Ripetiamo che non è stata una disgressione, ma un anticipo del tema, la trattazione [che ha compreso i paragrafi da 4 a 22 di questa parte I] sulla falsificazione centrale di quella Storia del Partito Bolscevico che, apparsa anonima, come Trotsky ricorda, e poi stampata con una collettività di autori, è stata infine inserita nella raccolta dell’Opera omnia di Giuseppe Stalin.
Per dimostrare, come ci proponiamo, che in Russia non vi è che struttura capitalistica, e non socialistica, era importante far vedere da quando si è tentato lo scambio tra la tesi (non certo nuova teoria) di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, e quella, di paternità del solo Stalin, e falsa, della costruzione del socialismo nella sola Russia.
In tale esposizione ricordammo che Lenin aveva saputo che alla Duma russa i bolscevichi e i menscevichi, e gli stessi socialisti rivoluzionari, avevano protestato contro la guerra e votato contro i crediti.
Lo credeva Lenin nel settembre 1914, o nell’agosto, quando scrisse le sette tesi; ma non era così.
I menscevichi, e tra essi Čcheidze e l’ex maestro dei bolscevichi Plechanov, sono i capi, alla Duma e nell’emigrazione, dei «difesisti», le cui file comprendono però anche dei non «liquidatori». Il gruppo dei deputati operai bolscevichi è contro la guerra: e presto viene arrestato e deportato; ma sono anche contro la guerra vari menscevichi, tra cui Martov. Nelle stesse organizzazioni dei bolscevichi e nei gruppi esteri vi furono oscillazioni gravi, e così tra i deportati in Siberia: molto si discute sul contegno di Stalin, per lo meno assai riservato, finché non giunsero molto dopo notizie del parere di Lenin. Capo vigoroso dei disfattisti fu Spandarian, prima di ogni collegamento con l’estero.
A loro volta i socialisti rivoluzionari si divisero: contro la guerra Černov alla testa di un piccolo gruppo, a favore Avksentiev, Bunakov e molti altri che formarono un gruppo «Oltre confine». Tutti costoro, come Plechanov, come Pietro Kropotkin, come Čcheidze, ecc., dichiararono che la guerra ai tedeschi era giusta, difensiva e santa, e invitarono a sospendere ogni azione contro il governo e la dinastia dello zar. Nemmeno tuttavia Čcheidze e Kerenski ebbero la sfrontatezza di votare a favore dei crediti di guerra.
Anche all’obiettivo Wolfe, non troppo ortodosso in linea teorica, piace insistere sul fatto per noi non molto significativo, che la divisione tra difesisti e disfattisti nel 1914 non venne a coincidere con quella tra revisionisti-riformisti e marxisti ortodossi radicali. Al noto caso di Kautsky egli contrappone Carlo Liebknecht, che era un «bernsteiniano di sinistra», mentre poi Bernstein stesso fu tra i primi a deplorare l’abbandono della «vecchia tattica marxista» (qui ben detto) del voto contro i crediti di guerra. Ma sciovinisti furono una nota serie di ortodossi tedeschi: Parvus, Lensch, Cunow, Haenisch. In Inghilterra i destrissimi leaders laburisti Snowden e MacDonald votarono contro i crediti; a favore Hyndman, leader (nel testo di Wolfe) della ortodossa «Social Democratic Federation». Il «British Socialist Party», che non aveva suoi parlamentari, fu decisamente contro la guerra imperialista.
Chiuderemo l’inesauribile argomento dei socialisti davanti alla guerra con la frecciata di Wolfe:
«I ‹molli› [traducendo così modernamente il termine «softminded»] umanitari inclinarono al pacifismo, mentre molti ‹duri› [toughminded] ‹materialisti storici› [li virgoletta Wolfe, chiaro idealista storico] si gettarono nella guerra corpo ed anima»[19].
Affatto toccati! Wolfe non ci ha messo in lista Mussolini. Gli avremmo detto che era un idealista illuso, o auto-suggestionato, di seguire il materialismo rivoluzionario. Un idealista non è né un marxista radicale né un marxista riformista. È solo uno fuori della nostra via. Storicamente Gramsci ci aiutò a cacciare, con mille ragioni, Turati. Teoricamente però, ed è sempre un male quando lo si tace, ortodossia ne aveva meno Gramsci che Turati.
Gli indirizzi interessano: le persone e i loro nomi aiutano solo ad una mnemonica didattica; forse sarà anche un poco colpa nostra se se ne fa indigestione. Abbiamo voluto fare la storia della lotta tra difesismo e disfattismo. Essa era indispensabile per passare all’altra antitesi tra «unicostruzionismo» e… comunismo. Social-sciovinismo e cominformismo non sono una lettura della teoria comunista; ne sono alcune delle tante vie di abbandono. Pessimo viaggio, messeri.
Comunque, quello che non è destro né sinistro è il metodo storico del Cremlino, storicismo reclamistico. Tutto il partito bolscevico fu in blocco contro la guerra. Mentre di fatto il processo dei deputati alla Duma, arrestati con Kamenev andò male, e si fecero dichiarazioni equivoche, suscitando l’ira dei valorosi compagni Spandarian e Sverdlov (morti entrambi senza essere tocchi da diffamazione, e senza disonorarsi) la Storia bolla a fuoco il solo Kamenev. Kamenev infatti dirigeva il gruppo della Duma, e non evitò che questo il 25 luglio presentasse con i menscevichi una dichiarazione incerta, che parlava di difendere il popolo contro ogni oppressione interna ed esterna. Lenin non lo seppe: ma era ben chiara la gravità, immensamente maggiore, di ogni atto di solidarietà anche vaga con la difesa bellica nella Russia autocratica, rispetto ai paesi occidentali.
Il fatto storico, tuttavia, che tutti i partiti borghesi e piccolo-borghesi danno tregua allo zar appena egli scende in guerra, non è che altra prova della costruzione storica di Lenin: è il solo proletariato che potrà in Russia rovesciare lo zarismo e il feudalismo, fare lui quella non sua rivoluzione. Nel febbraio 1915 la Duma accoglieva l’ukase di scioglimento a lunga data con urrà alla vittoria delle armi imperiali!
I capi capitalisti delle nazioni democratiche si tenevano sicuri che il rullo compressore moscovita, tante volte giunto sotto le mura delle città di occidente a stroncare le rivoluzioni, si sarebbe mosso inesorabile allentando la morsa delle armate tedesche che scendevano verso Parigi. Ma quella macchina militare non si provava da molti decenni sui campi di occidente, la tecnica moderna aveva trasformato la guerra e i suoi mezzi, le grandi riserve di uomini, le masse di cavalieri non contavano più, e i prestiti dei banchieri francesi e di altre nazioni erano stati consumati allegramente ma senza grandi risultati nel senso del moderno armamento.
I germanici staccarono pochi corpi dal fronte ovest per riportarli, col loro solito vantaggio delle linee interne, verso la Prussia orientale, ma prima che giungessero sul fronte russo già l’armata di Samsonov era stata schiacciata con perdite colossali dalla manovra geniale di Hindenburg ai laghi Masuri, e dalla superiore organizzazione bellica tedesca. Borghesi di Francia e di Russia si scambiarono tuttavia complimenti per questo alleggerimento della pressione su Parigi, analogo del resto a quello ottenuto dai russi di Stalingrado coi grandi massacri della seconda guerra mondiale.
I vecchi ricordano una vignetta di Scalarini sull’«Avanti!»: le grinfie di Nicola tese su Berlino, quelle di Guglielmone su Parigi. I Masuri e la Marna capovolsero tutto.
Mentre in Russia si spegneva l’onda di entusiasmo, che nelle città aveva visto gli studenti, e alcuni popolani degli strati rivoluzionari del 1905, inneggiare alla guerra e inginocchiarsi cantando inni zaristi, i generali tentarono una riscossa nel Caucaso, ributtando i turchi, e nella Galizia, sfondando il fronte austro-ungarico in agosto fino a Leopoli, nella primavera fino alla fortezza di Przemysl, chiave dei Carpazi. Ma una travolgente controffensiva su tutto il fronte austro-tedesco raggiunse nell’estate del 1915 Riga e Varsavia.
La disorganizzazione militare, civile, amministrativa, economica guadagnava tutta la Russia in modo pauroso: caro viveri nelle campagne, crisi dell’industria, minacciosa paralisi dei trasporti, dissesto estremo delle finanze statali. La preoccupazione cominciò a guadagnare gli alleati di occidente.
Nel corso dell’anno 1916 quello che resta di potenziale russo, sulle richieste degli alleati che aiutano con denaro e rifornimenti, è impegnato ad offensive inutili o di breve successo dirette ad alleggerire la pressione degli austro-tedeschi sul fronte occidentale. Mosca non detta più la sua volontà gettando sulla bilancia la massiccia spada di un tempo, ma serve di cuscinetto quando ciò piace al moderno dispotismo del grande capitale.
Le lezioni della prima grande guerra universale cominciano ad essere imponenti, e tuttavia tutto un ciclo dovrà passare e una nuova grande guerra sopraggiungere e travolgere i continenti, senza che gli inganni delle superstizioni opportuniste possano essere evitati. Il binomio caro alla banale retorica borghese, che associa dispotismo e potenza guerriera, autocrazia ed invincibilità, dipinge i moderni stati liberali del capitalismo come pacifici e disarmati, come inadatti alla guerra ad oltranza, trova una smentita clamorosa nell’andamento del primo conflitto. Francia, Inghilterra, la stessa Italia, e poi l’intervenuta America, paesi di vantata libertà e di governo parlamentare, traversano la guerra praticamente intatti, e con vantaggi e conquiste. Prima a cedere sarà la Russia, e la seguiranno le «feudali» Germania, Austria, Turchia, sebbene assai più della prima abbiano adottata la tecnica moderna industriale ai fini bellici. Napoleone non fu invincibile perché despota, ma perché muoveva sullo slancio della rivoluzione democratica che prima creò il cittadino soldato; perché manovrava l’esercito della Convenzione del 1793 che prima istituì la coscrizione militare per la difesa, allora coerente, della rivoluzione e della patria.
Restava quindi stritolata una menzogna, che purtroppo ha dopo riguadagnato immenso terreno, ossia che per arrestare il militarismo conviene esaltare la democrazia. Le due cose vanno insieme, come Atene e Roma avevano già dimostrato (erano società schiaviste, ma allo schiavo era negato portare le armi).
Sebbene tratto da una pubblicazione di propaganda, è interessante lo specchio degli effetti della guerra 1914–1918 sulla «ricchezza nazionale» dei paesi coinvolti. La Russia scesa al 40 % rispetto al 1913, l’Austria al 59 %, la Germania al 67 %, la Francia al 69 %, l’Inghilterra all’85 %: Giappone ed America videro la ricchezza nazionale aumentare! Le perdite nel cambio rispetto al dollaro in percentuali erano nel 1918: Giappone guadagno di 1, Inghilterra perdita di 2, Francia di 12, Italia di 20, Germania di 23, Austria di 33, Russia di 40!
Conviene dunque non già dire: la democrazia non è militarista, ma all’opposto: più democrazia, più militarismo, più potenziale bellico[20].
Doveva allora presentarsi da sé la conclusione: la Russia non è più il fattore militare decisivo in Europa. Che fare per farla divenire più guerresca? Democraticizzarla!
Abbiamo forse diminuito Lenin quando abbiamo constatato che lavorò tutto un periodo storico a far sorgere in Russia la «democrazia»? I giudicatori affrettati si pongano questo confronto: capitalisti di occidente e di Russia lottano per la democrazia per renderla più potente in guerra, e per la vittoria – Lenin e i comunisti lottano perché questo trapasso storico si compia, ma il loro traguardo è la disfatta. A chi la storia dette ragione?
Col succedersi dei rovesci delle armate russe si sviluppa tutto un movimento di intrighi nelle sfere dirigenti interne e nella diplomazia: il malcontento per i gravi errori e il disordine amministrativo guadagnano sempre nuovi strati: soprattutto questi ambienti prevedono che l’estrema corruzione del regime zarista e la spinta depressione economica solleveranno inevitabilmente le masse che hanno cominciato a manifestare la loro intolleranza, non solo per il modo con cui la guerra viene condotta, ma contro la guerra stessa e per la sua cessazione.
La borghesia industriale cui la guerra ha dato maggiore importanza chiede un nuovo governo non dominato dalle cricche di corte e dalla nobiltà terriera. I partiti parlamentari dei liberali e dei cadetti che avevano ostentato solidarietà col governo vanno agitandosi. Il loro capo Miljukov pronunzia un roboante discorso dal tema: Stupidità o tradimento?
Mentre la corruzione della Corte Imperiale era dimostrata dai famosi episodi di fanatismo per il monaco Rasputin con le ben note influenze della zarina sull’imbelle zar, capitalisti russi e diplomatici stranieri ebbero sentore di una tendenza delle forze reazionarie a stipulare coi tedeschi una pace separata. Da ogni lato si decise di rompere gli indugi, mentre le masse dal canto loro e gli stessi soldati al fronte sempre più frequentemente si sollevavano.
Dalle sponde più opposte si concorda nel parere che, riuscita senza effetto una serie di passi e di incontri internazionali, le ambasciate di Francia e di Inghilterra brigarono segretamente per l’avvento di un nuovo governo borghese democratico e per la deposizione, se non della dinastia, dello zar Nicola.
La sostituzione di Sazonov, ministro degli esteri legato agli occidentali, con elementi di estrema destra, rese la situazione ancora più tesa.
Il 15 dicembre 1916 Rasputin venne assassinato da una congiura di palazzo di aristocratici che volevano scongiurare la rovina del regime.
Prendeva sempre più forma al principio del 1917 la preparazione di un colpo di Stato della nobiltà e dell’alta borghesia per deporre Nicola, nominare zar il figlio ammalato Alessio, ed assumere il potere cui si pensava designare il principe Lvov. Sembra che l’ambasciatore inglese Buchanan seguisse tale movimento. Ma l’azione popolare ruppe gli indugi ed i vari partiti della sinistra parlamentare furono forzati ad accelerare i tempi: lo fecero in verità con assoluto successo costituendo un potere tutto controllato dalla borghesia, mentre i partiti piccolo-borghesi e i social-difesisti tenevano a bada magnificamente le forze del proletariato.
Se è vero che solo i bolscevichi lavorarono in profondità nelle masse per provocare la caduta del governo, sollevarono operai, soldati, marinai, perfino le donne delle «code» per i viveri, condussero gli scioperi generali e furono alla testa della folla in non poche cruente battaglie con la polizia, altrettanto vero è che si fecero giocare e non seppero essere coerenti allo «schema» rivoluzionario di Lenin.
La consegna doveva essere, come ricordiamo dalle lunghe analisi degli scritti di Lenin dal 1905 (riunione di Bologna): azione di piazza e non accordi di partiti parlamentari – rovesciamento della dinastia e non governo costituzionale; repubblica – dittatura democratica del proletariato e dei contadini, ossia nessun accordo con partiti di sinistra che a loro volta facciano accordi con la borghesia.
Questa fase storica nel concetto di Lenin era sempre una rivoluzione borghese nelle mani del proletariato e dei contadini.
Il febbraio 1917 non fu questo; fu invece una fase precedente, estremamente labile, resa possibile solo dalla situazione di guerra e dalle forze estere. Basta riflettere che i proletari (bolscevichi) e i contadini poveri (S.r. di sinistra) restarono all’opposizione; e a un dato momento fuori legge.
L’ottobre 1917, che esaminiamo in seguito, fu la fase Leniniana, in senso immediato (e fu anche di più, come ripeteremo), ossia la rivoluzione democratica in mano al proletariato.
Il febbraio si definisce subito: rivoluzione democratica e borghese in mano ai borghesi.
Lo schema dei fatti è noto (in date del calendario nostro, coi 13 giorni in più, sicché oltre febbraio).
10 marzo. Sciopero generale di Pietrogrado; lotta nelle vie.
11. Lo zar discioglie la Duma. I deputati restano nella capitale per respingere l’ordine e formare il governo provvisorio.
12 marzo. Sorgono sia il Comitato provvisorio della Duma che il Soviet dei delegati dei lavoratori di Pietrogrado (che classicamente dovrebbe prendere, nella visione marxista, il potere totale nazionale).
13 marzo. Arresto dei ministri dello zar.
14 marzo. Soviet a Mosca. Delegati dei soldati in quello pietrogradese.
L’esercito mandato contro i lavoratori spara sulla polizia.
15 marzo. La borghesia segna un bel punto. Il Comitato provvisorio della Duma forma il governo provvisorio. Lvov, costituzionale, primo ministro – Miljukov, capo dei cadetti, Esteri – Kerenski, socialrivoluzionario-populista, Giustizia, eccetera.
Nicola II abdica in favore del fratello Michele.
16 marzo. Michele abdica e si rimette alla Costituente futura.
18 marzo. Il Soviet di Pietrogrado, come quello di Mosca, è in grande maggioranza nelle mani dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari. Esso praticamente consegna il potere al governo provvisorio formato dai partiti borghesi, nel quale il verboso e traditore Kerenski recita la parte di rappresentante della sinistra e degli operai socialisti. I bolscevichi reagiscono con un manifesto che, e questa volta non si può dare ragione né agli stalinisti, né allo stesso Trotsky, non sconfessa il governo provvisorio borghese, ma pone delle rivendicazioni che lo stesso debba attuare: sia pure opponendo la conclusione della pace al rinfocolamento della guerra.
Più tardi menscevichi e socialisti rivoluzionari entravano a far parte del governo: i bolscevichi prendevano una posizione non chiara, la «Pravda» pubblicava articoli di Kamenev che provocheranno poi l’indignazione di Lenin: in sostanza non solo essi non definivano controrivoluzionario il governo Lvov ma gli offrivano un appoggio, sia pure condizionato.
La borghesia, dopo aver fatto rovesciare la forza zarista dal proletariato insorto, aveva guadagnato la partita del potere, al cento per cento.
Ciò si doveva unicamente all’opera e alla funzione storica dei partiti piccolo-borghesi ed opportunisti, come lo «schema di Lenin» tracciato in un lungo corso aveva perfettamente considerato.
Era ben chiaro che tutta l’ala destra e a meglio dire la quasi totalità del governo provvisorio era formata da fautori della guerra ed amici degli alleati occidentali: erano stati indotti a rovesciare il governo dello zar, cui nel 1914 avevano offerto piena solidarietà nazionale, per il solo motivo che si era reso sospetto di disfattismo filo-tedesco sabotando tutto il potenziale del paese, ed ora era logico che orientassero ogni sforzo verso la ripresa delle ostilità al fronte.
Non meno logico era che quella parte dei partiti proletari, che si era manifestata nel 1915 bassamente «difesista», appoggiasse la stessa politica e plaudisse alla guerra, che aveva ormai acquistato una verginità democratica.
Quegli elementi di tali partiti che erano stati, se non disfattisti, almeno oppositori della guerra, passando alla politica della continuazione della guerra e della difesa della Russia liberata mostrarono come nulla avessero di comune con la condanna della guerra imperialista «da qualunque parte», e come solo ragioni borghesi e non marxiste li avessero trattenuti dal marciare con la guerra, fino a che la dirigeva lo zar.
Ma fu forse perfettamente chiara la posizione di tutti i bolscevichi in questa storica alternativa? Che cosa è mutato? Deve continuare il disfattismo, o bisogna passare ad altra fase perché si possiede ora una «patria democratica»? Purtroppo si fu molto lontani dalla scelta sicura.
Ma, prima ancora della questione della guerra, il periodo di euforia, nel quale ad esempio si incontrarono i reduci dalla deportazione in Siberia, come il taciturno Stalin, l’eloquentissimo Sverdlov, e tanti altri, e di fraternizzazione retorica tra populisti, trudovichi, socialrivoluzionari, menscevichi, bolscevichi, mostra come l’evoluzione teoretica del movimento non era all’altezza dei poderosi tracciati dell’opera Leniniana e delle battaglie dei congressi.
Al tempo delle «due tattiche» e di tante altre polemiche acute, Lenin aveva bene inchiodato non solo tutte le specie di populisti, ma i menscevichi ancora, alla fatalità del loro avvenire controrivoluzionario.
I menscevichi si erano atteggiati ad intransigenti, col dire: Il proletariato non può pretendere il potere nella rivoluzione russa; è la borghesia che deve assumerlo: noi allora non governeremo, al più «controlleremo» (a tale parola Lenin diveniva una belva) il potere democratico.
Ostentavano di considerare opportunista Lenin che crudamente diceva: Dovremo noi prendere il potere di un governo provvisorio nella rivoluzione borghese democratica a condizione che non si dia alcuna briciola ai partiti borghesi. E che non si parli più di monarchia, inoltre.
La disputa, a malgrado delle potenti menzogne diffuse stalinisticamente, non fu mai questa: Dobbiamo prenderlo noi per costruire la Russia socialista. Era chiaro che avversari della forza di un Plechanov avrebbero subito risposto: Ma se si tratta di questo obiettivo storico, siamo per il potere anche noi.
Lenin – è bene sempre ribadire – disse che si doveva prendere il potere perché non esistevano altre vie storiche per evitar che vincesse la controrivoluzione. Evidentemente in senso potenziale questo discende dalla necessità di avanzare storicamente verso il socialismo, la rivoluzione socialista mondiale e russa, ma è sempre detto in senso potenziale e non come contenuto immediato ed attuale della lotta storica.
Trotsky stesso non si era fino ad allora orientato. Quando Lenin dimostrava il destrismo dei menscevichi, lui concordava. Ma, quando i menscevichi con poderosa ipocrisia attaccavano un Lenin che faceva lottare il proletariato per troppo poco, Trotsky che come ardente militante non sognava che la lotta, restava perplesso: in ritardo capì la potenza dialettica della costruzione di Lenin. Ma la capì sul serio. Comunque lo adopereremo come ineccepibile testimonio che Lenin questo voleva: la rivoluzione democratica borghese, purché non fosse l’aborto e la parodia di una rivoluzione demo-borghese. Da determinista fuso nell’acciaio, lo faceva ridere un’accusa di aver voluto troppo poco. In realtà egli aveva dato un esempio, direbbero gli anglosassoni, terribile di come si riesce a scrivere la storia che deve venire.
Orbene, nel momento che i menscevichi si smascherano da sé, e pur dichiarando che si tratta solo di libertà, di democrazia e di guerra democratica, non mai di socialismo immediato, entrano nel governo borghese, ogni animale di sangue bolscevico avrebbe dovuto saltare loro alla strozza e dichiarare guerra senza quartiere. Non fecero questo né Kamenev né Sverdlov né Stalin né altri. Indipendentemente dal quesito sulla guerra – che da due anni e più sapevano già risolto da Lenin e dal marxismo incorrotto – essi mancarono al loro dovere verso un partito che così scultoreamente aveva disegnato i suoi compiti per le ore che sul quadrante storico erano gloriosamente suonate.
Deficienza dunque di quel gruppo, che pure aveva benemerenze incredibili di lotta insurrezionale, di fronte al problema del rapporto tra le classi sociali e i partiti politici della Russia. Grave che un partito manchi all’azione, quando ha così brillantemente enucleata la dottrina storica.
Ciò fu dovuto anche alla situazione di guerra. Indiscutibile. Ma all’errore rispetto alla dinamica interna corrispose simile errore rispetto alla dinamica delle forze internazionali, del conflitto imperialista mondiale.
I più brutti momenti per la… buonanima di Carlo Marx, se segue le cose dall’altro mondo (per noi materialisti le segue, sì, ma dal luogo-tempo di quando era vivo, e c’è Vladimiro – oh, ridete pure – ad urlare quello che lui avrebbe urlato) sono quelli in cui vede che, dopo aver tanto spiegato come la dialettica sbroglia la storia, i «marxisti» mostrano che stanno a zero, mentre i loro avversari mostrano di sapere a menadito la lezione.
Il gruppo di partiti borghesi che nell’anteguerra, come attraverso Lenin si è così bene seguito, erano ben decisi a non scatenare mai l’attacco al governo feudale e ad evitare il passo scabroso del governo transitorio «illegale», sono usciti da tanto saggia determinazione per il solo motivo che la guerra perduta sarebbe stata una rovina per alti interessi capitalistici russi e internazionali, e avrebbe certamente provocato violenti movimenti a carico delle classi possidenti in una acuta guerra civile. Seguirono quindi la via che poteva evitare complicazioni di questo genere, la via della disfatta tedesca nella guerra mondiale. Oltre tutto, questo era coerente all’esigenza prettamente borghese della esaltazione dei valori nazionali interni, come in ogni altra rivoluzione ottocentesca borghese. Se quindi si procedeva nella direzione della disfatta tedesca, ossia della vittoria degli imperialisti occidentali soci in importanti affari, è chiaro che dalla rivoluzione antizarista non doveva uscire la fine della guerra, ma la ripresa di essa con virulenza massima ed «entusiasmo nazionale», il superamento del disfattismo tramato dalle zarine isteriche e dai Rasputin nodosi.
Il governo provvisorio si ingaggiò su tale via senza esitare. Chi avrebbe potuto attraversarla? Il Soviet, col suo potere dualista. Ma che dualismo di poteri! Il potere non si spartisce, come le borghesie di occidente non lo avevano spartito coi deputati dei partiti operai votanti i crediti o entrati nei ministeri: si era a questi sporcaccioni passata una livrea, non altro. E così fu praticato coi Čcheidze e i Tsereteli, coi Martov e i Černov.
Ci voleva dunque tanto, si doveva proprio aprire il testo di Lenin, o sentire riecheggiare nella testa l’eco dei suoi duri, scabrosi discorsi in dieci congressi e conferenze, per trovare la strada, anche senza aver letto le tesi, gli articoli, gli opuscoli dettati dopo il vergognoso 1914 della II Internazionale?
E se i socialisti belgi e francesi erano stati inchiodati alla gogna, qual dubbio che allo stesso titolo avrebbero dovuto esserlo i russi che avessero data solidarietà nazionale ad una repubblica postzarista, anche di valore superiore a quei tre soldi?
Esitare su questo voleva dire essere soggetti a ideologia puramente borghese e nazionalista, fare paragoni con la difesa della patria da parte della Convenzione e coll’epopea delle Termopili di Francia, non avere capito un cristo di tutto Marx, dell’imperialismo di Lenin, della distinzione marx-leniniana tra guerre di difesa rivoluzionaria e la contemporanea, esecrata e svergognata guerra dei poteri imperialisti, che per aver perduto i Románov non puteva certo di meno, né per avere acquistato la faccia cachettica di Woodrow Wilson.
Sono proprio questi infatti gli argomenti con i quali volevano scantonare i riformisti d’Italia in quel 1917, oltre la frana a Caporetto; e più volte ricordammo le mal sudate camicie per tenerli fermi.
Questi dunque i ferratissimi bolscevichi, fedelissimi al partito, insanguinati nelle vene del suo rosso sangue rivoluzionario? Evvia!
Raccontare ancora una volta il viaggio di Lenin dalla Svizzera in Russia, il suo arrivo trionfale? Non ne sarebbe il caso, eppure bisognerebbe rifarlo, perché gli eventi sono tanto luminosi, ed è tanto grande il pericolo che il facile sentimentalismo, o il suo degno alleato, il misero scetticismo furbo, concluda: Nulla da dire; sta tutto in un uomo solo, in una sola testa, e i grandi movimenti della storia erompono soltanto quando questa ha tirato a sorte, fra tanti imbecilli che gli uteri scaricano, quel tipo «che ha sempre ragione».
Lenin parte con notizie monche, ma nel viaggio, e soprattutto dopo aver varcato la frontiera, anzi il fronte, gli vengono incontro: ha tra mani numeri della «Pravda» redatta da Stalin e Kamenev, che mostra inferocito ai compagni di viaggio, forse atterriti che li faccia a pezzi.
Racconta Trotsky che Kamenev, uno dei devotissimi di Lenin al punto di mimetizzarne anche gli atti e la grafia – uomo da non minimizzare certo – gli va incontro, ma si vede malmenato. Si era alla stazione alla frontiera finlandese. Racconta Raskolnikov, altro teste sicuro. Lenin entra e siede sul divano:
«Che cosa avete scritto sulla Pravda?! [avrà usato il termine che equivale a che e. …]. Ci siamo molto arrabbiati con voi!».
Da quel momento chi viene a tiro subisce analoga accoglienza, fino al famosissimo discorso alla folla, dal carro armato.
Metteremo nella dovuta luce l’abisso che si poneva tra la mentalità dei compagni che erano stati in Russia e la costruzione di Lenin. Mettiamo in luce, per smontare un aspetto della teoria della ipnotizzazione della massa, anzitutto che un immenso vantaggio è quello di guardare queste grandissime cose da distanza di spazio (e di tempo, anche). Lenin scende alla stazione di Pietrogrado. Non si guarda nemmeno attorno, nessun imbecille osa dirgli: rendetevi prima edotto. Si vede venire incontro ossequiosi e falsi i rappresentanti del «governo» nel salone imperiale della grande stazione, ode Čcheidze che gli rivolge un discorso di benvenuto, offrendogli l’unità coi menscevichi nella «democrazia rivoluzionaria». Nella riunione di partito, pochi giorni prima, Stalin aveva mostrato – come diremo – di essere propenso ad accogliere una simile iniziativa di Tsereteli.
Lenin non rispose neppure no, ma volse risoluto alla delegazione ufficiale il deretano (le spalle sarebbe stato onor troppo grande), varcò la soglia della stazione, entrò tra le acclamazioni nella piazza, lo issarono sull’autoblinda. Non esiste forse il testo del discorso. Ognuno lo riferisce a brani:…Saluto in voi l’avanguardia dell’esercito proletario mondiale… questa guerra di brigantaggio imperialista è l’inizio della guerra civile in tutta Europa… l’alba della rivoluzione socialista mondiale è già sorta… ogni giorno, domani forse, può l’imperialismo capitalista crollare definitivamente… La Rivoluzione fatta da voi ha segnato il principio, una nuova epoca si è aperta: Viva la Rivoluzione Socialista Mondiale!
Quel discorso, e le successive manifestazioni di Lenin alla sede del partito e nella conferenza del dì seguente, su cui siamo bene documentati dalle celebri «Tesi di Aprile», non lasciarono solo di stucco i pretesi «capi della Rivoluzione» ma, giusta tutte le testimonianze, fecero «girare la testa» ai migliori operai e capi intellettuali bolscevichi. Nulla restò, dopo la travolgente critica, della tattica fino a quel momento seguita: le nuove proposte caddero con fragore di fulmine sulla attonita udienza che si senti mancare il terreno sotto i piedi. Chi ha udito parlare Lenin, senza enfasi oratoria alcuna, e tanto più chi non ha esitato a contraddirlo, può dire come quanto egli esponeva apparisse evidente e conseguenziale per tutti, e anche per chi mai lo avesse sentito. I poco provati in dialettica marxista erano sempre i più attoniti. Quello che dice è impossibile! Ma è così chiaro e provato che non vi è sillaba da ribattere…
Ai resoconti di stampa del discorso del 3 aprile fece seguito il generale sbalordimento: ma non fu solo degli avversari, bensì dei quadri del partito bolscevico; e questo seguitò quando alla riunione indetta per il 4 successivo Lenin fece una più ampia esposizione, disinteressandosi del tutto dei temi e delle soluzioni che erano state predisposte, e seduta stante buttò giù le notissime Tesi, sulle quali lo stalinismo ha tentato una falsificazione gigante, mentre gli stessi trotzkisti sbagliano l’impostazione sostenendo che con esse Lenin rivoluzionava la «vecchia» tattica bolscevica del 1905. E giusto invece che Lenin riporta a Mosca il tema delle «Due tattiche» senza nulla mutarvi, solo che Trotsky finalmente ne afferra la potenza rivoluzionaria (al suo di poco tardato arrivo): il falso è questo, che non si tratta affatto di passare dalla rivoluzione borghese alla «trasformazione socialista» bensì esattamente di passare dalla «tattica menscevica nella rivoluzione democratica» alla «tattica rivoluzionaria» e comunista sempre nella rivoluzione democratica.
Questa dimostrazione viene data in modo cristallino dal testo delle tesi del 4 e dai rapporti di Lenin alla conferenza del 24 e seguenti, in cui come vedremo Lenin dice ad ogni passo:
«non si tratta ancora di instaurare il socialismo»,
bensì di non comportarsi da opportunisti nella rivoluzione borghese.
Per ora tuttavia fermiamoci sulle testimonianze dello sbalordimento, che, se vi fosse stato davvero un partito marxista funzionante come dovrebbe, sarebbe stato sostituito dalla semplice constatazione: Dice quello che ha detto per vent’anni, e noi eravamo sciocchi ad avere imboccato una via diversa, con la solita ubbia che l’esigeva una situazione nuova, inattesa.
Gli avversari nemmeno avrebbero dovuto stupire: le loro frasi esprimevano solo il fiero disappunto che il laccio sottile teso nel seno dei Soviet alla frazione bolscevica fosse stato di un solo colpo tagliato.
Plechanov, che come teorico avrebbe dovuto ritrovare il Lenin di quando egli stesso era con lui, da buon rinnegato finge di sentire quelle cose la prima volta. Fa come i togliattiani italici che a qualche vecchio compagno indignato rispondono: Possibile che veniate ancora con le vecchie storie del 1921? Le sue frasi sono del genere: Questo discorso è una farsa-sogno, è il delirio di un pazzo. I menscevichi, fatto il segno della croce, scoprono che Lenin «incita alla guerra civile»! Čcheidze è poi formidabile: Lenin resterà fuori della rivoluzione, mentre noi proseguiremo nel nostro cammino. Profeti di forza! Tsereteli afferma che se avessero preso il potere avrebbero rovinato tutto e sfasciata, guarda un poco, l’Internazionale proletaria!
Questa gente aveva già sprizzata la sua bava per il passaggio dato dai tedeschi, poi era corsa per vedere se dopo tanti anni Lenin tendeva loro una mano su cui si sarebbero gettati lacrimando di commozione; schifati, ripresero a gettare veleno: tutto questo è classico, si sa bene, né occorre oltre trattarne. Ma quello che è importante è lo smarrimento dei compagni anche di prima linea, totalmente ignorato nella Storia ufficiale, che al solito lancia solo fango su Kamenev, Rykov, Bucharin ed altri, dalla piattaforma dei patiboli di venti anni dopo. Sentiamo le testimonianze raccolte da Trotsky.
«Tutti – egli dice – erano troppo storditi per fare discussioni. Nessuno osava esporsi ai colpi di questo leader disperato»
(qui un po’ di bella letteratura: un leader non disperato, ma arrabbiato, per non usare participio più forte, tuttavia in sicura marcia dottrinale tra il passato e il futuro evidenti, in quello svolto particolarmente fecondo, uno dei pochissimi in cui avviene l’azione catalitica di quel corpuscolo che è il «capo» su una intera collettività). Segue Trotsky:
«taluno sussurrava che Ilijc era rimasto troppo a lungo all’estero, che aveva perduto contatto con la Russia, che non capiva la situazione, e, peggio di tutto, che era risalito al ‹trotzkismo›»[21].
Qui pecca il gran Leone non di vanità, che non era da par suo, ma di ingenuità generosa: era Trotsky che finalmente trovava Lenin, non il contrario. Trotsky col suo sguardo d’aquila non vide quella scena, ma sapeva che gli azzurri e ultrapenetranti occhi di Lenin in quel momento, anche fiammeggiando, sembravano dire tranquillamente: Non solo è così e così, ma dovete riconoscere che lo sa ogni fedele minchione. Nessuno si sente girare la testa solo perché si raccontano cose mai udite, ma solo quando ha la sensazione:
«è impossibile che non si dicesse così fin dal primo momento: come abbiamo potuto pensarla altrimenti? Lo sapevamo persino a memoria!».
Alcuni altri riferimenti su questa operazione sensazionale di lavaggio di cervelli, operazione che non è dato fare a sbirri feroci o a maghi freudiani, ma che è effetto di materiali forze in certi culminanti crisi storiche che il mito, non costruttore di sogni né di farse, ma interprete faticoso di fatti palpabili, soleva esprimere con le parole sacre: Egli è il Verbo: ha parlato, e la luce è entrata in noi! (ah, materialista Plechanov, dove eri mai caduto!), son questi.
Quando Lenin disse: propongo di mutare il nome del partito in comunista, non aderì nemmeno Zinoviev, che aveva viaggiato con lui! Il bolscevico Angarski scrisse:
«Bisogna confessare che molti fra i vecchi bolscevichi rimasero attaccati alle opinioni vecchio-bolsceviche sulla questione del carattere della rivoluzione del 1917 e che la rinunzia a queste vedute non fu priva di difficoltà».
E Trotsky scrive:
«in realtà non si trattava di molti vecchi bolscevichi ma di tutti, senza eccezione».
Ebbene no, Angarski, no, Trotsky: può darsi che si trattasse di tutti (sebbene sia da credere, pur mancando di altre fonti ricostruttive, che, mettiamo, una Krupskaja, o chi so altro, non abbia battuto ciglio) ma il fatto è che si trattava di rivendicare le «vecchie tesi del 1905» tali e quali, formula a formula. Sono queste coincidenze, e non la potenza di un cervello umano, per quanta luce ne sgorghi, che si legano alle forze del sottosuolo storico capaci di sommuovere un’epoca intera.
Ma un lavoratore degli Urali, Markov, «che la rivoluzione aveva trovato davanti al proprio tornio», disse le parole teoricamente tutte giuste, spontanee:
«I nostri capi tentennarono fino all’arrivo di Vladimiro Ilijc. La posizione del partito cominciò a divenire chiara solo con l’apparire delle sue famose Tesi».
Bucharin, troppo facile ad impennate, ricordò dopo la morte di Lenin che una parte del partito considerò le tesi come un tradimento dell’ideologia marxista! Ludmilla Stahl lasciò scritto:
«I nostri compagni si accontentavano di una semplice preparazione dell’Assemblea costituente attraverso i metodi parlamentari, e non consideravano nemmeno la possibilità di andare oltre. Accettando la parola di Lenin noi faremo quello che la vita stessa ci spinge a fare».
Benissimo. Ma mostreremo che quella parola, che condannava l’assemblea costituente a suffragio universale nella borghese rivoluzione russa, era dal 1905 già stampata.
Poiché nel gran lavoro fatto da un organamento mondiale elefantiaco si è tanto operato ad inventare che solo Stalin si pose subito sulla linea di Aprile (mentre la «Pravda» fatta da lui e Kamenev stampò che quelle di Lenin erano, ahimè misero, solo personali opinioni) citiamo un ultimo teste non trotzkista.
Non è la prima volta che lo si riferisce, ma è utile e calzante al tema. All’esecutivo allargato del Comintern del febbraio-marzo 1926, in una riunione sulla questione russa (stava nascendo l’opposizione Trotsky-Zinoviev-Kamenev), il cui dibattito si impedì di portare all’adunanza plenaria sotto motivo che tanto aveva chiesto la stessa opposizione pur di non essere più gravemente chàtiée, un delegato della sinistra del partito italiano chiese a Stalin se fosse vero che nella riunione del 1917, a proposito della politica da tenere nella guerra, Lenin aveva compreso anche lui, Stalin, tra quelli cui indirizzò epiteti del tipo «sciovinista russo», «nazionalista cosacco» e simili. Mentre la giovane interprete imbarazzata taceva, Stalin dette l’ordine di tradurgli il quesito, alzò la testa e disse nettamente: da – sì, è vero[22].
Una volta (anzi in quello stesso esecutivo) Stalin nell’attaccare i sinistri fece una triplice distinzione: quando è la compagna X che parla, si tratta sempre di una menzogna, quando è il compagno Y, talvolta è verità, talvolta bugia – quando è il compagno Z (quel delegato italiano) si tratta sempre della verità, anche se nelle conclusioni ha torto.
Il teste che abbiamo citato è lui stesso, tramite quegli che a suo dire (vedi resoconto stampato a Mosca)[23] non disse falsa testimonianza mai. Gli sia ricambiato l’onore: monosillabicamente sia pure, egli nemmeno volle mentire.
Questo non basterebbe a condannare nessuno, se anche Cristo dovette dire a Pietro, primo luogotenente: Non avrà cantato il gallo, che già tre volte tu mi avrai rinnegato.
A noi materialisti non può venir detto: Tu sarai meco in Paradiso! La storia, e la sua teoria, sovrastano tutti noi, piccoli e grandi, famosi ed oscuri. E solo la sua via noi seguiamo.
Notes:
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B. Wolfe, op. cit., p. 832. Qui si è tradotto dall’originale. [⤒]
Cfr.: «Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi», ne «L’avanguardia» del 25/10/1914, in «Storia della Sinistra comunista. 1912–1919», cit., pagg. 236–237. [⤒]
L. Trotsky, «Stalin», Milano, 1947, pag. 270. I brani successivi, alle pagg. 273, 274, 274–275. Cfr. la «Storia della rivoluzione russa». Milano 1969, I, pagg. 313–341. [⤒]
Il resoconto della seduta 22 febbr. 1926 della delegazione italiana con Stalin si legge ora negli «Annali Feltrinelli», 1966, pagg. 263–270: l’episodio del da di Stalin a Bordiga, che il resoconto non contiene (et pour cause), è confermato nella premessa dal curatore della suddetta pubblicazione, G. Berti, non certo sospetto di irriverenza a Stalin. [⤒]
Lo si legge in Stalin, «Opere», VIII, pag. 147 (Discorso alla commissione tedesca). [⤒]