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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (V)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (V)
35 – Capisaldi di aprile
36 – Ributtare il difesismo!
37 – Il disfattismo prosegue
38 – Transizione: tra quali due tappe?
39 – Il governo provvisorio alla gogna!
40 – Partito e soviet
41 – Tattica impeccabile
42 – Abbasso il parlamentarismo
43 – Polizia, esercito, burocrazia
44 – La frale natura umana?
45 – Le misure sociali nettamente borghesi
46 – Altri falsi dispersi
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (V)

35 – Capisaldi di aprile

Indubbiamente l’arrivo di Lenin in Russia e le «Tesi di Aprile», che seguirono nelle ventiquattro ore, costituiscono storicamente uno svolto, una tappa fondamentale. Ma questo non si deve capire nel senso che esse lanciano al mondo una nuova parola, una nuova versione della dinamica rivoluzionaria, e che da quel momento, come scrivemmo tanto tempo fa in questi testi, sia stata mutata la visione del processo rivoluzionario socialista. La versione banale è che, come da una cattedra, per tutto il proletariato mondiale sia stato cambiato il programma di insegnamento. Non più lotta, vittoria e potere del proletariato salariato, quale piattaforma della distruzione del capitalismo e della liberazione delle forze produttive tese verso il loro ordinamento comunistico; ma lotta, vittoria e stato di popolo, di proletari e semi-proletari, di operai e di contadini proprietari: questa è l’interpretazione banale e pedestre, e questa lezione dovrebbe poi essere afferrata dai proletari di occidente, dei paesi del capitalismo maturo e prossimo a putrefazione prima di essere posto a morte violenta!

Lo svolto non riguarda la via con la quale un paese capitalista soggiace al processo della rivoluzione socialista, ma quella di un paese di feudalismo putrefatto, nella rivoluzione borghese e popolare.

Quello di aprile è un potente colpo di barra alla nave bolscevica che stava cedendo alle ondate dell’opportunismo piccolo-borghese ed era uscita dalla rotta da seguire nella rivoluzione borghese, colpo di barra che esige nel timoniere forza di ercole ed occhi di aquila, ma non gli chiede di calcolare la nuova rotta incognita, bensì solo di obbedire e fare obbedire a quella segnata indelebilmente sulla carta di navigazione della storia.

Tutto quello che Lenin grida ed incide sulla carta di quelle storiche tesi è terribilmente contro quello che in Russia facevano, oltre ai partiti borghesi e piccolo-borghesi, anche quelli operai e lo stesso suo partito. Ma nello stesso tempo è ferocemente conforme a tutto quello che stava scritto, alla rotta data da Marx ed Engels nel 1848 e in cento svolti ribadita, e alla rotta tracciata da Lenin stesso dal 1900 in poi circa la Russia. I frettolosi che basiscono ogni volta che sentono parlare di una nuova, moderna direttiva, devono capire solo questo: noi difendiamo l’immutabilità della rotta, ma non la sua rettilineità. Essa è piena di difficili svolti. Ma non nascono nella testa e nel capriccio del capo, del leader, come dice Trotsky. Leader significa infatti guidatore. Il capo del partito non ha nelle mani un volante e davanti a sé l’arbitrio dell’angolazione dello sterzo, è il conducente di un treno o di un tranvai. La sua forza è che egli sa che il binario è determinato, ma non certo rettilineo ovunque, sa le stazioni dove passa e la meta dove conduce, le curve e le pendenze.

Non è certo solo a saperlo. Il tracciato storico appartiene non ad una testa pensante, ma ad una organizzazione che va oltre gli individui soprattutto nel tempo, fatta di storia vissuta e di dottrina (a voi la parola dura) codificata.

Se questo è smentito, siamo tutti fuori combattimento e nessun nuovo Lenin ci salverà mai. Andremo al macero stringendo i manifesti, i libri, le tesi in una non spartibile bancarotta.

Aprile dunque tratta una data e grandiosa situazione storica, che involge un anno cruciale e il fremere di centocinquanta milioni di uomini. Non la tratta come imprevista e nuova, e che imponga accostate di fortuna, ma la inchioda sulle linee deterministiche che la dottrina unitaria, e gittata di blocco, della storia e della rivoluzione, anzi delle rivoluzioni, ha scoperto. Le scoperte non evolvono o migliorano. Sono o non sono.

Perciò appare che Lenin giunga come quegli che dissolve e fracassa tutto. Distruggere è il mezzo solo marxista di condurre e di costruire. Per la melma borghese e piccolo borghese, come per tutte le classi che defungono, la sapienza è follia, la verità rivoluzionaria si tratta con la cicuta. Una volta almeno, agli scandalizzati benpensanti fu fatto ingozzare il contenuto del bicchiere. Sceso dalla macchina ferma, il meccanico rimosse l’ostacolo opportunista con pochi e tremendi colpi di scure. Il convoglio della storia proseguì inesorabile. Quella era la sola strada su cui poteva e doveva passare.

36 – Ributtare il difesismo!

1. (primo comma). Nel nostro atteggiamento verso la guerra, che da parte russa, sotto il nuovo governo Lvov e soci, rimane incontestabilmente una guerra imperialistica di brigantaggio, in forza del carattere capitalistico di questo governo, non è ammissibile la benché minima concessione al «difesismo rivoluzionario»[24].

Dopo quanto abbiamo ricordato reiteratamente non occorre glossa teorica. E chiaro che se la guerra era considerata imperialista dai marxisti anche per Inghilterra, Francia, Belgio, ecc., non si poteva nemmeno pensare che, imperialista sotto lo zar, cessasse di esserlo sotto un governo borghese democratico russo. Lo era anzi divenuta più squisitamente, perché quella forma di rivoluzione, che Lenin viene a disperdere, era un maggior legarsi agli interessi del grande capitale di occidente.

Interessa questo rilievo: i bolscevichi avevano fallito in dialettica rivoluzionaria. Non avevano capito che in Russia la democrazia si accettava, predicava e invocava come ponte inevitabile di passaggio, ma non come una situazione in cui l’opposizione tra Stato e proletariato dovesse allentarsi sol perché lo Stato passato alla borghesia avesse assunto forme parlamentari: essi esitavano a dare la parola disfattista nell’esercito combattente, solo perché a Mosca vi era Lvov e non Nicola. Colpo di ramazza.

1. (secondo comma). A una guerra rivoluzionaria che giusti fichi realmente il difesismo rivoluzionario, il proletariato cosciente può dare il suo consenso solo a queste condizioni:
a) passaggio del potere al proletariato e agli elementi poveri della campagna vicini al proletariato;
b) rinuncia effettiva e non verbale a qualsiasi annessione;
c) rottura completa ed effettiva con lutti gli interessi del capitale.

Qui deve notarsi anzitutto una formula non nuova affatto ma ben chiara, che sviluppa il classico concetto della dittatura di operai e contadini, circa gli «elementi poveri della campagna vicini al proletariato», da illustrarsi in seguito. Ma il rilievo importante è che, per rigore dottrinale non meno che per non bloccarsi in visibili situazioni ulteriori (che vedremo) Lenin, pur nell’urgenza enorme di reagire alla «simpatia per la guerra», che dopo febbraio minaccia di tutto rovinare, non usa la formula bruta che «siamo contro ogni guerra». E un fatto che qui l’estremismo semplicista è pronto a fare tutti e due gli errori: quello pacifista come quello militarista.

Altro evidente rilievo: la guerra russa nel 1939–45 non fu difesismo rivoluzionario, perché mancavano tutte le condizioni di Lenin: il potere non era più nelle mani dei proletari e dei contadini poveri – non vi era alcuna rinuncia all’annessione dopo la guerra, perché nella prima fase si sottomise la Polonia, nella seconda mezza Europa – non solo non vi era rottura con gli interessi del capitale, ma sfacciata alleanza, con quello tedesco per avere la Polonia, con quello anglo-americano per il resto.

37 – Il disfattismo prosegue

1. (comma terzo). Data l’innegabile buona fede di larghi strati di rappresentanti delle masse favorevoli al difesismo rivoluzionario, che accettano la guerra solo come una necessità e non in vista di conquiste, e dato che essi sono ingannati dalla borghesia, è necessario spiegare loro con particolare cura, con perseveranza e pazienza, il loro errore, spiegare loro il legame indissolubile tra il capitale e la guerra imperialista, dimostrare loro che senza rovesciare il capitale è impossibile terminare la guerra con una pace veramente democratica e non imposta con la violenza.

Lenin, che ha visto il difesismo infiltrato nello stesso suo partito, valuta questo pericolo di nazional-patriottismo «cosacco» in tutta la sua portata, e lo affianca genialmente al «pacifismo» della massa. Questa crede davvero che la guerra prosegua per Nicola, Guglielmo e Franzjoseph, e crede che i governi «democratici» faranno presto a chiuderla. Bisogna spiegare che è il contrario, che come dicemmo con parole nostre «la guerra si addice alla democrazia» più ancora che al dispotismo. L’ultimo passo è quello da saper leggere. Lenin sottolinea la parola impossibile, e se avessimo il testo vedremmo che la costruzione esatta è: non bisogna invocare una pace senza violenza, e democratica, perché in ciò è solo errore e illusione, ma invocare l’abbattimento del capitale. Una rosa di Stati capitalisti e democratici non è la garanzia della pace generale, ma la condizione dell’imperialismo. Tesi che è il contrario della tesi, in fondo comune a tutti i convenuti oggi a Ginevra, che si scongiuri la guerra con misure di «onestà politica»; che sia possibile la coesistenza pacifica, e cose simili… mentre son tutti lupi da brigantaggio.

1. (comma quarto). Organizzazione della più vasta propaganda di queste teorie in seno all’esercito. Fraternizzazione.

L’urgenza del momento fa sì che questo punto internazionale è segnato con pochi colpi di scalpello. Non si organizzava illegalmente il disfattismo militare, lo storno dell’arma per abbracciare il soldato nemico, per il motivo che il comando dell’esercito lo avevano Nicola e i suoi (il governo provvisorio voleva comunque digerire il granduca Michele!) ma lo si deve fare non meno vigorosamente sotto il comitato e il governo della Duma! I cosacchi ad honorem allibiscono, e tentano invano di nascondersi sotto i tavoli.

38 – Transizione: tra quali due tappe?

2. (primo comma). Il fenomeno che contraddistingue l’attuale storia russa è la transizione dalla prima tappa della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di preparazione ed organizzazione del proletariato, alla seconda tappa, che dovrà consegnare il potere al proletariato e agli strati poveri del ceto contadino.

Qui il sostantivo rivoluzione è scritto senza gli aggettivi che poniamo noi senza esitare. Si tratta, nella prima e nella seconda tappa, di rivoluzione borghese e democratica, di rivoluzione antifeudale e non socialista.

Un testo si interpreta, di norma, in quel modo che rende i vari passi e articoli suscettibili di essere logicamente ordinati. Ed i passi successivi, oltre che le cento formulazioni per quasi un ventennio della stessa tesi, lo mostrano chiaramente. Vi è di più: questa prima tappa che ha dato il potere ad una borghesia che da sola non potevavoleva fare la rivoluzione antifeudale, è stata possibile, come semplice prologo della rivoluzione russa antizarista da tutti attesa, solo per il fatto internazionale della guerra imperialista, che ha prestato forze e imposto compiti alla borghesia locale, e che ha – per il fallimento dei partiti europei sul punto della guerra – indotto smarrimento nel nascente proletariato russo, poggiando i semi-proletari sulla borghesia e non sugli operai.

Si tratta ora di recuperare. Non per fare di più di quello che ci prefiggevamo dal 1905, ma per rimediare all’insuccesso di aver fatto molto meno del programma teorico: rivoluzione capitalista con dittatura democratica del proletariato e dei contadini.

2. (secondo comma). Questa transizione è caratterizzata, da un lato, dalla piena legalità (la Russia è in questo momento, di tutti i paesi belligeranti, quello più libero), dall’altro dall’assenza di violenza contro le masse, e infine dall’atteggiamento di fiducia incosciente delle masse nel governo dei capitalisti, che sono i peggiori nemici della pace e del socialismo. Questa particolare condizione esige che ci sappiamo adattare alle condizioni speciali dell’immenso lavoro del partito in seno alle masse proletarie, appena svegliate alla vita politica.

I nostri maiuscoli sono i corsivi dell’originale. In questo passo sono i due corsivi: in questo momento, e: speciali, i più eloquenti. La dialettica insegna come molte volte importi più la risposta all’ipotesi che nega quella attuale, che la risposta a questa stessa.

Lenin è stato bersagliato dalle obiezioni che siamo in minoranza, che gli operai non capiscono (o, per tutti i cristi, i professori di marxismo?), che la forza è nelle mani del governo provvisorio e il Soviet è in maggioranza per lui e non per noi, che abbiamo il vantaggio di poterci riunire, parlare, fare i giornali, ecc… Ebbene, dice Lenin, che volete di meglio? È questa una ragione per scrivere e raccontare fesserie? Dobbiamo forse, per ringraziare di tali elargizioni il governo liberale, lustrargli gli stivali o quanto meno (quel gran broccolo di Nenni aveva già fatto scuola) fargli una opposizione leale e cavalleresca?

Dobbiamo certo profittare di queste larghezze: come Marx ha sempre detto, il proletariato viene, e malgrado essa, dalla borghesia vittoriosa educato, non con la scuola, ma chiamandolo alla lotta, alla vita politica. In questo lapsus di libertà dobbiamo risalire la corrente, aprire gli occhi alla massa, pigliare noi il sopravvento.

Badate: tanto è possibile in questo momento speciale. Qui il capo politico tiene ferme le mani ai suoi seguaci, ma il più grande capo teorico vede già chiaro lo sviluppo che si apre. Libertà, non violenza sulle masse: per ora. Ma direste ad esse che questa situazione è definitiva, è una vittoria assicurata della rivoluzione? Ben presto dovremo lottare sul terreno non legale! La rivoluzione deve ancora farsi (e non perché sia da farsi quella socialista) e tra mesi, se non saremo noi ad attaccare il governo borghese-opportunista, sarà lui a cacciarci fuori della legge! Nel luglio successivo Lenin doveva già nascondersi. Ma la massa aveva capito, ormai. Forse per una edizione delle «tesi»? Mai più. Erano le tesi che avevano capito la storia. E i ciechi fino allora, o dal fulgor democratico abbagliati, aprivano esitando gli occhi annebbiati.

39 – Il governo provvisorio alla gogna!

Tesi 3. Nessun appoggio al Governo Provvisorio che ha dimostrato il carattere menzognero di tutte le sue promesse, soprattutto di quelle riguardanti la rinuncia alle annessioni. Smascherare il governo, e non esigere da lui l’impossibile, che è come illudersi che questo governo, governo di capitalisti, cessi di essere imperialista.

È una risposta diretta al manifesto del partito in marzo e agli articoli della «Pravda», che consideravano il governo succeduto allo zarismo, pur non facendone parte, una conquista rivoluzionaria, e si limitavano ad invitarlo ad una serie di misure politiche «impossibili» come l’iniziativa della pace «democratica», senza dichiarare che era un governo mandato dal capitale internazionale a tener su la guerra, e che la guerra si doveva fermare a suo dispetto, ed abbatterlo, sola via verso la pace. Il governo Lvov non meno che i successivi esprimeva le esigenze della borghesia nazionale che si formava l’illusione di assidersi al banchetto della vittoria sulla Germania e alla spartizione del bottino imperialista, dando ad una Russia borghese e militarista un impulso fino ad allora non sognato. Esso ricambiava gli aiuti della Intesa con l’impegno di porsi attraverso la rivoluzione russa e il suo svolgimento fino all’estremo, possibile solo per la forza della classe lavoratrice. Esso contava di captare i capi operai come avevano fatto i governi di Francia, Belgio, Germania, e realizzava su tale via i primi successi con la complicità di menscevichi e populisti nei Soviet: questo nessuno lo aveva saputo dire prima delle «Tesi di Aprile». Nessuno aveva ancora voltato le terga alla gioia per la caduta dello zar: oggi in Italia il proletariato è immerso nella incoscienza perché nessuno (all’infuori di noi) ha ancora voltate le terga ad una molto più imbecille vittoria: quella su Mussolini, che non è nemmeno uno svolto della lotta storica tra le classi, ma solo una vicenda militare di guerra.

40 – Partito e soviet

Tesi 4. (comma primo). Rendersi conto che il nostro partito è formato da una minoranza, e per il momento debole minoranza, nella maggior parte dei Soviet dei deputati (delegati) operai, in confronto al blocco di tutti gli elementi piccolo-borghesi opportunisti, soggetti all’influenza della borghesia, e che estendono questa influenza al proletariato: dai socialisti-populisti fino ai socialisti-rivoluzionari e al Comitato di organizzazione (Čcheidze, Tsereteli, ecc.), a Steklov, ecc.

La situazione ben nota – maggioranza dei Soviet in mano ai socialisti di destra, delega da parte di questi del potere al Governo Provvisorio eletto in seno al Comitato delle opposizioni della vecchia Duma zarista – è scolpita da Lenin nella formula generale dell’opportunismo: la borghesia influenza e controlla i socialisti di destra, questi a favore della prima influenzano e controllano le masse operaie.

I rivoluzionari disapprovano la sottomissione del Soviet al Governo provvisorio, e devono combattere questo. Come devono comportarsi verso gli attuali dirigenti del Soviet, in blocco tra loro, al servizio di una politica capitalista e militarista? Denunziare forse il Soviet come tale? O invece dire che, dato che la «maggioranza democratica» nel seno del Soviet vota per appoggiare il governo borghese, questo va ratificato in omaggio alla solita «unità di fronte del proletariato»?

A una tale alternativa Lenin alza le spalle. Nessuna delle due.

Tesi 4. (comma secondo). Spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono la sola forma possibile di governo rivoluzionano e che, per conseguenza, il nostro compito, sinché questo governo resta sottoposto alla borghesia, può essere solo quello di spiegare alle masse pazientemente, sistematicamente, con perseveranza, l’errore della tattica dei Soviet, spiegazione che si adatti soprattutto ai loro bisogni pratici.
Finché siamo in minoranza facciamo un lavoro di critica e di chiarimento degli errori, affermando nello stesso tempo la necessità del passaggio di tutto il potere di stato ai Soviet dei deputati operai, affinché le masse si liberino con l’esperienza dei loro errori.

Al solito poggiare sul sottolineato: sola forma possibile. Le tesi sono queste: Ogni governo e potere fondato fuori dei Soviet non è rivoluzionario. Solo un governo fondato sulla maggioranza del Soviet può essere rivoluzionario. Ma non si dice: I Soviet esprimono democraticamente la volontà, la libera opinione dei lavoratori: dunque qualunque governo su essi fondato è rivoluzionario, è conforme agli interessi proletari, e va appoggiato. Questo sarebbe falso in tutte lettere. Oggi i Soviet esprimono l’opinione di un proletariato ingannato, traviato: essi non decidono in senso rivoluzionario, e nemmeno in quello dei «pratici bisogni» delle masse.

In tal caso non si butta via come rifiuto il Soviet, questa forma storica espressa dalla rivoluzione borghese russa, diretto avviamento ai compiti del proletariato, né lo si attacca con la forza: si denunzia sistematicamente l’errore.

Quale la consegna di questa dura campagna? La notissima parola: tutto il potere di stato ai Soviet.

Tutto significa che il Soviet non riconosce altri organi del potere politico da lui non emanati; che non accetta spartizioni di poteri, in quanto tali spartizioni sono pure rinunzie ad ogni potere.

Quindi (dialettica!) noi riconosciamo il Soviet perché sola forma possibile di governo rivoluzionario. Lo riconosciamo in principio anche quando la sua maggioranza è contro di noi, e non lo dichiariamo nemico. Non gli diciamo: o passi nelle nostre mani, o ti attacchiamo. Gli diciamo: purché si governi solo col Soviet noi riconosceremo questo governo anche come minoranza, e anche se in maggioranza saranno i menscevichi e populisti. Ma esso deve reclamare tutto il potere, e quindi sconfessare il comitato della Duma e il gabinetto Lvov, rompere i ponti con esso e non negoziare il potere con partiti a base non esclusivamente di lavoratori. I menscevichi e gli esserre hanno una scelta: o coi borghesi nel governo provvisorio, o con noi nel Soviet che abbia tutto il potere, e stia alla testa dello Stato. Questo lo capiranno bene le masse dirette dai socialisti destri.

41 – Tattica impeccabile

Quando Lenin spiega questo ai suoi compagni di partito, egli non tace che si sa bene che cosa gli opportunisti sceglieranno: il governo provvisorio e non un governo del Soviet coi bolscevichi; un compromesso per cui non il Soviet sia il solo organo di potere, ma restino i ministeri borghesi, e non la denegazione di ogni mandato di potere a uomini politici designati fuori del Soviet. Quando questa scelta sarà chiara, la maggioranza dei Soviet abbandonerà come traditori gli opportunisti, e questi, insieme ai borghesi, saranno sbaragliati, in quanto non essi saranno di mezzo al momento dell’inevitabile scontro in forza tra organi del potere borghese e Soviet.

Lo svolgimento della rivoluzione in Russia confermò la giustezza di tale visione in maniera tanto potente e luminosa, che disgraziatamente si perse di vista che non si trattava di un nuovo modo di fare la rivoluzione socialista. Questo modo non sarebbe stato nuovo per nulla, perché corrispondeva alla politica ormai rancida di legalitari, riformisti, revisionisti, fautori della collaborazione tra piccoli borghesi e lavoratori, che avevano rinnegato su tutta la linea la concezione di Marx della rivoluzione con cui si passa dal modo di produzione capitalista a quello socialista.

Quella tattica Leniniana, in quel quadro storico, la ripetiamo impeccabile. Il quadro è quello della Russia degli zar che esce dalle forme feudali di produzione, il suo tempo è la grande lotta che va dal 1880 al 1917.

Quella tattica è la giusta, ed è ineccepibile proprio perché è quella da seguire in una rivoluzione antifeudale, in una rivoluzione borghese.

E qui noi ci uniamo ad un argomento futuro; la lotta che la sinistra italiana svolse dal 1918 al 1926 ed oltre, ed anche con Lenin, quando si volle usare quella tattica per la rivoluzione proletaria nell’Europa capitalista.

42 – Abbasso il parlamentarismo

Tesi 5. (comma primo). Non repubblica parlamentare – il ritorno a questa forma di governo, dopo il Soviet dei deputati operai, sarebbe un passo indietro – ma Repubblica dei Soviet dei deputati operai, salariati agricoli e contadini, nell’intero paese, dal basso in alto.

Crediamo che fu qui che scoppiò la bomba atomica. Eppure, nessuno meglio di Lenin lo ha provato, sono le parole classiche marxiste dal 1848, anche se queste con l’anticipo di settant’anni descrivono tassativamente solo le forme da distruggere e non ancora quelle che le verranno a surrogare. Chi dalle prime battute non ha capito che il marxismo culmina nella distruzione del parlamentarismo democratico, non è tipo di marxista, ma modello di pezza da piedi.

Veniamo tuttavia nella contingenza storica. Abbiamo mostrato come ragionavano i più dei bolscevichi. Il governo provvisorio non è il nostro governo, ma che gli possiamo imputare, se è provvisorio? Ha il mandato di indire – bella schifezza – libere elezioni, la cui sete tormenta da un secolo i russi: dopo l’assemblea costituente se ne andrà e farà le consegne a chi avrà la maggioranza parlamentare: dunque fino allora prepariamoci alle elezioni, e basta.

Qui Lenin come dissero poi i fessi dovette davvero fare il pazzo. Per ora governa la borghesia, il Soviet sta a guardare e delega il potere sostanziale al governo provvisorio. Poi se nelle elezioni della Costituente, come è cosa ben sicura, borghesi e loro servitori, tutti fautori della guerra, sono maggioranza, il potere definitivo passa al Governo parlamentare, e il Soviet che fa? Si accorge che il provvisorio era lui e si scioglie, perché sulle garanzie parlamentari si può davvero dormire! Raccomanda ai proletari di combattere eroicamente al fronte contro i tedeschi, si guarda bene dallo scandalosamente organizzare coi deputati degli operai e dei contadini quelli dei soldati…

Il Soviet per tal modo sarebbe stato un organo della lotta e del tempo rivoluzionario, e la sua vita limitata al tempo della lotta. Il suo compito storico sarebbe stato di condurre le masse lavoratrici nella insurrezione: versato il loro sangue generoso, queste sarebbero rientrate nei ranghi, e il potere legale avrebbe senza disturbi governato.

Qui si scorge la grandezza di Lenin. I Soviet sono non l’organo di lotta della rivoluzione, ma molto di più: la forma del potere statale rivoluzionario. Essi sono quello che era contenuto nelle parole: dittatura democratica. Il proletariato assume il potere nel corso della rivoluzione antifeudale, attua la trasformazione sociale che in sostanza è creazione di capitalismo, ma in questo tempo non toglie solo il potere alla borghesia e ai grandi terrieri, ma lo organizza in una forma che li esclude del tutto anche dal diritto di rappresentanza.

Sola delegazione politica sarà quella nel seno della rete dei Soviet dalla periferia al centro; su questa trama poggerà lo Stato; la borghesia non solo non avrà il potere ma non figurerà nemmeno come un partito di opposizione.

Eccola la tremenda bestemmia. La forma propria della rivoluzione antifeudale russa non sarà un’assemblea parlamentare come nella rivoluzione francese, ma un organo diverso, fondato solo sulla classe dei lavoratori della città e della campagna.

Non solo cade il pretesto di aspettare le elezioni della Costituente, ma cade la necessità di questa: il ciclo si chiuderà a suo tempo con la dissoluzione coatta. Si tratta di una tutta diversa strada: conquistare nel Soviet una maggioranza bolscevica, lavorando legalmente (1848: organizzare il proletariato in partito politico), poi conquistare tutto il potere al Soviet (organizzare il proletariato in classe dominante) evidentemente abbattendo con la forza il potere del governo provvisorio.

Nella rivoluzione socialista il proletariato abbatterà il potere del governo stabile parlamentare e comunque borghese e organizzerà la dittatura dei soli salariati condotta dal partito comunista.

Qui – non dimenticarlo mai – la storia cerca ancora le forme del potere proletario nella tardiva rivoluzione democratica.

43 – Polizia, esercito, burocrazia

Tesi 5. (comma secondo). Soppressione della polizia, dell’esercito e del corpo dei funzionari (cioè: sostituzione del popolo armato all’esercito permanente).

Praticamente il governo di febbraio aveva cambiato i ministri, ma non la rete, l’ingranaggio dell’amministrazione nazionale. I Cento Neri erano scomparsi, ma erano, più che una polizia ufficiale, un partito-setta di reazione. I generali, gli alti funzionari centrali e locali erano ben poco cambiati da quelli del tempo dello zar. La rivoluzione anche in quanto borghese era in questo incompleta. Se si doveva assumere il potere politico anche per compiti sociali corrispondenti alla liquidazione del feudalesimo e non ancora del capitalismo (che sarebbe stata possibile solo con la rivoluzione di Europa) bisognava, tuttavia, ridurre in frantumi il tradizionale apparato dello Stato.

Il potere proletario dei Soviet non poteva fondarsi che sulla classe operaia in armi. Non il cittadino avrebbe fatto parte dell’esercito, ma i borghesi e possidenti ne sarebbero stati fuori, come dagli organi rappresentativi, e ciò al fine di reprimere ogni tentativo controrivoluzionario di guerra civile.

È solo in una rivoluzione che resta socialmente solo capitalista, ma in cui il proletariato perde il controllo, che il classico esercito permanente nazionale di tipo napoleonico ridiventa il perno della forza statale.

Tesi 5. (comma terzo). Eleggibilità e revocabilità, in ogni momento, di tutti i funzionari; i loro stipendi non devono essere superiori al salario medio di un buon operaio.

Questo principio sostenuto da Lenin instancabilmente è quello ben noto della Comune di Parigi. Esso è un principio per economia di transizione in cui vige in pieno il sistema salariato. Ma in esso è un grande passo verso l’eliminazione della divisione sociale del lavoro, della suddivisione della società tra quelli che vivono nell’incertezza e quelli che hanno «una carriera». Abolire le carriere è consegna di una economia in cui il consumo base è garantito a tutti, sia pure con limiti determinati da piani. Oggi invece la borghesia tende a fare il contrario: non abolire quelli che hanno la carriera assicurata, ma rendere tutti carrieristi, specie gli operai industriali.

Infatti l’indirizzo di Lenin per cui l’amministratore (coincidente col rappresentante politico) era un semplice produttore momentaneamente spostato da una decisione del suo Soviet a quel compito sempre revocabile, è stato abbandonato quando la Repubblica, che si chiama tuttora dei Soviet, è diventata uno Stato capitalista retto dalle forze sociali del capitale e non dai lavoratori, andando fatalmente, per le vicende mondiali, in senso opposto a quello per cui si passa da una dittatura di lavoratori che amministra la trasformazione capitalista ad una che amministri la trasformazione socialista.

Anche col compito del 1917 di liquidare il feudalismo dalle sue radici profonde, anzi ancor di più, occorreva quella garanzia. Il lavoratore delegato a governare e amministrare una società in cui ancora borghesi e interessi borghesi sfruttano il lavoro dei suoi pari, non deve essere esposto a divenire un privilegiato e un possibile strumento della forza capitalistica: ciò che, per avere ineluttabilmente dilagato nella massiccia assoldatura di burocrati, è su scala generale in seguito avvenuto.

44 – La frale natura umana?

Come sarebbe stato in questo Lenin un illuso, se antevide con tanta sicurezza eventi immensi e incompresi ancora? Avrebbero ragione i soliti scettici che risolvono quesiti del genere con la formula del potere che non resiste alla fame di ricchezza, più che di vanità, e che non può diventare altro che sfruttamento economico e dispotismo nel senso volgare? Con l’inerenza di questo processo, in qualunque clima storico, a dati insuperabili della vessatissima «umana natura»?

Non è certo la prima volta che mostriamo la vile inconsistenza di queste boiate, e ci battiamo contro questa critica deteriore delle cause che hanno ucciso una grande rivoluzione. Questa non è del resto morta, ma si è incanalata in una via meno rapida storicamente di quella vista da Lenin, in quanto sono mancate proprio le condizioni da Lenin poste come necessarie.

La rivoluzione russa ha percorso un ampio arco di storia: dalla rovina di un sistema feudale ben più fradicio di quello di Luigi XVI, alla instaurazione di un capitalismo mercantile messo nelle sue forme economiche al passo con il capitalismo elefantiaco dell’occidente, incarnato nella macchina statale in quanto meglio vi succhia profitto, e col corteggio di una burocrazia più corrotta ancora dell’ambiente delle corti feudali; che ha una scala di privilegi ed appannaggi ben più scandalosa di quelle.

Eppure l’epoca della prestazione eroica per il potere rivoluzionario – ed è forse più stupefacente l’accettazione della miseria austera che quella, tanto comune, della rinunzia alla vita – non sarà propria soltanto della rivoluzione proletaria, è stata propria di tutte le rivoluzioni, anzi di tutte le forme sociali di produzione, ed è facile leggerlo nella storia, anche nel mito, cui appunto i fessi sorridono credendo che le leggende che circolano le abbia un giorno sfornate di sana pianta un incredulo del loro calibro.

Non risaliremo a Licurgo che sorbiva tra i suoi soldati e contadini il brodetto spartano, al re Agide che divise loro tutti i suoi beni, non ricorderemo i digiuni e le rinunzie di giudei, cristiani e maomettani delle epoche rivoluzionarie, né gli episodi della storia romana su Cincinnato, generale invincibile ma insensibile alle seduzioni di potere e fasto, legato alla vanga del suo campo.

La stessa rivoluzione borghese ha avuto i suoi austeri campioni che hanno lasciato titoli e appannaggi per abbracciare la causa nuova. Il più illustre, Robespierre, fu distinto più che da tutto dal nome di Incorruptible. Ogni nazione ebbe i suoi Savonarola della politica, dalle autoregole inflessibili, quando il moderno capitalismo sorgeva. Ad esempio la borghesia liberale italiana della vecchia intransigente destra storica vanta da Sella in poi una rosa di veri digiunatori al potere, inflessibili con se stessi prima che con altri.

La grande generazione bolscevica aveva questi uomini pronti a sobbarcarsi, per poco più del formaggio e pane della lunga emigrazione, ad amministrare una rivoluzione, e per di più una rivoluzione fatta dai poveri, per fondare una forma sociale che avrebbe portato in alto i ricchi. Chi ride di quel chiodo dello stipendio operaio di Lenin è un poveruomo che lo ha solo sognato nel fasto di un satrapo e non ha mai visto il suo abito frusto: che non ha mai visto lo stesso Zinoviev, Bucharin, e tanti altri compagni; che non ha conosciuto Nadežda Krupskaja, la moglie di Lenin, che non si poteva dire vestita peggio della sua cameriera perché non ha mai avuto cameriera, e che non si è mai posta in evidenza in nessuna forma, pur potendo, come teorico marxista, dare sulla voce ai più alti esponenti[25].

La formula di Lenin anche qui era la giusta. La storia ha preso altra via, confermando la sua dottrina in pieno, ma portando in primo piano i moderni satrapi della politica dei super-stipendiati e dei rammolliti da lusso e da comfort crassamente borghese. Fatto che è efflorescenza di muffe, non forza e causa di storia, episodio proprio delle epoche fetenti, e delle forme di produzione che devono morire.

45 – Le misure sociali nettamente borghesi

Fermeremo la nostra analisi, a coronamento di quanto ci siamo proposti di dimostrare, alle tre tesine sulle misure economico-sociali.

Non abbiamo bisogno di commentare la 9 sui compiti, il programma e il nome del partito, né la 10 su «Rinnovare l’Internazionale» poiché il loro costrutto è al centro di tutte le nostre non brevi trattazioni,

Tesi 6. Nel programma agrario, spostare il centro di gravità sui Soviet dei deputati dei salariati agricoli. Confisca di tutti i beni dei proprietari fondiari. Nazionalizzazione di tutte le terre del paese: le terre sono messe a disposizione dei Soviet locali dei deputati dei salariati agricoli e dei contadini poveri, da formare ovunque. Creazione in ogni grande possedimento di aziende modello poste sotto il controllo dei Soviet dei deputati dei salariati agricoli e coltivate per conto della comunità.

La cosa è chiara soprattutto per chi ha seguito le nostre esposizioni delle dibattute questioni agrarie[26]. Lenin vede in primo luogo il salariato agricolo, puro proletario e non contadino. Poi il contadino povero. Povero vuol dire che ha la sua forza familiare di lavoro, poca terra, e niente capitale di esercizio: non può vivere del prodotto del suo lembo e deve saltuariamente vendere al borghese di campagna il suo lavoro. Formula non della spartizione o della municipalizzazione ma della nazionalizzazione, ossia confisca della rendita fondiaria da parte dello Stato: misura tanto borghese che fu proposta da Ricardo. Disposizione del possesso non al singolo esercente, ma al Soviet. Lotta contro la piccola coltura con grandi aziende modello: non sono ancora dette statali ma solo controllate dal Soviet: quindi è ammesso il capitalismo agrario.

Tesi 7. Fusione immediata di tutte le banche del paese in una sola banca nazionale posta sotto il controllo dei Soviet dei deputati operai.

Anche questa misura è classica del periodo borghese e non pochi Stati l’hanno in effetti e in varie forme realizzata. Vi sono banche dove vi è capitale aziendale e mercantile. Anche qui il capitale non è confiscato ma controllato. Lo Stato è banchiere e privati sono i suoi clienti.

Tesi 8. Non la «instaurazione» del socialismo, come nostro compito immediato, ma per ora soltanto l’immediato controllo della produzione e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei deputati operai.

Questa tesi riguarda palesemente l’economia urbana, industriale. Essa non è, in coerenza a tutto quanto precede, una rivendicazione da attendere dal governo provvisorio che debba includerla nel suo programma, ma un compito dato al potere proletario, e evidentemente susseguente a quelli:
a) di conquistare il Soviet alla formula: tutto il potere, id est al partito comunista;
b) di rovesciare il governo provvisorio e togliere di mezzo la costituente;
c) di condurre avanti il disfattismo della guerra imperialista.

Eppure questo programma di trasformazione sociale, presentato da Lenin nell’Aprile 1917 come programma della seconda tappa della rivoluzione, non presenta alcun articolo che conduca alla trasformazione socialista. Lenin dice che noi non instauriamo il socialismo, parola che prende con le molle, perché nessun governo «instaura» il socialismo; la dittatura proletaria vera e pura servirà a disperdere i rapporti e le forme borghesi di produzione: compito distruttivo, non instaurativo. Nella successiva conferenza di fine Aprile, Lenin spiegherà ancora meglio il tutto, e con parole ancora più recise.

46 – Altri falsi dispersi

Abbiamo così messo a punto le «Tesi di Aprile» nel loro quadro e nel loro tempo, e provato che lo svolto impresso da Lenin verteva unicamente sul ritorno più energico ad una strategia rivoluzionaria, in seno al processo complicato e arduo della liquidazione di una Russia feudale e zarista. La rivoluzione si era, come abbiamo premesso, divisa in due tappe rispetto alla classica attesa dei bolscevichi, non perché fosse stata ancora aggiunta una tappa ulteriore ma perché la prima tappa prevista, per le remore della situazione, e un po’ per debolezza rivoluzionaria, si era spezzata in due. La tappa di febbraio era una falsa rivoluzione, non una rivoluzione solo borghese. Essa, se la storia non avesse avuto ben altro sbocco, conduceva diritto alla controrivoluzione, ossia non solo al controllo da parte della borghesia mondiale, ma perfino, e nel succedersi delle intricate vicende della guerra, a tentativi di controrivoluzione zarista.

A questo pericolo ovviarono le «Tesi di Aprile». E quindi altro enorme falso dello stalinismo (dopo aver tentato di attribuire a Lenin la paternità della dottrina: costruzione del socialismo nella sola Russia, al tempo delle tesi del 1914 contro la guerra imperialista e il tradimento opportunista, che concernevano la distruzione della guerra col disfattismo in ogni paese e anche in uno solo e anche in Russia, ma non annunziavano costruzioni di sorta) di attribuirgliela come se avesse enunciata una tale enormità al tempo del suo ritorno in Russia nell’aprile famoso.

Ecco un saggio di come si esprime una pubblicazione di fonte stalinista, a fianco dei suoi riporti dei testi inconfondibili di Lenin: «Ciò che contraddistingueva la situazione era dunque il passaggio dalla rivoluzione democratica borghese alla rivoluzione socialista, o come diceva Lenin la trasformazione della rivoluzione borghese nella rivoluzione socialista». Ma le parole di Lenin sono lì sopra:
«Il fenomeno che contraddistingue l’attuale storia russa è la transizione dalla prima tappa della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di preparazione ed organizzazione del proletariato, alla seconda tappa che dovrà rimettere il potere al proletariato e agli strati poveri del ceto contadino».

Questo secondo testo sarà a suo luogo anche utilizzato. Ma la causa è istruita. Il principale difetto, dice perfino Lenin nella successiva conferenza del partito (vedi il par. 49 più oltre), è che i socialisti pongono la questione odierna in una maniera troppo generale: passaggio al socialismo. Noi non possiamo pretendere di instaurare il socialismo: sarebbe la più grande assurdità. La maggioranza della popolazione è di piccoli coltivatori, di contadini che non possono nemmeno pensare al socialismo. Noi dobbiamo «preconizzare» il socialismo.

La dialettica della storia è in questo: quegli che dichiarava di non voler ancora passare al socialismo, era il più grande dei rivoluzionari. Quelli che dicono di aver avuto da lui la consegna di costruirlo, e affermano di averlo fatto, non sono che dannati borghesi.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Lenin, «Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale», in «Opere», XXIV, pagg. 11–15. Qui e nel seguito (par. 36–45) se ne dà una parafrasi. [⤒]

  2. Basti citare il suo vigoroso discorso al XV Congresso del Partito nel dicembre 1925, in tutto degno di figurare accanto a quelli di Zinoviev e Kamenev come grido d’allarme per il corso preso sotto la direzione staliniana. riprodotto solo parzialmente in «La Russie vers le socialisme. (La discussion dans le Parti Communiste de l’U.R.S.S.)», Parigi 1926, pag. 181–194. [⤒]

  3. Esse avevano occupato i numeri dal 21/1953 al 12/1954 de «Il programma comunista», ma si vedano in particolare: «Prospetto introduttivo alla questione agraria» di quel primo numero, «Stregoneria della rendita fondiaria» nel nr. 22/ 1953, «Miseranda schiavitù della schiappa» del nr. 11/1954, e «Codificato così il marxismo agrario», del nr. 12/1954. Il tema venne poi ripreso in numerose riunioni generali e in testi singoli. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 14, Luglio 1955

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