L’uscita dal governo degli esserre si ebbe al quarto Congresso dei Soviet che, subito dopo il settimo Congresso del partito comunista (bolscevico), come da allora si chiamò, approvò la linea di Lenin a Brest Litovsk; la rivolta seguì al V congresso panrusso dei Soviet, del 4–10 luglio 1918, che ratificò il trattato definitivamente, adottò la Prima Costituzione, proclamò la formazione (iniziata dal febbraio) dell’Esercito Rosso stabile, e respinse le tesi social-rivoluzionarie contro la lotta senza quartiere al contadino ricco e capitalista agrario (il kulak). Dall’opposizione gli esserre passano alla rivolta: il 5 luglio il loro seguace Bljumkin (poi, in un film alla Totò, presentato come agente di Leone Trotsky) assassina l’ambasciatore tedesco Mirbach sperando di riaccendere la guerra. In varie città e a Mosca gli esserre insorgono, giungono a scaricare i loro cannoni contro il Cremlino. Il partito comunista senza la minima esitazione dispone la liquidazione dell’avventura, che viene attuata in pochi giorni: quest’ultimo residuo alleato, quest’ultimo oggetto coibile di «blocco» e di «fronte unico», tra l’orrore di tutto l’opportunismo mondiale e la gioia dei marxisti rivoluzionari di non fiacca pelle di ogni paese, viene posto fuori della legge rossa e schiacciato come un nido di serpi. Essi dovevano ancora, fedeli al loro metodo terrorista, consacrato ormai alla controrivoluzione, assassinare il 30 agosto il valoroso bolscevico Urickij, grave perdita per il partito, e con la mano della Fanny Kaplan cacciare nella spalla di Lenin stesso una palla di pistola, che forse ne abbreviò l’esistenza.
Si aprivano in quel momento uno dopo l’altro i fronti dell’intervento esterno, della guerra civile; il 17 agosto tagliando corto ad un’altra noiosa pratica viene tolta di mezzo su ordine del governo bolscevico ad Ekaterinburg, ove i bianchi stanno per arrivare, la famiglia imperiale; e non è da credere che qualcuno sia stato lasciato scappare fuori.
Si era aperto il periodo dopo il quale restò risolto il problema che indicammo nel riassunto di questa serie di riunioni[109] come conclusione: che deve fare il partito rivoluzionario, appena giunto al potere? – con la soluzione: duramente e lungamente combattere, per non perderlo. Lotta che, per ambo le parti, non può lasciar quartiere ai battuti.
L’ossatura critica di questa nostra storica ricostruzione sta nel sostenere dialetticamente che la rivoluzione russa non ha condotto ad una Russia socialista, ma capitalista; e che questo non contraddice ma conferma la teoria storica del partito. Tra rivoluzione russa e società socialista russa poneva questa il «ponte» che è mancato: rivoluzione proletaria europea. E nel sostenere nello stesso tempo che, mentre il febbraio 1917 fu una rivoluzione politica borghese, l’Ottobre 1917 fu una rivoluzione politica proletaria, e socialista (e quindi anche rivoluzione sociale da definire socialista), al che nulla toglie se, dopo, la dialettica strada alla vittoria del socialismo nel mondo capitalista non poté essere percorsa tutta. Non è perduta una causa storica, per il rinvio ad una successiva udienza.
Abbiamo quindi fondato la dimostrazione del «diritto» di Ottobre russo alla classificazione di «socialista», e «comunista», su tre suoi compiti, che sono rimasti solidamente impiantati nel corpus storico umano.
Il primo è lo schiacciamento del traditore opportunismo nazionalista della seconda Internazionale, e la liquidazione della guerra capitalista.
Il secondo compito è la successiva decisa dispersione di tutti i movimenti sociali e politici che si accampano tra la borghesia e il proletariato rivoluzionario, esaurendone in una possente serie dialettica la funzione storica man mano che non ha più forza propulsiva, a partire dalla caduta del feudalesimo, e costruendo la fisica reale prova della necessaria unità e totalità del potere rivoluzionario dittatoriale, e quando occorre terroristico, nelle mani del partito di classe, del partito marxista e comunista.
Il terzo compito sta nella soluzione, teorica e di azione, del rapporto tra la classe proletaria rivoluzionaria e lo Stato. L’emancipazione della classe lavoratrice è impossibile entro i limiti dello Stato borghese: esso deve essere sconfitto nella guerra civile e il suo meccanismo demolito: con ciò la versione socialdemocratica del corso storico è dispersa. Dopo la vittoria rivoluzionaria e insurrezionale è giocoforza che sorga un’altra storica forma statale, la dittatura del proletariato, condotta dal partito comunista, che apre la tappa storica in cui sorge la società socialista e si va spegnendo lo Stato. Con ciò è giudicata la lotta del 1870–72 tra marxisti e libertari, chiuso il ciclo della piccolo-borghese illusione anarchica, pur dando ai libertari atto della giusta tesi che lo Stato non si conquista, ma si distrugge.
Quale il bilancio, in Russia e nel mondo internazionale, di questi tre compiti storici giganteschi?
Per primo: la disfatta dei traditori del 1914 fu definitiva nel campo teorico, e definitiva, sempre in tal campo, l’opera di fondazione della nuova Internazionale. Nella storica attuazione, per quanto riguarda la Russia, il risultato fu pieno, con la distruzione del «difesismo» che risorgeva minaccioso (Lenin – Aprile), ma, per quanto riguarda l’Internazionale, alla poderosa base critica e teorica non rispose eguale successo. Non essendo intervenuta una rivoluzione proletaria europea vittoriosa, al socialista Ottobre russo non si poté innestare il passaggio della società russa al socialismo. Ma, quel che fu peggio, non vi si innestò lo sviluppo, coerente alle gloriose basi, dei partiti comunisti in Russia e altrove. Comunque, alla data di Ottobre 1917, bilancio positivo!
Non meno positivo il bilancio per il secondo compito: in teoria, la totalitaria distruzione dei partiti «affini» resta una conquista universale, nell’azione essa è raggiunta in quel torno in Russia senza eccezioni. Internazionalmente e per le stesse dette ragioni si è regredito poi dall’altezza di Ottobre.
Il terzo compito della distruzione dell’apparato statale tradizionale nella dottrina è stato adempiuto con «Stato e rivoluzione», con la totale restaurazione del marxismo, e nell’azione il compito in Russia è stato parimenti portato fino all’estremo facendo a pezzi sia l’apparato zarista che i conati di ordinamento borghese nel governo provvisorio e nell’aborto di Stato parlamentare. Al tempo di Ottobre questo bilancio splende di completezza, ed è risultato che il futuro utilizzerà in pieno, malgrado il rovescio della rivoluzione di Europa e l’involuzione del potere russo a forme sociali di capitalismo, e statali di menzogna demo-popolare.
La rivoluzione di Ottobre ed il partito comunista di Lenin sono andati alla vittoria conducendo tutta l’azione sulla vera linea rivoluzionaria, conseguendo tutti i risultati conseguibili e nel senso favorevole allo sviluppo dell’internazionale rivoluzione proletaria e della società socialista; le sole forme possibili allora, oggi e domani.
La resistenza della forma storica capitalista nel mondo moderno ed a più forte ragione in Russia si lega ancora alla tremenda disfatta del moto della classe operaia alla prova dell’agosto 1914.
Malgrado i rovesci strategici ulteriori del proletariato mondiale, e malgrado la nuova peggiore ondata di opportunismo che ha ucciso Partito ed Internazionale di Lenin, il punto di appoggio dell’Ottobre è valido potentemente e lo resta per tutto il corso della Rivoluzione futura. Delle rivoluzioni proletarie che la storia segnerà, Ottobre è stata la prima a vincere, e a segnare la sola strada, da allora gloriosamente aperta.
Se sono insegnamenti e «allenamenti» storici grandiosi del proletariato mondiale gli acquisti di Ottobre quanto a totalità unipartitica della rivoluzione, a stritolamento della guerra imperiale, a riduzione in frantumi dello Stato parlamentare, non lo è meno la vera e propria epopea attraverso la quale, in tre e più anni di paurosa guerra civile, furono schiacciati senza lasciare traccia palpabile tutti i feroci ritorni della controrivoluzione, alimentati dalle classi dominanti e dalle forze di conservazione del mondo intero e dai poteri costituiti di tutti i paesi.
Una parte enorme del potenziale rivoluzionario che possedevano i proletari russi e il loro formidabile partito fu assorbita in questo sforzo incredibile. I nemici arrivavano da tutte le direzioni, si schieravano su diecine e diecine di fronti, avevano basi e mezzi di operazione da tutti i punti non solo dell’orizzonte geografico, ma di quello politico: le multiple e multiformi puntate, venendo da classi, partiti e Stati di tutte le condizioni, bianchi, gialli, verdi, rosei, reazionari feudali, grossi capitalisti liberali, radicalume piccolo-borghese, socialistume pseudo-operaio, colpivano con un solo obiettivo: abbattere il potere bolscevico. Non sarà il caso di fare la storia della lunga lotta, cui nella sintesi dedicammo qualche cenno elencativo, ma ciò sarà provato dai riferimenti ai tempi, ai luoghi di partenza e di attacco, ai nomi delle nazionalità, dei governi, e dei generali che operarono. Cento attacchi contro una difesa sola, unicolore, e che vinse perché fu «unipartitica».
Vogliamo qui fare due rilievi. Perché, intendiamo domandare, dinanzi alla incredibile eterogeneità dell’avversario e alla diversità di origine degli interessi da cui erano stati mossi e venivan sorretti, non si pensò nemmeno un momento a metterne alcuni contro alcuni altri, a seminare tra essi la solita abile discordia, a discriminarli, a graduarli; e la rivoluzione si impegnò senza discutere nel programma semplice ed unico di ributtarli ed annientarli tutti, dallo zarista fino all’anarchico? Perché qui nessun ricorso fu enunciato alla teoria della manovra aggirante, che tanto male fece nella strategia politica frammezzo al caleidoscopio dei partiti europei, e che pose le radici dell’attuale pullulare rovinoso e fetido di equivoche strizzate d’occhio, dell’ondeggiare incessante in mostruose aperture ed ammiccamenti del marciapiede politicantesco?
E in secondo luogo vogliamo notare che, se anche non mancarono alcuni episodi di internazionalismo proletario che fermarono o ritardarono non poche delle imprese dell’intervento borghese e straniero nella socialista Russia, troppa sproporzione corse tra la parte del carico che ricadde sull’esercito interno della rivoluzione, e quello che fu l’aiuto dei proletari esteri e la lotta al grido di: giù le mani dalla Russia!, che meglio sarebbe stata al grido: giù la borghesia dal potere, fuori di Russia! Non poco questo enorme consumo di forze in una lotta feroce per la vita o per la morte, ove ad ogni atto tutta la posta era in gioco, si ripercosse sulle debolezze della strategia esterna dei partiti, sulla non facilmente spiegabile fragilità con la quale il bolscevismo, forte di una tradizione di fermezza senza pari, lasciò poi, e sia pure dopo l’immolazione di una parte notevolissima della sua grande milizia, imbastardire i cardini programmatici del marxismo e della rivoluzione, bassamente barare sul valore delle forme sociali, e finalmente imperversare la degenerazione paurosa che si svolse sulla parola insensata della costruzione del socialismo nella sola Russia.
Tutto quello che il proletariato russo e il partito russo potevano fare da soli, alla data della vittoria civile nel 1920–21, era fatto. E tutto quanto dare si poteva era stato dato. L’avvento del socialismo esigeva la scesa in campo del proletariato internazionale. A questo non fu data la consegna, che si seppe dare all’Esercito Rosso, fin dalla difficilissima e tormentata fase della sua formazione: Andare allo stesso titolo contro tutti i nemici, e tutti tentare senza discriminazioni ruffiane di trafiggere al cuore.
Come questa doppia posizione si spiega? Imbroccata sul terreno militare, e sbaglio di manovra su quello politico ed estero? Sarebbe cosa banale. Non sono capi, dirigenti, governi e partiti che hanno nelle mani simili scelte. È la forza della storia stessa che li determina a prendere le posizioni che sorgono dai rapporti fisici della sottostruttura. In Russia la fase rivoluzionaria era matura per urgere in breve ciclo di forze nuove e disgregarsi di morte forme; fuori in Europa la situazione era falsamente rivoluzionaria e lo schieramento non fu decisivo, l’incertezza e mutevolezza di atteggiamento fu effetto e non causa della deflessione della storica curva del potenziale di classe.
Se errore vi fu e se di errore di uomini e di politici è sensato discorrere, esso non consistette nell’aver perduto autobus storici che si potevano agguantare, bensì nell’aver colto, nella lotta in Russia, la presenza della situazione suprema, nell’aver creduto in Europa di poterle sostituire l’effetto di illusionisti soggettivi abilismi, nel non aver avuto, da parte del movimento, la forza di dire che l’autobus del potere proletario in occidente non era passato e quindi era menzogna segnalare in arrivo quello dell’economia socialista in Russia. La storia per noi non la fanno gli Eroi: ma i Traditori nemmeno.
Il momento e il periodo felice fu avvertito invece in Russia dai sismografi del sottosuolo sociale. I diagrammi furono decifrati dagli occhi di un Lenin che urlò l’urgenza di ore dell’assalto di Ottobre, che vigilò dal centro di una rete di fili telegrafici la dinamica unitaria dello strozzarsi e dell’allentarsi del capestro unico intorno alla gola della rivoluzione, cui cento mani traenti davano un’unica tensione. Di un Lenin che diramava comunicazioni nello stile impellente che Trotsky attesta: a Kamenev (mandato nella primavera 1919 in Ucraina con funzioni amministrative, e accerchiato dai bianchi):
«assolutamente necessario che portiate voi stesso i soccorsi al bacino del Don, altrimenti non vi è dubbio che la catastrofe sarebbe tremenda e difficilmente rimediabile: periremo tutti quasi certamente se non riusciamo in breve tempo a ripulire il bacino (carbonifero) del Don»[110].
La storia non si fa, una volta ancora, ed è già saltuaria fortuna decifrarla: lasciamo che ogni giorno aumentino di una unità i fessi che ciò non intendono, e scussi scussi si mettano a farla loro, a colpi di solitario pollice… Anzi non se ne decifra nemmeno la via sicura, il che potrebbe concludere al fatalismo, che inorridisce l’impotente nato…: se ne stabiliscono solo alcuni legami tra date condizioni e corrispondenti sviluppi.
Non si era in un periodo analogo di fremiti storici nell’Europa centro-occidentale in quegli anni e nei successivi: si andò a tentoni, si sbandò più volte e alla fine, come l’organismo di Lenin cedette dopo aver tutto dato (il confronto è solo di valore didattico), cedette quello del partito russo, e il comunismo internazionale andò alla deriva.
Per chiarire il concetto sul divario tra i due ambienti (aree dicemmo talvolta) e i due tempi, o fasi, ci consentiremo di ricorrere ad un’immagine fisica, e diremo che nella Russia del periodo di guerra civile non si sbagliò la direzione di puntamento delle artiglierie perché nei periodi vitali per la Rivoluzione l’atmosfera storica è ionizzata.
Ogni umana molecola si orienta necessariamente, automaticamente, non deve faticare a scegliere posizioni.
La scoperta degli Ioni fece da preludio alla moderna chimica fisica infratomica, sebbene non si trattasse ancora di parti di atomi; fece da preludio alle sintesi tra i dati sperimentali meccanici, chimici ed elettrici.
Ogni molecola di un dato corpo chimico si compone di due parti che si dicono joni, unite da un legame elettrico. I due joni sono carichi di elettricità di polo opposto, e quindi si attraggono, si tengono stretti tra loro. Lo jone positivo sodio e lo jone negativo cloro (metallo e metalloide) formano, combinati, il sale comune, cloruro di sodio. Badate che non è il discorso dell’elettrone e del protone, che uniti formano il neutrone, ma qui ci serve lo stesso. La molecola di sale è, dopo quell’amplesso elettrochimico, neutra, scarica, stabile, indifferente, si mette in una posizione qualunque anche se sta in un campo elettrico potente, e non si degna di voltarsi verso nessuno.
Ma jonizzate il sale! Il che avviene in tanti casi, tra cui quello molto semplice di scioglierlo nell’acqua, e fate passare in esso una lieve corrente elettrica (ben aveva detto l’alchimista di mille anni fa corpora non agunt nisi soluta, i corpi sono attivi solo in soluzione, e la scienza è sempre alla fine vecchia e nuova); ebbene, i due joni si staccano, la loro carica polare torna in evidenza, essi non si possono più porre in un’attitudine arbitraria, secondo un asse qualunque, ma si distinguono in due soli tipi: quelli positivi e quelli negativi. Corrono in due soli opposti sensi sulla stessa linea: i primi verso l’afflusso di forza elettrica negativa, gli altri inversamente.
Applichiamo, di grazia, per un momento il nostro modellino, che vale in una più profonda indagine per tutti i corpi e per tutti i campi della natura fisica, fino al caso sensazionale dell’atmosfera terrestre in cui siamo immersi, e che lontani cataclismi astrali, o terrene umane bombe atomiche, vengono in vario modo a polarizzare, a rendere radioattiva (per quanto ora monta, è quasi lo stesso), al corso storico dell’agglomerato umano. In certi momenti, come nel 1956 e in questa sorda fase della civiltà borghese occidentale, l’ambiente storico non è jonizzato, le innumeri molecole umane, gli individui, non sono orientati in due schieramenti antagonisti. In questi periodi morti e schifosi, la molecola persona può mettersi a giacere orientata in un qualunque modo, il «campo» storico è nullo e nessuno se ne frega. È in questi tempi che l’inerte e fredda molecola, non pervasa, e inchiodata su un asse indefettibile, da una corrente imperiosa, si ricopre di una specie di incrostazione che si chiama coscienza, e si mette a blaterare che andrà quando vuole, dove vuole, eleva la incommensurabile sua nullità e fessaggine a motore, a soggetto causale di storia.
Lasciate però che, come nella Russia della grande guerra civile, le grandi forze del campo storico si destino suscitate dagli urti delle nuove forze produttive che urgono contro la rete delle vecchie forme sociali che vacillano; è allora che nella nostra immagine l’atmosfera storica, il magma sociale umano, si presentano jonizzati, e se vi fosse un contatore Geiger della rivoluzione le sue lancette prenderebbero a follemente danzare. Le linee di forza del campo si inchiodano sulle loro traiettorie, tutto è polarizzato tra due orientamenti inesorabili e antagonisti, ogni elemento del complesso sceglie il suo polo e si precipita allo scontro con quello opposto, finisce il mortifero dubbio, va a ignobilmente farsi fottere ogni doppio gioco, l’individuo-molecola-uomo corre nella sua schiera e vola lungo la sua linea di forza, dimentico finalmente di quella patologica idiozia che secoli di smarrimento gli decantarono quale libero arbitrio!
Abbiamo voluto in questo modo presentare il suggestivo fatto storico che nella lunga guerra triennale l’immensa e gloriosa rivoluzione bolscevica ebbe di contro dozzine e dozzine di nemici schieramenti, ma la storia della sua battaglia portentosa e del suo atteggiamento sovrastrutturale conosce due soli campi, due direzioni, due forze che cozzano, due sole uscite della tragedia sociale: o periremo noi, o periranno le sozze orde di controrivoluzionari senza aggettivi.
La rivoluzione comunista può solo vincere quando, polarizzata da forze nuove questa morta atmosfera che oggi ci soffoca, dispersa la bestemmia scientifica dell’indifferente vile coesistere tra poli nemici, tutto il mondo capitalista sarà jonizzato nella fase rivoluzionaria futura, e due soli scioglimenti si porranno davanti alla lotta suprema.
Non jonizza la storia il prurito di molecoline neutre fino alla sterilizzazione mortifera, né la ha solo jonizzata la nostra rivoluzione: lo fu ad esempio perfino quando il Cristo, che fu detto Dio perché non si ridusse alla parte risibile di Uomo Capo ed Eroe, ma era impersonale forza del campo storico, jonizzò il mondo delle società schiaviste antiche con l’equivalente formula: Chiunque non sarà con me, sarà contro di me.
Un episodio di enorme eloquenza varrà a spiegare la nostra parabola odierna. Esso risale al tempo quando l’unitaria difesa rivoluzionaria doveva senza trarre il fiato gettarsi contro avanzate sorrette da tedeschi, bulgari e turchi, contro sbarchi di inglesi, americani, francesi e giapponesi, contro rivolte contadine di partiti opportunisti ed anarchici, contro nidi di forze feudali e nobiliari di stampo zarista, contro ex generali della monarchia e sanfedisti chiesastici, contro pseudo governi borghesi, socialdemocratici e socialrivoluzionari, e quando questa unitaria difesa aveva un’arma sola: l’Esercito rosso, di recente e febbrile formazione, nel cui seno tentava ad ogni passo, e spesso con successo, di farsi strada il sabotaggio e il tradimento, consumato da spie di tutti i colori politici, nel fine comune di pugnalare al cuore il governo rosso.
Ogni esercito è uno strumento tecnico, e i suoi ingranaggi ne vanno da gran distanza predisposti ed allenati. Il numerosissimo esercito rosso sorgeva dalle prime formazioni di operai armati e di guardie rosse, che avevano tratto dal solo entusiasmo rivoluzionario e di classe la loro preparazione all’arte del combattere in massa. Si stava tra la continua alternativa di disporre di elementi politicamente sicuri, ma militarmente inesperti, o di elementi politicamente almeno dubbi, ma tecnicamente adatti alla guerra e debitamente preparati educativamente e come allenamento.
L’esercito, diretto da Trotsky supremo Commissario alla Guerra, fu organizzato assumendo a farne parte, oltre ai volontari comunisti e operai, soldati e soprattutto ufficiali dei vari gradi nella professionale armata zarista.
Una posizione, indubbiamente tacciabile di infantilismo, fu presa da taluni elementi del partito: che non si dovesse combattere che con militanti dalla provata fede rivoluzionaria, e per scongiurare tradimenti non affidare reparti al comando di ufficiali dell’ex Zar.
Trotsky aveva da tempo superato tali esitazioni per diretta esperienza della complessa attività e malgrado l’indubbia conoscenza di molti casi di disfattismo. La cosa fu reiteratamente portata alla decisione di Lenin. È Trotsky che narra, al solito nel suo Stalin:
«Nel marzo 1919, alla sessione serale del Consiglio dei Commissari del Popolo, a proposito di un telegramma che annunziava il tradimento di un certo comandante dell’Armata Rossa, Lenin mi scrisse un biglietto: ‹Non sarebbe forse meglio dare un calcio a tutti gli specialisti e nominare Lascevic comandante in capo?›. Io capii che gli oppositori della mia condotta militare e in particolare Stalin avevano fatta pressione su Lenin nei giorni precedenti con particolare insistenza, e avevano fatto sorgere dei dubbi anche in lui. Scrissi sul verso della sua domanda: ‹Puerile!›. Si vede che la rabbiosa risposta aveva prodotto un’impressione: a Lenin piacevano i pensieri formulati in modo chiaro e tagliente. Il giorno dopo, con un rapporto dello Stato Maggiore in tasca, io entrai nell’ufficio di Lenin al Cremlino e gli chiesi:
‹Sapete voi quanti ufficiali zaristi abbiamo nell’Esercito?›.
‹No, io non lo so›, egli rispose, interessato.
‹Approssimativamente?›
‹Non lo so›, disse, categoricamente rifiutandosi di indovinare [non era il tipo da lascia e raddoppia, lasciateci inserire…].
‹Non meno di trentamila!›. Questa cifra lo sbalordì addirittura. ‹Ora calcolate – insistetti – la percentuale dei traditori e dei disertori fra tanti, e vedrete che non è affatto alta. Nel frattempo abbiamo potuto costituire un Esercito dal nulla. Questo Esercito aumenta e diverrà sempre più forte›.
Alcuni giorni dopo, durante un comizio di Pietrogrado, Lenin fece il bilancio dei suoi dubbi sulla questione della direzione militare: ‹Quando recentemente il compagno Trotsky mi disse che il numero degli ufficiali ammontava a diverse decine di migliaia io mi resi conto di come potevamo usare gli stessi nemici per il nostro bene; come potevamo costringere quelli che sono contrari al comunismo a costruirlo; come potevamo costruire il comunismo con i mattoni che i capitalisti avevano accumulato per usarli contro di noi… Noi non abbiamo altri mattoni›»[111].
Questo episodio, autentico perché solo un minorato lo può prendere per uno di quelli che si inventano, non ci serve qui per rilevare che quando Lenin parla di costruzione non parla da appaltatore edile ma da dirigente di partito rivoluzionario. Qui i mattoni non sono di argilla ma di carne e ossa, e l’immagine del mattone vale quella della molecola umana. Che poi quando solo il capitalismo avrà cotto mattoni e fuso acciaio ve ne saranno abbastanza per la forma economica socialista, questo è chiaro anche in senso fisico. E in Russia troppe case sono ancora di legno. Dunque non svicoliamo.
Abbiamo riportato il vivo e vibrante dialogo per applicare al caldo dato, ancora dopo quasi quarant’anni palpitante di forza storica, e parallelo a dati analoghi che potremmo trarre dalla storia di ben più lontane guerre civili e rivoluzionarie, per applicare ad essi la nostra, non certo nuova dottrina, ma attuale maniera di presentazione. Gli ufficiali zaristi poterono efficacemente combattere e vincere per la rivoluzione, anzi determinare essi col loro apporto indispensabile la vittoria della rivoluzione, perché l’ambiente sociale era, usando il termine adottato, altamente «jonizzato», e la molecola «ufficiale dell’esercito» non poteva che polarizzarsi in uno dei due sensi, e necessariamente in quello della sconfitta dei controrivoluzionari.
Essi combatterono con pari impegno, sia avendo contro forze dalle bandiere dinastiche e feudali, sia forze di origine borghese nazionale od estera, e non si fermarono a discriminazioni politiche tra i vari reparti e fronti nemici. Nella situazione suprema in cui tutta la società si muove tra due poli fiammeggianti, poco tempo vi è per i secondari fatti delle crisi di coscienza e delle decisioni soggettive, o del «voto» che si dà consultando nel foro interiore la propria signora opinione.
Gli stessi fatti e campi potenti orientarono, jonizzarono gli atteggiamenti di Trotsky e di Lenin, la cui grandezza emerge appunto da episodi come questi. L’indirizzo nelle grandi questioni non sorge dalla mente del Capo come non lo fa da una costituzione collettiva: esso è segnato secondo le determinanti leggi della storia da cervelli che costituiscono dei «contatori» di joni, di elettroni in corsa, particolarmente validi e sensibili.
Se lontanamente fosse cosa plausibile pigliare conto di quelle versioni peggio che romanzate in cui i personaggi sono, dopo messi fuori campo e dopo morti, colati in stampi ridicoli, vedremmo i due interlocutori del nostro dialogo prendere opposte spoglie e figura di Genio l’uno di tutto il Vero ed il Bene, l’altro di tutto il Falso ed il Male. Dovremmo trangugiare una versione di questo calibro: che mentre era Lenin quello di cui ogni parola era per virtù arcana infallibile (e Trotsky stesso disse alla discussione del 1926 che ogni volta che uno di loro aveva dissentito da Lenin, la Storia gli aveva dato torto, e provò che in questi casi erasi gravemente trovato Stalin, come ben sappiamo – ma non certo nel senso scemo che in un solo cervello sia insito il mandato di emettere ad ogni svolto il Verbo), all’opposto il suo contraddittore d’allora non si consultava con lui e gli altri per il miglior successo dell’armata della Rivoluzione, ma già da molti anni mirava al suo sabotaggio; e che il potere divinatorio di Lenin lo impedì! Non potendosi tuttavia assumere in fatto che abbia avuto corso la proposta di radiare tutti gli ufficiali di origine professionale dall’esercito, e non avendo in questo trionfato sabotaggio e tradimento, una tale versione non troverebbe possibile credito in sede alcuna.
Ma possa anche, favorendo lo stato di una società amorfa e disorientata se mai ne vissero, agli antipodi della vitale e generosa ionizzazione, accreditarsi una siffatta manipolazione; che resterebbe, in una teoria della storia in cui le forze della base economica e delle classi perdessero ogni determinante effetto, e al loro posto tutto fosse lasciato al gioco di due personalità, di due Uomini e di due Nomi di cui uno abbia la virtù di tutto salvare, l’altro quella di tutto disperdere?
Ammesso dunque che di questa versione dei fatti si possa convincere il mondo, è palese che altro non resterebbe a fare, anche a chi abbia per un’intera vita studiato ed applicato il «Capitale» di Carlo Marx, che recare questo al posto dove si tiene quel rotolo di carta che assomma uno degli alti portati della società capitalistica, da quando questo funzionale oggetto ha sostituito il drappo di velluto riservato ai prenci e la pratica che il medioevale rozzo Jaeger canta nella rustica ballata risolvendo il caso mit seiner Faust, di proprio pugno.
Perché a questi livelli si scende quando si spaccia una «storia» di cui ben più rispettabili sono le favole, pensate da mimi e da istrioni al fine di far scompisciare dalle risa il pubblico di buona bocca, quello che con pari animo e midolla passa dalla sala di proiezione all’elettoralesco comizio.
Fate di Lenin un automa infallibile e la vostra sciocca idea di elevare in alto sulle «forze di campo» della dinamica storica il valore motore dell’uomo-genio condurrà, per effetto di questo scempio tentativo, a rimpicciolire la storia vera del suo compito e del suo insegnamento che è la stessa cosa del suo apprendere, dell’apprendere del partito, dalla lezione degli eventi alla scala dei decenni e dei secoli.
Duramente il partito con Lenin e tutte le forze sue giunse al successo, e vi giunse in tanto, in quanto seppe tenersi sulla linea del filone dottrinario sicuro e continuo sopra i tempi e le generazioni. Tutto Lenin è nell’episodio citato in cui non detta, ma afferra con la potenza dei veri marxisti e con la diffidenza che essi hanno per il fattore opinione e volontà degli individui. È nel marzo 1919 che egli conferma nell’esercito, fino alla vittoria, gli ufficiali zaristi. Eppure nel novembre 1918 egli parla per la «giornata dell’ufficiale rosso», e fa un parallelo tra il vecchio e il nuovo esercito, quello odiato, questo amato dalle masse. E dice (in verità si tratta di un resoconto di giornale):
«I vecchi quadri dell’esercito erano composti in prevalenza dei figli della borghesia, viziati e corrotti, che non avevano nulla in comune col soldato semplice. Perciò oggi, creando il nuovo esercito, dobbiamo reclutare i comandanti solo nelle file del popolo. Soltanto gli ufficiali rossi avranno prestigio tra i soldati e sapranno consolidare il socialismo nel nostro esercito. Un esercito di questo tipo sarà invincibile»[112].
Queste sono idee diverse da quelle messe a fuoco dopo il discorso con Trotsky, ma solo un filisteo troverebbe che constatare questo sia sminuire Lenin ed il suo eccezionale apporto. Ben vero quello ora citato non è suo testuale linguaggio, e basta confrontarlo coi rudi testi circa l’uso in genere di specialisti non compagni, e con l’indubbiamente originale dizione citata da Trotsky.
Al disopra degli uomini grandi e piccoli, e contro l’insulsa teoria che il partito e i suoi capi possono e devono in ogni situazione escogitare risorse per mutarla e smuoverla, noi deduciamo tutto dai gradi del potenziale storico, di cui tuttavia possono indagarsi le leggi di mutamento, e poniamo sotto il naso di ogni presuntuoso attore storico senza scrittura il contatore Geiger: Vedi le lancette ferme? Risparmiati la pena di muovere… la coda.
Più del dettaglio di cronaca della guerra civile russa ci è dunque sembrato importante questo rilievo: che non si pensò un attimo di fare leva negli interstizi tra l’uno e l’altro esercito della controrivoluzione, ma si lottò contro tutti contendendo palmo a palmo il terreno, con una guerra che non aveva su nessun settore prospettive di armistizi, ma solo la fine di una delle due armate schiere nel nulla. Non si sognò neppure di «sbloccare» la massa paurosa ed incombente di tanti aggressori. E torniamo a vedere in questo elemento storico un’altra grandiosa conquista della rivoluzione russa, conquista che resta come arma e monito per il futuro, nonostante il fatto che la totalitaria vittoria di allora sui campi della guerra di classe non abbia potuto condurre al trionfo finale del comunismo, che appunto non può giungere se sono in armi, in parti del mondo borghese, eserciti indenni.
Questa lezione dei fatti scrive nella nostra dottrina l’altro teorema che «la guerra delle classi non ha pacifismi», non ha coesistenze di eserciti in armi e nemmeno e tanto meno di Stati politici nazionali. E questa lezione sorge dalla fase più grandiosa della rivoluzione dei bolscevichi, turpemente fatta svicolare da chi ne rubò le insegne in giochetti di truffaldina destrezza.
E qui dovremo ancora una volta far parlare Lenin, nella sua lettera del maggio 1918 agli operai di Pietrogrado, «Sulla carestia»:
«O gli operai coscienti, gli operai di avanguardia vinceranno, raggruppando intorno a sé la massa dei contadini poveri, istituendo un ordine rigorosissimo, un potere severo ed inesorabile, una vera dittatura del proletariato, e costringeranno i kulak a sottomettersi, stabilendo una giusta distribuzione del pane e del combustibile su scala nazionale – [mettiamo qui tra parentesi un brano eloquente che segue più oltre, ma calza: «L’operaio, divenuto guida avanzata dei contadini poveri, non è diventato un santo. Egli ha condotto avanti il popolo, ma anch’egli si è contagiato delle malattie proprie della piccola borghesia in disgregazione… La classe operaia non può di colpo disfarsi delle debolezze e dei vizi ereditati dalla società degli sfruttatori e dei vampiri…»] – oppure la borghesia, con l’aiuto dei kulak, con l’appoggio indiretto di uomini senza carattere e confusionari (anarchici e socialisti-rivoluzionari di sinistra) spazzerà via il potere dei Soviet e porterà avanti un Kornilov russo-tedesco o russo-giapponese… Una delle due. Non c’è via di mezzo. Il paese è ridotto agli estremi. Chiunque rifletta alla vita politica non può non accorgersi che i cadetti, i socialisti-rivoluzionari di destra e i menscevichi cercano di trovare un accordo per stabilire se un Kornilov russo-tedesco sia «preferibile» a un russo-giapponese, se un Kornilov coronato sia migliore e più sicuro per schiacciare la rivoluzione di un Kornilov repubblicano»[113].
È qui proprio Lenin che allinea davanti ai lavoratori, per incitarli alla lotta mortale, l’unità del multicolore fronte nemico, senza fare distinzione alcuna, senza mostrare altra uscita che la distruzione di tutti o la morte della Rivoluzione.
Una sintesi della situazione di guerra deve anche trarsi da Lenin, alla data agosto 1918, in altro appello agli operai per la lotta decisiva. Una volta ancora nessun posto è fatto alla speranza che le ostilità tuttora in atto tra i vari gruppi nemici nel piano mondiale possano rendere meno duro e totale lo sforzo della Russia sovietica. Nessuna inclinazione dalla parte del blocco austro-tedesco o di quello anglo-francese, nessuna maggiore dichiarata guerra di sterminio ai partiti interni di destra o di sinistra.
«La Repubblica Sovietica è circondata di nemici. Ma essa vincerà i suoi nemici esterni ed interni. Tra le masse operaie già si nota una ripresa, che è per noi garanzia di vittoria. Già si vede come in Europa Occidentale si siano infittite le scintille e le esplosioni dell’incendio rivoluzionario [mai si distoglie da questo nodo di tutto lo sviluppo lo sguardo del vivente Lenin, grande proprio per questo magnifico errore] che ci danno la certezza di una non lontana vittoria della rivoluzione mondiale.»
«Oggi, per la Repubblica Socialista Sovietica di Russia, il nemico esterno è l’imperialismo anglo-francese e nippo-americano. Questo nemico sta avanzando oggi in Russia, saccheggia le nostre terre, si è impadronito di Arcangelo, e da Vladivostok (se si presta fede ai giornali francesi) è giunto a Nikolsk-Ussurisk. Questo nemico ha assoldato i generali e gli ufficiali del corpo cecoslovacco [prigionieri di guerra liberati e avviati via Siberia ed Estremo Oriente]. E marcia contro la pacifica Russia con la stessa ferocia e compiendo gli stessi atti di rapina compiuti dai tedeschi in febbraio, con l’unica differenza che gli anglo-giapponesi hanno bisogno non soltanto di conquistare e saccheggiare il suolo russo, ma anche di abbattere il potere sovietico per 'ristabilire il fronte', per attrarre cioè nuovamente la Russia nella guerra imperialistica (o, più semplicemente, di rapina) dell’Inghilterra contro la Germania.»
«I capitalisti anglo-giapponesi vogliono restaurare in Russia il potere dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti per poter spartire con loro il bottino arraffato durante la guerra, per asservire gli operai e i contadini russi al capitale anglo-francese, per estorcere loro gli interessi dei molti miliardi dati in prestito, per spegnere l’incendio della rivoluzione socialista che è iniziata in Russia e che minaccia sempre più [udite] di dilagare in tutto il mondo».
«Le belve dell’imperialismo anglo-giapponese non hanno forze sufficienti per occupare e asservire la Russia. Queste forze fanno difetto anche alla nostra vicina, la Germania, come ha provato l’‹esperienza› dell’Ucraina. Gli anglo-giapponesi contavano di coglierci alla sprovvista. Non vi sono riusciti. Gli operai di Pietrogrado, poi quelli di Mosca e dopo di tutta la regione centrale industriale, si sollevano con sempre maggiore unanimità, con sempre maggiore tenacia, sempre più in massa, con abnegazione crescente. In ciò è il pegno della nostra vittoria.»
«I predoni… contano sul loro alleato interno: grandi proprietari fondiari, capitalisti, kulak… Così hanno agito e continuano ad agire i cadetti, i socialisti-rivoluzionari di destra e i menscevichi: basterà ricordare le loro imprese ‹cecoslovacche›… Così agiscono i socialisti-rivoluzionari di sinistra, che nella loro estrema stoltezza e mancanza di carattere hanno aiutato con la rivolta di Mosca le guardie bianche a Jaroslavl, i cecoslovacchi e i bianchi a Kazan»[114].
Questo scorcio, in cui non ancora si configurano le avanzate di Kolčak, di Wrangel, di Denikin, di Judenič, dà l’idea dell’enorme posta storica in gioco. Quella del compatto fronte che va da zaristi ad anarchici, da kaiseristi tedeschi a democratici francesi e inglesi, è una sola: fermare la rivoluzione in Europa. I due gruppi di stati nemici nella tremenda guerra ancora non decisa si rendono solidali nello sforzo contro il comunismo avanzante. Non si lotta per Mosca o per la Russia, ma per il mondo intiero, e la solidarietà di classe va oltre la guerra nazionale.
Con la stessa potenza dialettica con cui la costruzione poderosa di Lenin snocciolò i grani della serie storica delle classi e dei partiti, dai feudalisti agli esserre di sinistra, in un lungo corso dal 1900 al 1918, così li rimise allora e per sempre insieme nella guerra guerreggiata con la Rivoluzione mondiale. Disonorarono questa tradizione immensa quelli che, nei tristi anni che seguirono, tornarono a raccattare discriminazioni tra gli opportunismi e tra gli imperialismi, che tutti gridarono pari odio e morte al bolscevismo e a Lui.
Notes:
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Cfr. la fine del paragrafo 15 di «Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia», più sopra. [⤒]
L. Trotsky, «Stalin», pagg. 388–389. Una documentazione appassionante di come Lenin seguì dal centro di Mosca ogni anche minimo dettaglio della ciclopica lotta su tutti i fronti, si ha ora nei «Trotsky Papers», 2 voll. (1917–1919 e 1920–1922), a cura di J. M. Meyer, L’Aja – Parigi, 1964 e 1971. [⤒]
L. Trotsky, «Stalin», pagg. 381. Cfr. l’opuscolo di Lenin: «Successi e difficoltà del potere sovietico», marzo-aprile 1919, in «Opere», XXIX, pag. 58. [⤒]
«Discorso per la giornata dell’ufficiale rosso», 26 nov. 1918, in Lenin, «Opere», XXVIII, pag. 196. [⤒]
«Sulla carestia», 22 maggio 1918, in Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 361 e 364. [⤒]
«Compagni operai, alla lotta finale, decisiva!», in Lenin, «Opere», XXVIII, pagg. 51–52. [⤒]