Il nostro lavoro non è che un tentativo verso la stesura, non di una storia (nel senso che per i benpensanti si indica col termine di storiografia) ma di alcuni capitoli di scienza storica, termine che per tutto il moderno pensiero è una bestemmia. Il modernismo ostenta di aver cacciato da tutte le scienze, anche naturali e non umane (per il marxismo la scienza della specie umana è una scienza naturale), causalità e determinismo, solo perché molti problemi – da tempo per nulla recente – si affrontano e risolvono, quanto ad apparato matematico, col metodo probabilistico. Ossia non si assume di aver determinato, mediante leggi scoperte, il valore preciso del dato incognito, ma solo di avere stabilita la conoscenza di un certo campo di valori in cui il dato che si domanda dovrà con buona probabilità «aggirarsi». A una conoscenza del futuro (meglio dire dell’incognito, potendo essere una incognita del passato cento volte più difficile a calcolare di una del futuro: poniamo la composizione chimica del nero che Cleopatra si dava sotto gli occhi, e l’ora fino al minuto secondo del prossimo eclisse di luna) rigorosa e puntuale, obbligata e certa, se ne sostituirebbe una elastica ed approssimata. Non qui svolgiamo il punto che questa alternativa si riduce ad una masturbazione filosofica da tempi smidollati: la certezza assoluta della soluzione non è che una finzione di comodo, una convenzione, che nella prassi della specie ha fatto sempre buon gioco, figliando fiammeggiante potere di conoscenza, come il classico buscar oriente per occidente, come l’«altissimum planetam tergeminunt observavi» di Galileo, che primo adocchiò l’anellato Saturno. La sicurezza matematica non è che un espediente per evitare di pigliar cantonate troppo in pieno; la collettiva dotazione di esperienza della specie, che chiamiamo nella storia religione, filosofia, empirismo, scienza, è un edificio elevato con tante pietre, su ognuna delle quali si può scrivere: individuale fesseria.
È così che a noi parrebbe un gran risultato se si verificasse la previsione che la terza guerra mondiale avverrà intorno al 1975, a tre quarti del secolo, e non sarà preceduta da una generale guerra civile tra proletariato e capitalismo nei paesi avanzati di Occidente, offrendo soltanto la possibilità di questo grandioso evento. E saremmo quindi disposti ad ammettere che una tale cifra non si può ricavare da nessuna equazione (troppo vaga quella 1945 – 1918 + 1945 = 1972) ed è soltanto il risultato di induzioni probabilistiche. Nel «Dialogato»[97] mostrammo che in tale profezia collimavano il pensiero di Stalin, quello dell’economista liberale Corbino, e quello della assai piccola ed assai anonima sinistra marxista ortodossa.
Questa digressione serve al rilievo che naturalmente siamo anche noi influenzati dal modo tradizionale di trattare l’argomento, e come siamo vittime dell’abuso dei nomi dei personaggi illustri, così lo siamo di quello della mania delle date «matematiche».
Trattando Russia svolgemmo alla riunione di Bologna una prima parte che saggiava l’esposizione marxista della storia di quel paese fino alla grande Rivoluzione. Nelle riunioni di Napoli e Genova siamo passati al tema dell’attuale struttura russa, e il contenuto di tale esposizione si divide in due parti: la lotta per il potere nelle due rivoluzioni, e quella più specialmente diretta al tema: ossia a provare la tesi che la società russa di oggi è capitalista in giovane sviluppo, non socialista.
Giunti al 26 ottobre / 8 novembre del 1917 dovremmo chiudere di colpo il primo argomento: i bolscevichi hanno preso il potere. Eccoli alla prova: Come hanno governato? Come hanno attuato il loro programma? È indubbio che nel marxismo il possesso del potere è un mezzo, non un fine – una partenza, non un arrivo. Ma numerosi argomenti restano, che sono ancora nel raggio della lotta per il potere, e non in quello della forma sociale, cui il trapasso di esso ha aperta la strada.
I marxisti non avrebbero ragione di commemorare date a giorni fissi, è sicuro, ma non è delitto se lo fanno: quella tale avanzata alla conoscenza di specie, collettiva, si è fatta, come testé ricordato, congegnando insieme materiali eterogenei, piccole sciocchezze e grandi ingenuità, soprattutto clamorose contraddizioni, girando in labirinti ove non si incontrano Arianne. E solo alla fine di una corsa millenaria, e molto oltre questo nostro conato, che non può procedere senza intoppi e insuccessi, il «Filo del Tempo» sarà trovato.
Da molto più di un secolo lo si snoda dal fuso, ma solo in esso sta il miracolo, che più dei luminari del mondo ufficiale può segnare la giusta via il fesso qualunque; per la superiorità che ha l’ultimo timoniere con l’occhio alla bussola magnetica sul dantesco magnifico Ulisse, che non fermò il «folle volo» verso l’ignoto, «per seguir virtute e conoscenza», fino che il mare, sopra di lui coi suoi sacrilego, non fu richiuso.
Ha quindi una grande portata il martellare la data del 26 ottobre vecchio stile come uno svolto istantaneo, perché così si sottolinea una primaria lezione storica: quella contenuta nelle lettere di Lenin che invocano di non più attendere un giorno e nemmeno poche ore per rovesciare in Pietrogrado il governo Kerenski. In effetti questa grande verità, ossia che il partito deve saper scorgere il momento, determinato nella storia, tra i rarissimi in cui la prassi si capovolge e la volontà collettiva gettata nella bilancia la fa traboccare, non toglie che la lotta continui a lungo dopo quello svolto, eretto a simbolo: nel resto della Russia, nelle immense province, tra i reparti militari.
E non toglie che, anche dopo la prima conquista ripercossa dalla capitale a tutto il paese ancora libero dalla tedesca invasione, la lotta continui nella liquidazione della guerra, nella eliminazione dell’ultimo partito alleato, il socialista rivoluzionario di sinistra, e della Assemblea Costituente, e nella resistenza di vari anni a ribellioni interne e a spedizioni di guerra civile scagliate sulla nascente repubblica proletaria.
La lezione contenuta in questi dati della storia è tanto più grandiosa, in quanto il contenuto di queste imprese è totalmente di classe, e consacra il nome di socialista e comunista alla rivoluzione di Ottobre e allo Stato dei Soviet diretti dal partito bolscevico, in tutta la sua azione politica, in quanto ed in tanto questa ha un centro solo, non in un sistema di misure per governare la Russia e amministrarla, ma nella inesausta lotta per la Rivoluzione comunista di Europa.
Più dura, difficile e complessa è la lezione che deriva dallo studio delle misure, per così dire, di amministrazione interna.
Più ardua la sua utilizzazione rivoluzionaria, che si raggiunge solo compiendo lo sforzo di ammettere che un tale compito «russo», quando la rivoluzione occidentale declina, ha per massima parte contenuto non socialista.
Importano dunque molto ancora vari argomenti, che precedono una tale dimostrazione.
Lo stato di classe è una macchina immensa, caratterizzata dalla esistenza di un «comando» centrale unico. È venuto il momento, come dice Lenin alla fine del classico «Stato e rivoluzione», di giustapporre la prassi alla dottrina. Ogni stato è definito, in Engels, da un preciso territorio e dalla natura della classe dominante. È dunque definito da una capitale dove si aduna il governo, che è in marxismo definito
«il comitato di amministrazione degli interessi della classe dominante».
Non sfugge a tale definizione il trapasso dal potere feudale a quello borghese nemmeno in Russia: una macchina di dominio deve sostituire un’altra, e ciò può avvenire solo con una cruenta lotta, che si svolge nel febbraio del 1917. Ma è inevitabile che in questa fase venga a galla la teoria politica, del tutto e diametralmente opposta, che in tutte le rivoluzioni storiche ha dissimulato il carattere del passaggio da feudalesimo a capitalismo. Si afferma di distruggere il dispotico potere centrale di una classe, che si configura in quello di un monarca e di una dinastia, non per sostituirvi il governo di una nuova classe dominante contro un’altra, ma per costruir uno Stato, un governo ed un potere che non esprimano la soggezione di una parte della società ad un’altra classe governante bensì si fondino su «tutto il popolo».
Il fatto più grande storicamente è che, là dove fatalmente si dovevano pagare i maggiori tributi a questa interpretazione democratica della rivoluzione, che come nelle rivoluzioni europee si adagiava bene su un grande campo di reali esigenze – ed anche tenaci illusioni – di vasti strati sociali, ivi una serie di fatti storici positivi mise in luce, per il mondo proletario, la robustezza della dinamica rivoluzionaria marxista fondata sulle classi, la dittatura di una di esse, la violentazione delle libertà delle altre e dei loro partiti fino al terrore, fatto del resto inseparabile da tutte le rivoluzioni anche puramente borghesi.
Uno dei primi di questi fatti è la rottura del vecchio apparato statale che la classe assurta al potere deve operare senza esitazioni: lezione già tratta da Carlo Marx dalle lotte in Francia, e dalla Comune di Parigi, che si installò contro Versailles all’Hôtel de Ville, pose macchina contro macchina armata, soffocò anche nel terrore, prima di venire assassinata, i fisici membri della classe nemica, ed ebbe dal proletariato rivoluzionario mondiale, dopo vinta, il formidabile attestato che, se ebbe colpe, non fu di essere stata troppo feroce ma di non esserlo stata abbastanza.
Non è la teoria che qui si debba ancora una volta disegnare, ma solo si devono presentare le sue conferme, le cui notizie facevano balzare come ebbri di luce e di gioia i rivoluzionari di occidente.
Il governo borghese è arrestato al Palazzo d’Inverno, ma i suoi uffici non vengono, col loro personale, posti agli ordini di nuovi capi di governo; essi sono chiusi e la guardia rossa bivacca nelle sale. Il nuovo governo si forma fin dalle prime cellule con nuova materia-uomo all’istituto Smolny, sede dei bolscevichi. Trotsky racconta un episodio, che voleva sfottere Stalin ma che a tutti fa onore. Questi era stato nominato Commissario del Popolo alle Nazionalità (il nome di Commissario del Popolo al posto di Ministro fu, pare, proposto da Lenin: indubbiamente esso definisce – sunt nomina rerum – una dittatura democratica: in Germania sarebbero stati Commissari operai, o del proletariato). Ma quel che è grande è il piantar baracca nuova, bruciando la vecchia. Un compagno bolscevico di tacca comune, ma di pasta adatta, apostrofa per le stanze dello Smolny Giuseppe Stalin: Hai un commissariato, compagno? No, rispose il secondo. Lasciati servire: non mi serve che un mandato. Stalin lo scrisse su un pezzo di carta e lo fece firmare nella sala del Consiglio (una comune stanza ove un tramezzo di legno divideva dal locale del dattilografo e del telefono). Pestkovskij in una delle stanze dello Smolny già occupata trovò un tavolo libero e lo spinse contro il muro, attaccando a questo una scritta: Commissariato del Popolo per le Nazionalità. A tutto questo aggiunse due sedie.
«Compagno Stalin, non abbiamo un soldo sul nostro conto» – «Occorre molto?» – «Per cominciare un migliaio di rubli» – «Andate da Trotsky: ha del danaro che ha preso al Ministero degli Esteri».
Aggiunse Pestkovskij che con regolare ricevuta prese da Trotsky in prestito tremila rubli, che probabilmente mai il Commissariato delle Nazionalità ha restituito a quello degli Esteri…[98].
Sulle tombe dei comunardi fucilati aleggia l’ineguagliabile elogio funebre di Marx, che li assegna alla storia, ma li accusa di non avere, ingenuamente, fatto saltare i forzieri della Banca di Francia.
La Rivoluzione non ha il diritto di avanzare a mani pulite.
La rivoluzione liberal-democratica del 19 febbraio, sulla traccia storica di ogni rivoluzione borghese, convocò un’assemblea Costituente elettiva di tutta la Russia, che doveva promulgare la nuova Costituzione e le leggi parlamentari. Nel travagliato periodo che seguì, le elezioni venivano di continuo dilazionate dal governo provvisorio, anche quando divenne di coalizione tra borghesi e socialisti della destra opportunista.
Mentre i bolscevichi conducevano la lotta nei Soviet, ed anche quando rompendo gli indugi la trasferirono sul campo della guerra civile, mai essi sconfessarono ufficialmente la Costituente né annunciarono che ne avrebbero disertate le elezioni. Pure agitando la formula del potere ai Soviet, essi non dissero pubblicamente che il governo stabile non dovesse essere designato dalla maggioranza della Costituente. Annunziarono i loro candidati ad essa ripetutamente.
Noi sappiamo tuttavia che fin dalle «Tesi di Aprile» Lenin proclama il principio che la repubblica debba essere non parlamentare ma poggiata sul sistema dei Soviet, e quindi escludendo il voto dei non lavoratori, pure essendo ammessi nei Soviet oltre agli operai anche i contadini-soldati. Vi era fedeltà assoluta alla formula della dittatura democratica (ciò, ancora una volta, vuol dire non di una sola classe, ma di più classi. Se la base fosse di una sola classe, resta il sostantivo dittatura e va via l’aggettivo democratico – se di tutte le classi, va via la dittatura e resta la democrazia). Il preteso passaggio sostenuto dagli stalinisti, in un certo limitato senso anche da Trotsky, non solo in teoria ma anche in pratica, alla dittatura del proletariato tout court, come si concilia col fatto che oggi in Russia votano tutti i cittadini? La risposta che non essendovi borghesia la sanzione è superflua, è vana: in ogni caso, se valesse a dimostrare che vi è la dittatura, questa sarebbe sempre dittatura interclassista (ammette al voto contadini, artigiani, piccoli industriali, commercianti etc. che è pacifico esistano ad oggi) e quindi il passo oltre la dittatura democratica giusta Lenin 1905 non è mai avvenuto: infatti lo poteva solo per effetto della rivoluzione fuori Russia.
A suo tempo la questione dello studio delle Costituzioni, e della definizione della Russia odierna come una repubblica capitalistica che, malgrado la prassi statale totalitaria, è tanto parlamentare quanto lo erano quelle borghesi di Hitler e Mussolini.
Lenin dunque teorizza che, anche non essendo in presenza di una rivoluzione proletaria integrale, deve subito porsi il superamento della forma parlamentare di Stato. Quindi dall’Aprile condanna l’Assemblea Costituente. La stessa formula del 1903 – 1913 l’aveva già condannata come pratico programma di governo alla caduta degli Zar.
Abbiamo poi citato passi di Lenin, come il lettore conosce, che implicitamente contengono il principio della non convocazione della Costituente, pur nel protestare contro il rinvio a questa della espropriazione terriera.
Eppure lo stesso Trotsky, il quale si dice fautore della dittatura proletaria nella rivoluzione permanente, crede di doversi giustificare in via contingente della misura di scioglimento dell’Assemblea, convocata dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi. Scrivendo nel 1918 egli evidentemente pensa che sia dai più ritenuto potersi buttar via la dittatura restando nel campo della democrazia, e non passare per sempre oltre la democrazia, andando traverso la dittatura uniclassista e unipartitica fino al traguardo del non-Stato – nel quale solo senso marx-engelsiano la dittatura è «transitoria».
Riportiamo la giustificazione di Trotsky dal libretto «Dalla Rivoluzione di Ottobre alla Pace di Brest Litovsk» scritto appunto nelle lunghe more di quelle trattative.
«Noi eravamo perfettamente sinceri quando dicevamo che la via per l’Assemblea Costituente non passava attraverso il Parlamento Preliminare di Tsereteli, bensì attraverso la conquista del potere da parte dei Soviet. La continua proroga della Costituente aveva lasciate le sue tracce…».
Qui Trotsky spiega che il partito numericamente più forte in Russia era il socialista rivoluzionario, la cui ala destra prevaleva di gran lunga, nelle campagne, con una minoranza di sinistra di operai urbani. Ora sebbene le elezioni avessero luogo anche dopo la rivoluzione di Ottobre nelle prime settimane, le notizie si diffusero male nell’immenso territorio, e fu chiaro che gli esserre di destra avrebbero avuta la maggioranza: ciò significava la maggioranza al deposto governo di Kerenski: graziosa l’idea di richiamarlo indietro e dirgli: Abbiatevi le nostre scuse e risalite sullo scanno, i principi della democrazia sono per noi preliminari ed universali: rivoluzione, socialismo, proletariato, sono cose in sottordine![99].
Trotsky è sotto l’effetto dell’orgia di imprecazioni venute dall’occidente alla notizia della dispersione del branco di neo-onorevoli a suon di calcio di moschetto e senza spargere una goccia di sangue, delle ignobili pedanterie di Carlo Kautsky, cui dedicò indi un volume formidabile: «Terrorismo e comunismo».
Dopo avere escluso con la storia della questione che fosse proponibile il recitare la parte del fesso fino a tal punto, egli prosegue:
«Resta ora da esaminare la questione sul terreno dei principi. Nella nostra qualità di marxisti noi non fummo mai idolatri della democrazia formale. Nella società di classe le istituzioni democratiche non solo non tolgono di mezzo la lotta di classe, ma danno agli interessi di classe una espressione sommamente imperfetta. Le classi dominanti continuano pur sempre ad avere a loro disposizione innumerevoli mezzi per falsificare, distogliere e violentare la volontà delle masse popolari lavoratrici. Un apparato ancora più imperfetto per esprimere la lotta di classe sono, nel trambusto della rivoluzione, le istituzioni della democrazia. Marx disse che la rivoluzione è ‹la locomotiva della storia›. Grazie alla lotta aperta e diretta per conquistare il potere governativo, le masse lavoratrici accumulano nel minor tempo una quantità di esperienza politica, e nella loro evoluzione salgono rapidamente da un gradino all’altro. Il lento meccanismo delle istituzioni democratiche può tanto meno seguire questa evoluzione, quanto più grande è il paese e quanto più imperfetto è il suo apparato tecnico»[100].
Questa è buona polemica contro i socialdemocratici che tuttavia ammettono lotta di classe e conquista del potere politico. Ma sembra a noi analisi insufficiente, in quanto riteniamo che più un paese è sviluppato quanto a tecnica e quanto a lungo esercizio della democrazia rappresentativa borghese, tanto più l’apparato di questa si presta a menzogna, corruzione e rinvilimento delle masse, ed è atto, se consultato, sempre più a dire di no al socialismo proletario.
Trotsky stesso dice che Lenin tenne lui a redigere il decreto di sfratto. Da almeno sei mesi gli stava sullo stomaco.
Volete un piccolo assaggio di dialettica? La Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, nocciolo della prima costituzione sovietica, e che sarà in seguito oggetto del nostro esame, scritta da Lenin in data 4 gennaio 1918, ha per soggetto grammaticale l’Assemblea Costituente. Il decreto, della stessa penna, che questa discioglie, è del 7 gennaio.
Infatti l’Assemblea, adunata il 5 gennaio, non aveva accettata la richiesta del Comitato Esecutivo Centrale Panrusso dei Soviet di adottare la Dichiarazione dei Diritti nel progetto di Lenin, che comincia con l’affermazione che tutto il potere centrale e locale appartiene ai Soviet.
Il decreto di Lenin non si fonda su svolti contingenti ma va diritto alla sua lapidaria conclusione:
«Il Comitato Esecutivo Centrale decide: l’assemblea costituente è sciolta».
La decisione parte dal fatto che la Rivoluzione Russa fin dall’inizio ha creato i Soviet, che questi si sono sviluppati contro le illusioni di collaborazione coi partiti borghesi e
«le forme ingannatrici del parlamentarismo democratico-borghese», e «sono giunti praticamente alla conclusione che la liberazione delle classi oppresse senza la rottura con queste forme e con ogni specie di conciliazione è impossibile». Questa rottura «si è avuta con la Rivoluzione di Ottobre, che ha rimesso tutto il potere nelle mani dei Soviet».
Questa ha provocato la reazione degli sfruttatori e
«nella repressione di tale disperata resistenza ha pienamente dimostrato di essere l’inizio della rivoluzione socialista».
Tale rigorosa formula va fatta propria dai marxisti integralmente, in quanto si trattava della rivoluzione socialista internazionale, e non affatto della poi favoleggiata «edificazione socialista nella sola Russia».
Il testo prosegue:
«Le classi lavoratrici hanno dovuto persuadersi, sulla base dell’esperienza, che il vecchio parlamentarismo borghese ha fatto il suo tempo [giovane in Russia, vecchio in Europa, per la quale tutta la grandiosa dimostrazione storica si eresse allora, e resta oggi integrale], che esso è incompatibile con l’obiettivo della realizzazione del socialismo; che non le istituzioni nazionali, generali, ma soltanto quelle di classe, come i Soviet, sono in grado di vincere la resistenza delle classi possidenti e di porre [aggiunta nostra sul filo della logica e della dottrina: con questo stesso fatto] le fondamenta della società socialista. Ogni rinuncia all’integrità del potere dei Soviet, ogni rinuncia alla Repubblica sovietica conquistata dal popolo, a vantaggio del parlamentarismo borghese e dell’Assemblea costituente, sarebbe ora un passo indietro, sarebbe il fallimento di tutta la Rivoluzione di Ottobre operaia e contadina».
Il testo continua dicendo che questa Assemblea ha respinto la tesi del potere ai Soviet e con ciò
«ha spezzato ogni legame con la Repubblica Sovietica rossa. L’abbandono di una simile assemblea da parte del gruppo dei bolscevichi e dei socialrivoluzionari di sinistra, i quali formano oggi la maggioranza dei Soviet e godono la fiducia degli operai e della maggioranza [udite] dei contadini, era inevitabile».
I partiti in maggioranza alla Costituente conducono in realtà fuori di essa un azione disfattista della rivoluzione, difendono i sabotatori capitalisti, gli appelli al terrore di ignoti agenti della controrivoluzione.
«È chiaro che in forza di ciò l’altra parte dell’Assemblea costituente potrebbe avere soltanto la funzione di coprire la lotta dei controrivoluzionari per l’abbattimento del potere sovietico»[101].
Giù, dunque, la scure, il grandioso documento è chiuso.
La grandezza di questo testo è che non si basa su contingenze scontate e particolari del concreto sviluppo russo. Questo ha offerto soltanto le attese occasioni: magnifica quella che, alle elezioni, i rivoluzionari non avessero avuta la maggioranza; sarebbe stato terribilmente imbarazzante, e chissà quanti bolscevichi avrebbero una volta ancora claudicato.
Lo storico testo si basa su argomenti di principio tolti non dalla storia decorsa, ma dalla storia attesa della rivoluzione proletaria e comunista mondiale, sulla incompatibilità tra la democrazia parlamentare e la realizzazione del socialismo, che seguirà al violento abbattimento degli ostacoli sociali, delle forme tradizionali di produzione, come nel «Manifesto» sta scritto.
Non lessero l’argomento, al di là di dieci frontiere, i seguaci del marxismo incorrotto, ma bastò loro la nuda notizia del fatto che la minoranza lasciò l’assemblea e ordinò che la maggioranza fosse ridotta al silenzio, per inneggiare ad uno dei più fiammanti incontri tra la previsione dottrinale e la vivente storia.
La massa dei proletari sfruttati, sollevata dalla guerra alla lotta rivoluzionaria, comprese la grandezza dell’evento, anche se in forma meno scientifica; gridò con milioni di voci che una volta ancora la Luce (chiamatela, o filistei, se vi dà veleno, messianica: nel lessico nostro non è il Verbo che si fa Carne, ma è la Teoria che si fa Realtà!) si era levata sfolgorando sull’orizzonte di Oriente.
Tramontò poi nel fetido spegnitoio dell’incarognata parlamentare.
A questo svolto la Storia ufficiale del Partito dedica poche righe.
«L’Assemblea Costituente, le cui elezioni si sono svolte in gran parte prima della Rivoluzione di Ottobre, e che si è rifiutata di ratificare i decreti del II Congresso dei Soviet sulla pace, sulla terra, sul passaggio del potere ai Soviet, è sciolta»[102].
Sono di pura scusa.
Le pagine della narrazione stalinistica su questo punto sono tali, almeno per chi in quel tempo già campava, che il solo citarle per confutazione varrebbe confessare una idiozia congenita. Trotsky e Bucharin avrebbero lavorato contro la pace, per far sì che i tedeschi, che li pagavano, conquistassero la Russia e stroncassero la Rivoluzione. Il genio di Lenin lo impedì: ma come quel genio non sarebbe arrivato a capire che i suoi collaboratori in prima, ancora per anni ed anni e fino alla sua morte, erano dei puri sicari? e come non lo avrebbe capito nemmeno Stalin, per la cui grandezza si diffonde quel testo? Loro due, e tutti gli altri, e tutti noi, che fantastica mappata di fessi! Lasciamola lì. Non possiamo infatti confessare che i tedeschi pagano anche il Filo del Tempo.
Per la stessa ragione non interessano tutti i dettagli, sebbene decisivi, della confutazione che dà Trotsky dell’incredibile costruzione. Chi crede che il socialismo sia una costruzione, può anche mettersi ad «edificare la storia», come l’ufficialità cremlinesca. In ambo i casi fabbrica sulle sabbie mobili, e a noi premono cose più sode.
Il II Congresso panrusso dei Soviet che assunse il potere il 26 ottobre / 8 novembre, nella stessa seduta adottò il decreto sulla pace, preparato da Lenin, primo atto del nuovo potere. Con esso si propone a tutti i paesi in guerra l’immediato inizio di trattative «per una pace giusta e democratica». Il testo dice subito che cosa per tale formula si intende:
«Una pace immediata, alla quale aspira la schiacciante maggioranza degli operai e delle classi lavoratrici di tutti i paesi, sfinite, estenuate e martoriate dalla guerra, una pace senza annessioni (cioè senza conquista di terre straniere, senza incorporazione forzata di altri popoli) e senza indennità»
Una ulteriore delucidazione:
«Per annessione o conquista di terre straniere il governo russo intende – conformemente alla coscienza giuridica della democrazia in generale e delle classi lavoratrici in particolare – qualsiasi annessione di un popolo piccolo e debole ad uno Stato grande o potente, senza che il popolo ne abbia espresso chiaramente, nettamente e volontariamente il consenso e il desiderio, indipendentemente dal momento in cui questa incorporazione forzata è stata compiuta, indipendentemente anche dal grado di sviluppo o di arretratezza della nazione forzatamente annessa o forzatamente tenuta nei confini di quello stato, e indipendentemente, infine, dal fatto che questa nazione risieda in Europa o nei lontani paesi transoceanici».
Questa proposta concreta non costituisce una costruzione teorica. La posizione marxista è che un partito proletario non può in nessun caso appoggiare una annessione politica forzata; ma non consiste nel fare un capitolo del programma del partito della sistemazione ex novo di tutti i popoli omogenei in un nuovo ordinamento politico-geografico di Stati raggiunto e mantenuto dal consenso e senza violenza. Questa è ritenuta dai marxisti una utopia inconciliabile con la società di classe capitalistica, più ancora che con ogni altra, mentre in una società socialista il problema passa su altre basi, includenti la distensione e lo spegnimento di ogni violenza statale.
Una proposta tale che i paesi borghesi potrebbero accettarla, o almeno non possono rifiutarla per ragioni di principio, e che quindi li smaschererebbe se la rifiutassero – come è sicuro – nel loro appetito di brigantaggio imperiale. Si sarà così provato che una coscienza giuridica internazionale degli Stati non esiste di fatto, né può esistere nel mondo attuale.
Il decreto contiene altri due punti fondamentali: la rinunzia al segreto diplomatico e l’annullamento dei trattati, segreti o meno, stipulati dallo Stato russo fino allora – e la proposta di un armistizio di almeno tre mesi per lo svolgimento dei negoziati.
La conclusione della relazione illustrante il decreto è poderosa Essa spiega che non si può non offrire di discutere con i governi, e va dato carattere non ultimativo alla proposta di pace «senza annessioni e indennità», al fine di potere ingaggiare ogni discussione. Ma con ciò non si rinunzia a parlare anche ai popoli, agli operai di tutti i paesi perché rovescino i governi che si oppongono alla pace.
«Noi lottiamo contro la mistificazione dei governi che, a parole, sono tutti per la pace e per la giustizia, ma che di fatto conducono guerre di conquista e di rapina».
Il decreto apertamente inneggia alla insurrezione operaia, agli ammutinamenti nella flotta tedesca. Esso tuttavia esclude la possibilità di finire unilateralmente la guerra. Questa non può essere fatta finire che con la pace: il decreto non contiene – ancora – la previsione di una pace separata[103].
Il 7 novembre la proposta fu trasmessa a tutti i governi in guerra. La risposta degli alleati francesi, inglesi, etc. fu trasmessa non al governo bolscevico ma al Quartier Generale dell’esercito l’11 novembre: era una chiara minaccia di attaccare la Russia se questa avesse osato concludere con i tedeschi una pace separata.
Lenin nel discorso di chiusura aveva lealmente spiegato che non si era data alla proposta di armistizio generale la forma di ultimatum minacciando la pace separata, ma che si faceva assegnamento sulla stanchezza delle masse belligeranti per costringere i governi a trattare: ancora aveva ricordato l’ammutinamento ferocemente represso nella marina tedesca, e i moti italiani dopo Caporetto e nelle giornate di Torino:
«Prendete l’Italia dove questa stanchezza ha provocato un movimento rivoluzionario di lunga durata, che reclamava la cessazione del massacro»[104].
Alla minaccia alleata dell’11 novembre, rispose un proclama del Soviet agli operai soldati e contadini in cui si dichiarava che mai il potere sovietico avrebbe tollerato che il sangue «del nostro esercito fosse versato sotto la frusta della borghesia straniera». Il governo bolscevico mantenne l’invito all’armistizio, e l’impegno di pubblicare tutti i trattati segreti.
Il 30 novembre il governo sovietico decide di iniziare le negoziazioni per la pace con le potenze centrali, e inutilmente invita le potenze occidentali a parteciparvi. Il 2 dicembre a Brest Litovsk cominciano i negoziati della prima delegazione diretta da Joffe: dal 22 al 28 si svolge la conferenza della pace che si conclude con proposte severissime ed inaccettabili dei tedeschi. Le dette date sono nel nuovo stile, che seguiremo d’ora innanzi in quanto nel febbraio 1918 un decreto del nuovo governo lo adottava per tutta la Russia.
Un armistizio con i tedeschi era stato concluso il 5 dicembre. Il 9 si era cominciato a discutere e i tedeschi avevano in primo tempo ostentato di accettare le basi giuridiche della pace proposte dai russi, il che fece una grande impressione. La dichiarazione di Kühlmann in tal senso dopo molte proroghe era stata fatta il 25 dicembre e provocò il 28 una grande dimostrazione di massa a Pietrogrado per la pace democratica. Ma l’indomani la delegazione Joffe rientrava denunziando che le effettive richieste tedesche comportavano la caduta sotto il giogo germanico dei paesi baltici, della Polonia, perfino della Ucraina.
Il 10 gennaio viene inviata la seconda delegazione, diretta da Trotsky, e si iniziano nuove lunghe sedute che durano fino al 10 febbraio.
La situazione fu complicata da una delegazione della Rada ucraina di Kiev che, ostentando di essere autonoma dalla nuova Repubblica Russa, era come un fantoccio in mano tedesca, e il 9 febbraio, mentre il suo potere era divenuto sempre più fittizio, firmava da sola una pace con la Germania e l’Austria.
Il giorno dopo i russi dichiarano di non potere accettare le esose condizioni, e si ritirano dichiarando che porranno comunque fine alla guerra, smobilitando l’esercito.
Si sperava nella reazione dei proletari di Germania ed Austria, si sperava che l’esercito tedesco non avrebbe ripreso una avanzata di invasione. Ma così non fu. Il generale Hoffmann, cinque giorni dopo l’ultima seduta, violando il convenuto termine di sette giorni, dichiarò spirato l’armistizio e ricominciò le operazioni. Il fronte russo si sfaldò totalmente. I controrivoluzionari finlandesi e ucraini invocarono le baionette tedesche per resistere ai bolscevichi che li avevano sopraffatti. La minaccia gravava su Pietrogrado. Il 19 febbraio per radio il governo russo si dichiara pronto a firmare una qualunque pace dettata dai tedeschi, che non si arrestano e solo il 23 comunicano le nuove tremende condizioni. Il 28 febbraio la terza delegazione, diretta da Sokolnikov, giunge a Brest Litovsk: il 3 marzo 1918 finalmente la pace-capestro è firmata. Passavano alla Germania Estonia, Lettonia e Polonia, l’Ucraina ne diveniva Stato vassallo, una indennità doveva venire pagata dalla Russia. Ma tutto ciò sul quadrante della storia era destinato a durare solo pochi mesi, fino al crollo tedesco nel novembre e all’armistizio generale con gli occidentali vittoriosi. La crisi di Brest Litovsk aveva in sostanza fiaccato internamente la Germania e non la Russia.
Durante le tremende alternative di Brest si era sviluppato nel partito un profondo dissenso. Una corrente, che si disse dei comunisti di sinistra, e che trovava appoggio nell’atteggiamento della destra della coalizione di governo, ossia negli esserre, si schierò contro la pace separata e soprattutto contro l’accettazione di condizioni così gravose. Preso il potere dai lavoratori, sostenevano costoro, la guerra non è più quella degli imperialisti e degli opportunisti, ma è una guerra rivoluzionaria, una guerra santa: bisogna sollevare in armi tutto il popolo russo, non firmare apparendo ai proletari esteri come traditori dell’internazionale, e piuttosto soccombere nella lotta perdendo il potere e la conquista della rivoluzione, se le forze proletarie russe saranno schiacciate sul campo.
Contro questa posizione si levò con costanza e decisione inflessibile, e al solito in certe fasi quasi solo, Lenin. Il suo fondamentale argomento era la fiducia nella rivoluzione europea, cui occorreva fare il credito di un’attesa più lunga che quella di settimane e mesi, sacrificandosi a tutte le concessioni nazionali pur di trovarsi al potere alla fine della guerra, anche se si doveva, come poi avvenne, trasportare a Mosca la capitale.
Come già altra volta fatto, ricorderemo che, quando di questo tremendo dibattito pervennero in Europa gli echi, e quando molti che passavano per sinistri si esaltavano all’idea di una guerra di disperazione antitedesca, gli elementi di sinistra del partito italiano, pure nella quasi mancanza di documentazione, sposarono la tesi Leniniana e la sostennero sull’«Avanti!» e sull’«Avanguardia» dei giovani, con la stessa intensità con cui avevano solidarizzato con la dispersione della Costituente e la tremenda crociata contro gli opportunisti e traditori dentro e fuori di Russia; facendo carico ai lavoratori di Europa e d’Italia del compito di spegnere, di sotterrare la guerra scongiurando una fiammata di fanatismo patriottico, sulla china di quello dell’interventismo traditore e antitedesco[105].
La delegazione Trotsky ritornò con la notizia che non aveva accettato di firmare la pace il 10 febbraio. Ma già la questione era stata discussa in una conferenza di 63 bolscevichi, tenuta il 21 gennaio cui era stato chiamato Trotsky. La tesi di Lenin di firmare la pace come i tedeschi volevano fu battuta avendo avuto solo 15 voti. Ne ebbe 16 la tesi né guerra né pace di Trotsky. La maggioranza assoluta, 32 voti, seguì la tesi Bucharin per il rifiuto della firma e la proclamazione di una guerra rivoluzionaria. Il 24 gennaio la discussione tornò avanti al Comitato Centrale del Partito. Lenin propose di non rifiutare la firma, ma tirare in lungo le trattative: 12 sì, 1 no. Trotsky insistette nella proposta: rifiuto di firma, smobilitazione, con 9 sì e 7 no.
Il 25 gennaio si discute ancora in una riunione comune agli esserre di sinistra. La maggioranza decide di sottoporre al Congresso dei Soviet la formula: né guerra né pace.
Il 10 febbraio, come detto, rientra la delegazione che ha applicato questo indirizzo, contro il parere di Lenin ma non contro quello della maggioranza. Krylenko che aveva il comando supremo ordina la smobilitazione. Le condizioni militari in linea tecnica erano così palesi, che nessuno si oppose.
Quando si seppe che i tedeschi, dopo una conferenza presieduta dal kaiser Guglielmo ad Amburgo, avevano ripresa l’avanzata, fu ancora riunito il Comitato Centrale il 17 febbraio. La proposta tedesca di riprendere i negoziati e firmare fu rigettata con 6 voti contro 5. Non vi furono voti per la guerra rivoluzionaria, ma solo l’astensione di Bucharin, Joffe e Lomov.
Il 18 febbraio in una lunga seduta, prima sostennero la firma Lenin e Zinoviev, il diniego Trotsky e Bucharin, e la proposta di trattare fu respinta con sette voti contro sei: più tardi si decise l’invio di un telegramma che offriva la pace alle vecchie o anche diverse condizioni, con l’approvazione di Lenin, Smilga, Stalin, Sverdlov, Trotsky, Zinoviev, Sokolnikov, con 5 no e un’astensione[106]. La risposta venne il 23. Il Comitato Centrale votò l’accettazione con 7 voti contro i quattro di Bucharin, Bubnov, Urickij e Lomov. Si votò tuttavia la preparazione alla guerra rivoluzionaria. Il 3 marzo si ebbe la pace.
Al 6–9 marzo la polemica scoppiò violenta al settimo Congresso del Partito, e fu approvata, contro la viva opposizione della frazione Bucharin, l’accettazione della pace di Brest. La risoluzione di Lenin ebbe 30 voti, contro 13 no e 4 astenuti. A questo congresso il partito prende il nome di Comunista (bolscevico), come proposto un anno prima da Lenin.
Al Terzo Congresso dei Soviet la questione ritorna e, stavolta, sono all’opposizione anche i socialrivoluzionari di sinistra: la coalizione viene rotta e questi passano all’opposizione più decisa contro il governo bolscevico. Siamo al 15–17 marzo; viene formato diversamente il governo, con Čičerin Commissario per gli Esteri, Trotsky per la Guerra.
Gli scritti di Lenin colpiscono gravemente l’attitudine di quella «sinistra» che voleva il rifiuto di ogni pace e la guerra santa ai tedeschi. L’opposizione aveva guadagnato l’organizzazione di partito a Mosca, e il 24 febbraio votò la sfiducia al Comitato Centrale. Lenin chiama «strana e mostruosa» tale posizione. I sinistri dovevano ammettere che questa guerra sarebbe stata senza speranza e che i tedeschi avrebbero ulteriormente vinto ed avanzato, con la conseguenza della caduta del potere dei Soviet. Essi avevano risposto che una tale eventualità era preferibile al disonore di subire l’imposizione imperialista tedesca. Lenin mostra che questa è una posizione di disperazione e che non è disfattismo della rivoluzione internazionale firmare una pace onerosa e tremenda con l’imperialismo germanico: la sua prospettiva che la rivoluzione supererà questo passo tremendo avrà sapore, una volta ancora, di profezia[107].
Non ha tuttavia mai Lenin condannata in principio la guerra rivoluzionaria. Pochi giorni infatti prima dello scritto ora citato, il 22 febbraio, egli aveva redatto l’appello per la difesa rivoluzionaria intestato nelle «Opere» con le parole, non sappiamo se originali, e tanto abusate nel 1942:
«La patria socialista è in pericolo!».
Sono date tutte le disposizioni per la disperata resistenza all’invasore, nel caso che questo respinga la delegazione già partita per firmare la pace e continui deliberatamente ad entrare nel paese[108].
Ma negli ulteriori scritti in preparazione del VII Congresso Bucharin e i suoi sono ulteriormente, in base a minuta relazione sulla situazione reale, fieramente stigmatizzati.
La chiusura della guerra era un traguardo fondamentale, forse il più vitale, di una lunghissima lotta, che durava dal 1914 e in un certo senso dal 1900. Era indispensabile che questo caposaldo fosse a qualunque costo stabilito: la guerra imperialista e zarista è finita: il tradimento social-sciovinista è stato stritolato; ed era tanto un caposaldo della rivoluzione russa quanto, e sopra ogni altra cosa, della rivoluzione internazionale. Non sarebbero mancate lotte e guerre civili per la difesa della rivoluzione e delle vittorie di Ottobre: Lenin lo sapeva e chiaramente lo disse.
Ma Brest fu una tappa del cammino che doveva condurre dalla guerra imperialista alla guerra civile in ogni paese, come dichiarato nel 1914, e anche prima, dal marxismo rivoluzionario. E il proletariato tedesco dette con Spartaco nel 1918, alla fine di quel tremendo anno, la prova di avere inteso l’impegno che gli derivava dallo strazio consumato con la «pace obbrobriosa», cui il bolscevismo e Lenin ebbero il gigantesco coraggio di mettere deliberatamente la propria firma nello storico tre marzo di Brest. Fu la controparte stipulante e trionfante, che presto la storia pose al tappeto.
Alla tappa di Brest la Rivoluzione Europea era in marcia gloriosa. Sulla linea politica rivoluzionaria, il potere russo di Ottobre ne teneva in pugno da solo, e con tutti i crismi, la rossa bandiera.
Notes:
[prev.] [content] [end]
«Dialogato con Stalin», cit., pagg. 52–62. [⤒]
L. Trotsky, «Stalin», cit., pagg. 338–339. [⤒]
L. Trotsky, «Dalla rivoluzione di Ottobre al trattato di pace di Brest-Litovsk», ed. Atlantica, Roma, 1945, pagg. 123–126. [⤒]
L. Trotsky, «Dalla rivoluzione di Ottobre al trattato di pace di Brest-Litovsk», ed. Atlantica, Roma, 1945, pag. 126. [⤒]
«Progetto di decreto per lo scioglimento dell’Assemblea Costituente», in «Opere», XXVI, pagg. 413–415. Cfr. anche il discorso di Lenin del 6 gennaio, ivi, pagg. 416420. Lo stesso Lenin ritornerà poi magistralmente sul tema, in polemica con Kautsky, in «Le elezioni dell’Assemblea Costituente e la dittatura del proletariato», dicembre 1919, cfr. «Opere», XXX, pagg. 225–246. [⤒]
«Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pag. 233. [⤒]
Decreto e commento in Lenin, «Relazione sulla pace», in «Opere», XXVI, pagg. 231–238. [⤒]
Decreto e commento in Lenin, «Relazione sulla pace», in «Opere», XXVI, pag. 238. [⤒]
Cfr. «Storia della Sinistra Comunista», 1912–1919, cit., pagg. 319–326. [⤒]
Cfr. «I bolscevichi e la Rivoluzione di Ottobre», cit., pag. 349–398 e 403–438. [⤒]
Cfr. Lenin, «Strano e mostruoso», 28 febbraio – 1 marzo 1918, in «Opere», XXVII, pagg. 54–61. [⤒]
Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 20–21. I numerosi interventi di Lenin sulla questione della pace si leggono, come gli articoli in polemica con i «sinistri», nello stesso volume. [⤒]