoriale ci occorrono dopo il rovesciamento dello Stato borghese, se non potessimo provare che in una situazione tutt’altro che breve negli stessi paesi ultra-industriali il proletariato sarà classe politica dominante, governante, mentre sarà ancora economicamente in larga parte classe sfruttata.

La soprastruttura del modo capitalista di produzione è l’inerzia dell’ideologia e del comportamento sia dei capitalisti sia degli oppressi, che molto lentamente scomparirà, e che il governo rivoluzionario ha il compito di reprimere.

La formula esatta non è che il potere statale sia la soprastruttura che compete al dato modo di produzione (monarchia assoluta per il feudalesimo, repubblica liberale per il capitalismo e via) ma è quella stabilita fin dalle pagine del «Manifesto»: lo Stato è l’organo per il dominio di una classe su di un’altra.

Sono quindi plausibili le due situazioni: Stato capitalista che garantisce il dominio della borghesia sui lavoratori – Stato socialista che pur non avendo che cominciato ad eliminare il modo capitalista di produzione ne assicura la distruzione perché è organo del dominio di forza del proletariato sugli sfruttatori superstiti. A queste situazioni segue la terza: non più classe sfruttatrice né sfruttata, modo socialista di produzione, non più Stato.

Se un modo di produzione, come il russo, è per la parte maggiore feudale con poche punte di capitalismo, la storia ha realizzato il caso in cui il controllo e dominio di uno Stato tenuto dai soli proletari è dedito ad estirpare in pieno il modo feudale e non attacca ancora quello capitalista; e non è possibile segnare limiti a tale periodo di congiuntura, determinato dalle influenze di tutte le diverse strutture produttive nei vari paesi di un complesso campo.

Pare evidente che un tale periodo non possa essere indefinito, e del resto il limite fu posto e da Marx e da Lenin: era il tempo di estensione dalla rivoluzione impura russa ad una pura europea, che entrambi pensarono più breve.

I partiti componenti di una stessa Internazionale possono storicamente avere in mano da una parte una rivoluzione impura, da altre una rivoluzione pura (socialista sviluppata) o soltanto l’azione rivoluzionaria contro i poteri borghesi ancora non caduti. Questo rapporto di forze deve giungere ad una rottura di equilibri: vi giunse, a pro della controrivoluzione.

22 – Infamia e filistei

Ma è veramente troppo essere scossi dalle obiezioni al comunismo russo con infinita ipocrisia travestite da accuse di violazione del marxismo. Gridarono ingiusta e feroce la dittatura terrorista dei bolscevichi col pretesto teorico che la stessa non aveva la possibilità di sradicare ogni rapporto borghese. Ma quanto, se l’avesse avuta, avrebbero strillato più forte!

In realtà gli scandalizzati della dittatura comunista in Russia erano quelli che si scandalizzavano, alla testa di essi il rinnegato Kautsky, che la volessimo applicare in Europa, pronta alla rapida trasformazione socialista.

In realtà gli argomenti non vertevano sui lati negativi e sulla arretratezza dell’economia di Russia, ma sulla sporca soggezione ad ideologie borghesi, a limiti di origine borghese che il proletariato avrebbe dovuto autoimporsi. Si diceva doversi attendere una vera fioritura di capitalismo, perché allora il numero degli operai sarebbe stato tale che la via della persuasione e dell’idillio di classe avrebbe condotto alla vittoria senza violenza. Era quindi in nome non della fretta di giungere alla società socialista, ma del «valore assoluto» del principio democratico e dell’idealismo borghese, che si pretendeva che i bolscevichi si fossero fermati nello spezzare le reni ai partiti che avevano, ad esempio, più voti di loro nell’assemblea costituente «liberamente eletta».

Ora i bolscevichi sarebbero per un tempo molto più lungo – ma non certo i decenni e decenni – restati con le carte marxiste in regola a tenere il potere in Russia, pur non potendo fondarvi socialismo, a condizione che avessero seguitato a dichiararlo come sempre Lenin lo aveva senza infingimenti proclamato.

Ma cento volte le ebbero in regola quando con successive ondate di genuina azione rivoluzionaria stroncarono le forze della controrivoluzione aperta e imbavagliarono i miagolii ignobili dei disfattisti.

Perché non solo impedirono che esista oggi una situazione ancora più sfavorevole e controrivoluzionaria, ma ribadirono l’insegnamento che le prediche e gli scongiuri ingannevoli dei pregiudizi borghesi non devono avere la forza di fermare la mano del proletariato levatosi in piedi; che la forza materiale non deve subire, prima dell’inesorabile impiego, la censura di un avversario fellone, che avendoci nelle mani non si porrebbe per un momento il problema della rinunzia al potere e della pietà per una persona umana, che la propria non sia.



Notes:
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  1. I brani citati qui si leggono in K. MarxF. Engels, «Manifesto del Partito Comunista», Ed. Riuniti, Roma 1971, pagg. 49–50, 70, 84, 87–88, 88, 113. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 12, Giugno 1955

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