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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXI)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXI)
55 – Nel 1919 il capitalismo rinacque
56 – Vie della rinascita
57 – Il capitalismo è uno
58 – Alla luce dei grandi principi
59 – Essenza costante del capitalismo
60 – Caratteri dello sviluppo russo
61 – Lo sviluppo internazionale
62 – Innesti di nuova gioventù
63 – Sequenze del film sovietico
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Notes
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXI)

55 – Nel 1919 il capitalismo rinacque

Dal dibattito di Lenin con Bucharin nell’VIII congresso del partito bolscevico abbiamo tratto una citazione che concludeva: assistiamo al risorgere del capitalismo e allo sviluppo del suo primo stadio.

Lenin deduceva tale limpida verità di fatto dalle conseguenze della guerra imperialista che aveva devastato parte della Russia, seguita dalle altre non meno gravi devastazioni della guerra civile.

Ci sembra utile ricollegare tale constatazione e lo sviluppo dottrinale che le dà Lenin alla formula da noi usata sia nel «Dialogato coi Morti», che nella riunione di Cosenza.

Tutti i dati russi, ed anche quelli che sono nel famoso «Breve corso» e nel «Manuale di economia politica», di stretta marca staliniana, concordano nel ritenere che al suo minimo la produzione industriale russa, proprio in quell’anno 1919, toccò il fondo di un settimo della produzione antebellica. Ciò conferma quanto abbiamo dato nel nostro «Quadro» e nei diagrammi illustrati a Cosenza[178] ed in via di più esatta elaborazione circa la caduta tra il 1913 e il 1920, che è dell’87 per cento del livello di partenza. Esempi storici di discese di questa gravità non ne abbiamo trovati: il massimo effetto delle discese da «crisi economica» è dato dagli Stati Uniti nel 1929–32, ed è del 46 per cento; ossia la metà del disastro industriale russo, il quarto quanto a punto di arrivo. Inoltre si scende da un livello di alto potenziale industriale, assai più del massimo russo di anteguerra, che sarebbe facile far risaltare con gli indici pro-capite. La Russia del 1920 non produsse che 116 300 tonnellate di ghisa: il 2,8 % del 1913 in cui ne produceva 4,2 milioni di tonnellate! Di acciaio nel 1913 («Manuale») produsse 4,3 milioni di tonnellate (circa 30 chili per abitante). Nel fondo della crisi non restava che 1 chilo circa (uno) per abitante! Oggi sono 200 chili contro i 660 americani. Rifacendo il conto per 200 anziché 220 milioni di abitanti, sono 225 chili.

Ora l’America, al fondo della crisaccia 1932, produceva sempre una trentina di milioni di tonnellate di acciaio e dunque circa 200 chili per abitante, quanto la vantatissima Russia siderurgica di oggi, 1955! Nessun paragone tra l’incidenza delle due crisi. Se guardiamo le cadute industriali da guerra, i massimi sono dati dalla Germania, due volte: 45 e 69 per cento, e dal Giappone, una volta: 70 per cento. Si potrebbe rifare il confronto e sarebbero sempre fenomeni diversi dalla caduta russa dell’87, ossia al 13 per cento, al noto settimo, mentre per quei due paesi dalla ben più potente attrezzatura, rispetto alla Russia 1913, si cade al terzo circa (31 e 30), sopravvivendo almeno tanto potenziale industriale quanto se ne era ottenuto in Russia prima del precipizio (circa 30 chili di acciaio per abitante).

Dialetticamente la quantità compare come qualità: un capitalismo ridotto ad un chilo di acciaio per persona, che basta per i chiodi, le pennine e gli spilli in un anno, non è più capitalismo. Non risale, come «quantitativamente» parrebbe, ma rinasce, da un fondo sociale precapitalista. Quindi la Russia ha avuto due capitalismi, e non un capitalismo sostituito da socialismo.

È quindi per noi importante che questo stesso teorema venisse da Lenin spiegato al pur valoroso Bucharin, chiamato volta a volta – nelle frequenti svolte dialettiche prese al rovescio, ma riscattate alla fine cadendo da rivoluzionario di razza – profondo conoscitore di Marx (anche in questo testo) e non abile all’impiego della dialettica.

56 – Vie della rinascita

Lenin vede venire questo nuovo industrialismo capitalista, senza indulgere a nessun pietoso velo, in tutta la potenza dinamica del marxismo. Ne vede tutte le possibili soluzioni, e questa impostazione data in partenza, nel momento della spaventosa pausa vitale, contiene già tutta l’alternativa che pesò sul partito bolscevico russo negli anni che seguirono, e riempì di sé i violenti scontri con le opposizioni che è fatica titanica svincolare dal peso dell’ammasso di falsità che vi ha sovrapposto per oltre trent’anni lo stalinismo – mentre è vano sperare che la macchina dirigente dello Stato russo, vedova di ogni forza teoretica di partito, e parimenti impotente a digerire la dottrina di Marx e di Lenin, faccia qualcosa per ridare luce alla verità, tutta dedita come è a governare il timone secondo l’opportunità di fatto delle ultime svolte.

Siamo sempre lì. Il dibattito che studiamo riguarda un programma di partito, ed anzi quel suo primo capitolo che è descrittivo della situazione sociale. Può sembrare un lusso dottrinale quello di correggere l’omissione del primo formarsi della produzione capitalistica iniziale, in ambiente di libera concorrenza, passando subito alle caratteristiche del capitalismo del tempo imperialista. Invece la correzione non è solo di natura scientifica, ma di attualità storica e politica di quel momento. Le rettifiche di principio sono tutte preziose e fondamentali in quanto, come di norma, valgono ad evitare «sbandate» di tutti i luoghi e di tutti i tempi: ma insieme ad esse è sul tappeto l’ardente decisione sulle prospettive dello sviluppo russo.

Poniamo di primo abbordo la questione così: il partito crede, e preferisce, che l’industrializzazione della Russia (da tutti ritenuta indispensabile, in quanto o la si attua, quale che sia la trama dei rapporti produttivi, o si cadrà sotto l’invasione delle armate borghesi prima che la rivoluzione internazionale divampi) nasca nelle forme di un capitalismo secondario, di tipo imperialista?

Ci pare evidente che è la seconda forma che storicamente si è realizzata. Che significa che per Lenin nel 1919 questo non era né sicuro, né – per chi legge da dialettico – soddisfacente? Significa che Lenin sbagliava? Per noi significa che Lenin avvertiva il pericolo controrivoluzionario. Da allora sono passati trentasette anni. Noi assumiamo, e ciò corona quanto sotto tanti aspetti abbiamo detto in tutto lo studio, che il risultato ottenuto, per il comunismo rivoluzionario, non è solo un risultato fermato a mezzo sulla china della storia, ma è deteriore – soprattutto in riflesso all’economia agraria – rispetto a quello dell’edificazione (qui la parola va a posto) di un capitalismo di tipo primario. E diciamo di più: non solo nell’ipotesi, per noi ammissibile (si veda l’esegesi del dibattito 1926), un controllo statale comunista e internazionalista su tale sviluppo, ma anche nell’ipotesi della sua caduta sotto un potere dichiaratamente borghese, e della formazione aperta di nuove condizioni di rivoluzione classista, in parallelo a quelle mondiali.

Bucharin più tardi doveva proprio lui sviluppare tale teoria, ma al solito si buttava tutto su una deduzione dottrinale sviluppata unilateralmente e metafisicamente. Ciò si prestò a farlo apparire, da parte dei veri luridi traditori, come difensore dei capitalisti liberi agrari, dei kulak, che Stalin ebbe, nelle versioni ufficiali, il merito di fisicamente sterminare nel 1928.

Anticipiamo un momento la conclusione: essa sta nel confronto tra una campagna ove i proletari rurali senza terra conducano la lotta di classe, e quella attuale ove l’enorme maggioranza non è nemmeno – come nelle industrie urbane – di salariati di Stato, ma di esercenti e di goditori privati e familiari; in una parte, di minor peso economico e ancor minore peso sociale, associati in gestioni cooperative. Il socialismo non si rinviene né nell’uno né nell’altro sistema, come non si rinverrebbe nemmeno in un totale statalismo terriero di gestione o di esercizio. Chiamiamo duramente i tre tipi: kulak, colcos, sovcos. Quello attuale (che si presta allo stupido vanto: i capitalisti nella campagna non ci sono più) è per noi un punto di arrivo disfattista. Al suo posto Lenin avrebbe optato per il terzo, o per il primo, ben vero tutti e due non come traguardi finali, ma come strade per traversare il periodo di «buoni rapporti» coi contadini, e mantenere la rotta verso il socialismo, e verso il suo termine inseparabile: rivoluzione all’ovest.

Torniamo ora a seguire la dimostrazione di Lenin all’VIII congresso, dopo aver ricordato la sua valutazione dell’effetto della rivoluzione di Ottobre fuori delle due capitali e delle grandi città industriali: trasporto della lotta di classe nelle campagne. Lotta di classe vuol dire presenza dei kulak, e dei milioni di contadini loro salariati appoggiati dallo Stato operaio. Far sparire i kulak è il naturale obiettivo di questa lotta, ma pagano con la degradazione dei proletari di campagna da lavoratori associati a lavoratori parcellari, significa aver liquidato la lotta di classe ma dato vittoria alla controrivoluzione, imprimendo alla pur utile e rispettabile rivoluzione borghese di Russia una tonalità arretrata, e non avanzata, in quanto tale, in quanto borghese. Tu vedi, o Bucharin, che la lotta tra forma secondaria e primaria del capitalismo è già vinta; non vedi che siamo ancora al passaggio da forme precapitaliste rurali ad un capitalismo di sviluppo infantile e primario?

57 – Il capitalismo è uno

Lenin aveva detto che siamo nel 1919 in Russia dinanzi al risorgere di forme capitaliste del primo stadio. Aggiunge due cose importanti. Una è che questo stesso avviene fuori di Russia. L’altra è che passerà molto tempo prima che si possa fare un programma alla Bucharin, più elegante perché non affianca due partiti eterogenei, e si riduce a porre così la questione: abbiamo il potere e la dittatura, definiamo il nostro futuro passaggio dal capitalismo imperialista al socialismo totale. Elegante, ma falso semplicemente, Lenin dice; e quando ha meno voglia di complimenti a Bucharin scrive duramente: Bucharin lo capisce e dice che il programma deve essere concreto.
«La concretezza di Bucharin consiste nella descrizione libresca del capitalismo finanziario»[179].

Lenin è sempre rivoluzionario quando fa fare i «passi indietro». Egli dice dunque quanto al tempo:
«Da questa disparità, da questa costruzione fatta con materiale difforme – per quanto spiacevole e poco armonico possa parere – non usciremo per un ben lungo periodo. Quando ne usciremo, tracceremo un altro programma. Ma allora vivremo nella società socialista. Sarebbe ridicolo pretendere che allora le cose vadano come vanno oggi»[180].

Leggendo con gli occhi che ci vogliono, questo vuol dire: il capitalismo è uno, nei due tempi primario e secondario. È uno in tutti i luoghi al di sopra di ogni ineguale sviluppo, che possiamo constatare e studiare.

Questo nemico unico deve cadere sotto i colpi della rivoluzione internazionale, livellatrice delle condizioni della società socialista.

Quanto al luogo già Lenin aveva detto:
«E oggi non soltanto in Russia, non soltanto in Germania, ma anche nei paesi vincitori, incomincia appunto un’immensa distruzione del capitalismo contemporaneo, che elimina ovunque questo apparato artificioso [udite! Lenin allude alle forme monopolistiche] e risuscita il vecchio capitalismo».

Questo concetto del regredire delle forme dirigiste e monopoliste dopo le guerre non è di lieve conto. Per la Russia Lenin lo ribadisce con prove che trae dal «caos dei trasporti» e dal rinascere della mala pianta dei «mesciotniki», o venditori ambulanti neri, che noi diremmo «intrallazzisti». Egli cita la testimonianza di compagni tedeschi e anche svizzeri. Chi ha vissuto due dopoguerra ponderi questo formidabile rilievo, che sembra di passaggio, di Lenin. Chi di noi dopo la seconda guerra non ha qualche giorno potuto mangiare solo in quanto un tipo col sacco in ispalla ha bussato alla porta con un sorriso ruffiano? Era un «accumulatore primitivo di capitale»; ci riempiva la pancia svuotando il proletario borsellino. Se fossimo fisionomisti lo vedremmo passare ogni tanto in una fuoriserie. In qualche nostra città i più orrorizzanti grattacieli sono elevati da un ex stracciarolo, divenuto grazie al democratico sterco, se non il primo, il secondo cittadino.

Lenin continua, dopo la citazione della più che neutrale Svizzera:
«Questa categoria non la farete rientrare in nessuna definizione della dittatura del proletariato: dovrete ritornare indietro, ai primordi della società capitalista e della produzione mercantile».

Poi ritorna alla Russia e si rifà al suo antico programma, smentendo l’insinuazione del vivace Bucharin che si trattasse di vecchie viscere paterne.
«Il capitalismo da noi descritto nel 1903 continua ad esistere ancora nel 1919, nella repubblica proletaria sovietica, appunto in forza della decomposizione dell’imperialismo, del suo fallimento. Tale capitalismo si può trovare per esempio sia nel governatorato di Samara, sia in quello di Viatka, non troppo lontano da Mosca. In una epoca in cui la guerra civile smembra il paese, non usciremo tanto presto da questa situazione, da questa economia da mesciotniki».

Non se ne è usciti ancora, nella pianificatissima ma capitalistissima economia del 1955. Non sono membri di una classe nuova, ma rigurgito di forme vecchissime, i burocrati privilegiati della macchina statale, parassiti di un caos produttivo dai rendimenti pietosi a petto dei vecchi e nuovi capitalismi esteri. E i vari oratori dei congressi politici ventesimi e più che ventesimi, non sono che mesciotniki di un surrogato pestifero della dottrina dei giganti Marx e Lenin, che intrallazzano per il mondo.

58 – Alla luce dei grandi principi

Lenin si diffonderà in altri testi, che abbiamo studiato e studieremo ancora, sulla descrizione della struttura russa e del suo evolversi. Qui assurge a stabilire alcuni essenziali capisaldi, decisamente respingendo ogni contrapposizione alternante tra le due forme e tappe, liberistica e monopolistica, del capitalismo. Lenin ci pare esclamare: se un Bucharin che «mi sono cresciuto io» piglia di questi granchi sulla base del mio libro sull’imperialismo, e mi va fuori dai binari di papà Marx sui quali credevo avergli insegnato a correre senza la più piccola incertezza, che faranno gli altri, dopo, altrove, quando io sarò morto e quando sarà morta la Grande Rivoluzione?! Egli sembra avvertire le poderose sbronze dottrinarie per cui lontani pretesi marxisti di sinistra, inforcando quella sua pretesa alternativa, voltati dalla parte del deretano, partiranno per future crociate, e diranno che quel poverello di Marx conosceva solo un capitalismo oggi «superato», che oggi non va più: sono loro che, per evitare fiaschi del genere di quello capitato a Lenin, devono tutto riscoprire e rifare. Danno quindi di sprone al destriero della nuova dottrina, e gli allentano del tutto la coda, che tengono in pugno, pieni di sé.

Lenin ha ripetuto: In ogni governatorato agricolo vediamo, accanto all’industria monopolizzata, la libera concorrenza. Ma qui si ferma e sembra aver pensato: una volta ancora bisogna ritornare da capo, ricominciare ab ovo. Che Samara e che Viatka!
«In nessun luogo del mondo [passo da noi già citato] il capitalismo monopolistico non è esistito, né esisterà mai [nessuno-mai: la questione di dottrina per i marxisti precede sempre la valutazione particolare, di contingenza] senza che, in parecchi settori, sussista la libera concorrenza. Descrivere tale sistema significherebbe descrivere un sistema staccato dalla vita, falso, fittizio»[181].

Prima di proseguire su altre citazioni già, per la loro essenzialità, richiamate (vi fummo condotti perché il nostro illustre partner Stalin, che ignorava noi in modo totalitario, sta bene, ma ignorava altrettanto che fine avrebbe fatto la sua notorietà di immortale, si compiacque di battere l’eterodosso Jarošenko paragonandolo al Bucharin del 1919 battuto da Lenin, mentre egli aveva fondato tutto sulla difesa di Bucharin fino a quasi dieci anni dopo!) vogliamo fare un’ovvia dialettica integrazione. Bastano pochi passaggi algebrici (frase, citata da Marx, di Hegel su Keplero-Newton). Non esiste in nessun luogo e tempo la concorrenza pura, senza monopolio. Lo sviluppo è già in Engels, pre 1848 (la concorrenza genera il monopolio e il monopolio genera la concorrenza) e si potrebbero addurre diecine di passi di Marx. Se il capitalismo sviluppa al massimo il mercantilismo e dilata i mercati, grazie alla concorrenza, a limiti geografici prima ignoti, esso lo fa in quanto rompe preesistenti sfere di monopolio dovute al limitato giro delle merci. Se il capitalismo storicamente richiama la categoria concorrenza, la precedente proprietà signorile richiama la categoria monopolio. Da monopoli spesso sorse la prima accumulazione del capitale monetario, e i primi capitali dei re e degli Stati che dettero slancio alle grandi manifatture, alle grandi compagnie estrattive, di navigazione, ecc.[182].

Che le deduzioni di Marx si basassero tutte sulla descrizione di una società integralmente di concorrenza, è annosa buaggine. I capitalisti sostennero sempre che il loro sistema avrebbe girato a perfezione appena eliminatine gli inconvenienti, che facevano risalire alla presenza di avanzi e scorie feudali, e Marx provò come anche ammessa tale ipotesi le tesi rivoluzionarie erano pienamente dimostrate: la prima era quella della ricaduta nel monopolio e nel totalitarismo economico.

Inoltre Marx, nella teoria della rendita di natura borghese, dette tutte le equazioni che spiegano il moto del capitale monopolistico, e parassitario, che Lenin verificò per i periodi di espansione mercantile che preparano le guerre e le dittature imperiali.

Quando Marx dice che la democrazia è una dittatura della borghesia, egli dice, in lingua economica, che la produzione capitalistica mercantile esprime un monopolio di classe della produzione e dei prodotti.

Quindi la «libresca» contrapposizione di Bucharin non era solo un errore di fatto alla data 1919 in Russia, ma nasceva da errori di principio, storici e dottrinali, che Lenin elimina.

59 – Essenza costante del capitalismo

«Se Marx diceva della manifattura che essa è una sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo».

Questo passo importante sta a dimostrare che durante la tappa imperialista il capitalismo resta lo stesso nella sua «struttura» essenziale, la quale non viene sostituita da una diversa struttura, ma genera una sovrastruttura sociale. Questa consiste nelle coalizioni tra imprenditori capitalisti, nella coalizione tra capitalisti finanziari, tra banchieri, nella più stretta unione tra queste forze unitarie di classe e lo Stato politico, o meglio nella più evidente unione, che si evolve verso il militarismo, l’occupazione delle colonie (fatti già storicamente dati all’inizio del primo capitalismo), verso più strette forme del potere politico, e la più palese, ma non nuova, dittatura politica del capitale. L’imperialismo non è un nuovo sistema economico al posto di un altro, ma una nuova sovrastruttura dello stesso sistema capitalistico a base di lavoro associato, di salariato, di rovesciamento dei piccoli produttori autonomi nel proletariato.

La citazione di Marx va così chiarita. Quando sorge la più semplice forma di manifattura capitalistica, la cooperazione semplice, non si ha che il riavvicinamento di tanti lavoratori parcellari che seguitano a fare l’antico mestiere, ossia producono un manufatto finito. Il mutamento non sta nella tecnica di lavoro, che resta la stessa; ma in un fatto economico-sociale, in un rapporto di proprietà: utensili, materie impiegate, manufatto finito non appartengono più al lavoratore parcellare, ma ad un unico capitalista che ha potuto anticipare gli acquisti di materia prima e salari. Tecnicamente nulla è cambiato, e nemmeno come rendimento della forza di lavoro (salvo, come Marx indica – Libro I, Cap. XII, Divisione del lavoro e manifattura – una economia sui tempi di trasporto ai singoli e dai singoli operatori). Quindi alla stessa struttura produttiva tecnica, ossia alla stessa piccola produzione artigiana, ma applicata ad una grande massa di prodotti, si è sovrapposta la forma capitalistica del padrone di manifattura. Quando la manifattura diventa organica, riunisce mestieri diversi da un lato, e poi con la divisione tecnica interna del lavoro li spezza in varie operazioni elementari, ad una mutata struttura tecnica e impiego della forza lavoro, di potenziato rendimento, si applica la stessa sovrastruttura sociale, e lo stesso rapporto di produzione tra salariato e capitalista, di prima.

Il «vecchio» capitalismo ha già svolto tutta la sua corsa di miglioramento del rendimento sociale del lavoro, quando è giunto alla grande industria meccanica.

Il monopolismo non fa fare a questa struttura tecnica nessun passo nuovo, ma vi sovrappone una nuova forma sociale-politica: il cartello padronale di classe, il peso dello Stato politico nella gestione della produzione, il prevalere della produzione, il prevalere sul capitale industriale del capitale finanziario. La nuova sovrastruttura consiste in queste forme parassite: la struttura-base resta la stessa, e la teoria della sua condanna era già perfezionata.

Ma se tutto ad un momento si sfascia e si ricade nelle forme di basso rendimento dell’economia di minutaglia, il «vecchio» capitalismo ha ragione utile di risorgere: in sostanza ha riguadagnato un diritto alla vita.

Dobbiamo ripetere quanto è forcaiolo e coglione chi lotta perché si torni indietro dalla fase dei grandi monopoli?

60 – Caratteri dello sviluppo russo

Questa chiara ricostruzione si riconferma nelle classiche frasi di Lenin, che abbiamo nel «Dialogato coi Morti» a pag. 72 in parte citate, riservando un maggior svolgimento del basilare tema.

«Sostenere [Bucharin] che esista un imperialismo integrale senza il vecchio capitalismo, significa prendere i propri desideri per realtà».
E noi diciamo: erano desideri rispettabili, e se vogliamo rivoluzionari. Ma il sostenere che possa esistere il vecchio capitalismo libero senza monopolismo e imperialismo, non solo è parimenti illusorio, ma mostra che si hanno desideri da forca.

«Se ci trovassimo di fronte ad un imperialismo integrale, che avesse trasformato da cima a fondo il capitalismo, il nostro compito sarebbe centomila volte più facile [animali, qui sta da oltre cent’anni il centro di tutto!]. Avremmo un sistema nel quale tutto sarebbe sottomesso al solo capitale finanziario. Non ci resterebbe allora che sopprimere la cima e rimettere il resto nelle mani del proletariato. Sarebbe cosa infinitamente piacevole, ma che non esiste nella realtà. In realtà lo sviluppo è tale che si deve agire in tutt’altro modo».

Lenin ripete e sottolinea il suo teorema:
«L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo».
Così prosegue:
«Quando esso crolla ci si trova di fronte alla cima distrutta e alla base messa a nudo [la base, la sottostruttura, la vera struttura intima]. Ecco perché il nostro programma, se vuol essere veramente corretto, deve dire quello che è. C’è il vecchio capitalismo, che in diversi campi si è sviluppato fino all’imperialismo».

Lenin è ritornato, in questo rapporto fieramente polemico, da cui ci preme trarre ora quanto trascende lo stesso vitale contenuto di quella polemica, al decorso russo sociale, che è poi il nostro tema di ricerca.
«Le sue tendenze [notate] sono esclusivamente imperialistiche. I problemi essenziali possono essere esaminati unicamente dal punto di vista dell’imperialismo. Nessun problema importante della politica interna ed estera può essere risolto altrimenti che dal punto di vista di questa tendenza. Non è di questo che parla oggi il programma.
In realtà, esiste l’immenso sottosuolo del vecchio capitalismo. Vi è una sovrastruttura, l’imperialismo [udite!] che ha condotto alla guerra; e questa guerra è divenuta il punto di partenza della dittatura del proletariato. [Lenin dice punto di partenza, perché la dittatura è mista con i contadini, ed è solo nazionale]. Non si può saltare questa fase [sic!]. Questo fatto [udite!] caratterizza lo sviluppo stesso della rivoluzione in tutto il mondo [udite!] e rimarrà un fatto per lunghi anni«
[183].

Il modo in cui Lenin, a dispetto delle incessanti ed incessate menzogne, vede lo sviluppo della rivoluzione in Russia, è quello che lo salda allo sviluppo di essa in Occidente. Nell’ipotesi che la seconda ritardi, diviene assurdo tratteggiare voli, come quelli che Bucharin sosteneva in buona fede, da una tappa finale del capitalismo russo ad una società socialista nazionale.

Notiamo che il «Manuale» staliniano di economia politica descrive prima il modo di produzione socialista, e lo divide in varie parti:
A) Il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo.
B) Il sistema socialista di economia nazionale. Quanto alla sezione
C) che chiude il trattato, si tratta solo dell’edificazione del socialismo nei paesi di democrazia popolare.

Ad un sistema di economia socialista internazionale, non ci si pensa nemmeno. E qui sarebbe già provato che il «modo di produzione» descritto come socialista non è che un’ulteriore, leniniana «sovrastruttura del solito e infamato capitalismo». Come dall’analisi emerge.

61 – Lo sviluppo internazionale

«Nell’Europa occidentale le rivoluzioni si faranno forse con meno scosse. Tuttavia la riorganizzazione del mondo intero, la riorganizzazione della maggioranza dei paesi [pensate alle colonie, ai popoli di colore] richiederà anni e anni. E questo vuol dire che nel periodo di transizione in cui viviamo ci sarà impossibile uscire da questa realtà a mosaico. Questa realtà, composta di parti eterogenee, non si può respingere, per quanto inelegante essa sia […] Un programma compilato altrimenti sarebbe errato».

Lenin qui svolge punti di vista che abbiamo già sviluppato in vari tempi. Spiega che si è imbrigliati nelle forme mercantili di un capitalismo iniziale. Svolge la questione già da noi esposta, utilizzando il parallelo rapporto sul lavoro nella campagna, del contadino medio. Donde sarebbe potuto venire, egli esclama, il contadino medio nell’epoca di un capitalismo puramente imperialista? Esso già non esisteva nei paesi semplicemente capitalistici!

«Se risolveremo la questione del nostro atteggiamento nei confronti di questo fenomeno quasi medioevale ponendoci dal punto di vista dell’imperialismo e della dittatura del proletariato, non verremo a capo di nulla; sbatteremo la testa contro il muro. Se invece dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti del contadino medio, allora abbiate la bontà di dirci, anche nella parte teorica, donde esso è venuto, e che cosa rappresenta. È un piccolo produttore di merci. Ecco cos’è! Ecco l’abbici del capitalismo, che bisogna enunciare, perché non ne siamo ancora usciti. Non volersene curare e dire: Perché dunque occuparci dell’abbici quando abbiamo studiato già il capitalismo finanziario!, non è affatto serio»[184].

Assodato così quanto lungo vedesse Lenin lo sviluppo economico futuro della Russia, e come lo vedesse lento anche nell’ipotesi, la sola su cui puntava incessantemente nel 1919 e puntò negli anni seguenti, fino alla morte, della vittoriosa rivoluzione politica operaia in Europa, dedichiamo qualche maggiore considerazione alla tesi della «distruzione del capitalismo nelle sue forme più recenti e sviluppate» a seguito della grande guerra.

Tuttavia questa teoria riposa sulla fondamentale posizione che le forme di avanzato monopolismo imperialista, di dirigismo statale, sono la condizione più favorevole per la rivoluzione socialista, ciò che non esprime altro che la teoria dell’accumulazione progressiva e della concentrazione del capitale, nerbo del marxismo rivoluzionario.

62 – Innesti di nuova gioventù

Il processo che, alla fine di una fase di spinto imperialismo, sostituisce (per forza di determinanti storiche, non certo per abilità di partiti e di capi) alla crisi rivoluzionaria una guerra generale, si esprime in questo risultato; che alla fine della guerra le forme spinte del l’imperialismo vengono mitigate, e riappaiono forme più antiche. Se la nostra visione della storia è giusta, nello stabilire un certo decorso di vita ad ogni classica forma di produzione, il ritorno del capitalismo a fasi di età minore vale un acquisto di più lunga vita probabile, un netto successo anti-rivoluzionario.

Di grande peso è dunque l’accertamento, alla fine della prima guerra mondiale fatto da Lenin, del riapparire di forme del vecchio capitalismo. L’espressione, in buona dialettica, significa capitalismo più antico di quello che si conosceva alla vigilia della guerra, nella fase classica imperialistica 1900–1913, in cui il bisogno intenso di sbocchi si traduceva in una compressa accumulazione e in un ridotto dinamismo negli incrementi della produzione industriale: i vecchi capitalismi segnavano il passo su circa il 3 per cento annuo. L’esito della guerra aprì il passo ad una convulsa fase di ripresa, meno che in Inghilterra, e i fenomeni di riemersione di forme di capitalismo meno massicce furono quelli da Lenin indicati. Alla grande crisi del 1929–32, seguì, dato che non vi fu guerra, la ripresa fino alla nuova guerra, che scoppiò in quanto le forme imperialiste avevano di nuovo preso rigoglioso sviluppo: New Deal in America; Nazismo in Germania; Fascismo in Italia; corrispondenti fenomeni in altri paesi che possono essere letti nelle statistiche economiche (vedi anche i Complementi di Varga all’«Imperialismo»).

Ma lo Stato russo, ormai sfuggito alla politica rivoluzionaria di classe, non dedusse dalla seconda ondata di «invecchiamento» capitalista la conclusione che era giunto il momento di attaccarlo ovunque. Con la sua azione demolitrice del potenziale rivoluzionario russo ed estero permise al capitalismo, specie in America, di convertire la nuova crisi economica apparsa nel 1937–38 in una ripresa fondata sullo scoppio della guerra europea, alla quale la Russia collaborò; prima con Hitler, poi nel campo opposto, due volte ed in contrario senso convitando ancora al social-patriottismo il proletariato di tutti i paesi.

La fine della guerra determinò un’altra volta la distensione imperialista, diagnosticata da Lenin, e il ricomparire del vecchio capitalismo sotto la sua sovrastruttura. Le prove non stanno solo nel pullulare di forme economiche spurie e inferiori negli anni di guerra ed immediato dopoguerra, ma in fatti economici di ben più alta sfera, come il nuovo indirizzo «antitrust» in America che ancora oggi assume la forma di legali incriminazioni, con la trama a fondo libero-concorrenziale che sottostà alla ripresa impressionante in Germania, e non solo in Germania, come altri fenomeni che ora è il caso di accennare soltanto.

Non fa eccezione l’Inghilterra malgrado la fase delle sue «nazionalizzazioni» industriali, perché essa si va ormai adeguando alla consegna di liberalizzazione internazionale dei mercati e dei fondi monetari, per quanto ciò non possa condurre che alle medesime crisi generali.

Una strana eccezione è proprio l’Italia che ha conservato tutto il suo meccanismo di statalismo dirigente ed interveniente in economia, e mostra anzi di accentuare le tendenze pianificatrici. Non vi è affare in Italia in cui non ruotino i contributi dello Stato, e questo non concorre che a rendere più parassitaria la forma del capitalismo privato, che sotto la pesante e soffocante sovrastruttura resta, come Lenin insegna, bene la stessa.

A ciò nulla muta l’impotente posizione dei partiti della sinistra socialcomunistoide. Essi fanno molto esteriore chiasso contro i monopoli; ma la voce grossa la fanno solo nella risibile materia agraria, col noto dispregio di ogni avanzo di retta dottrina. Per il resto appoggiano i piani statali di investimento e il sostegno dello Stato azionista o finanziatore alle imprese industriali.

Se tuttavia fosse proponibile quello che per sola demagogia si invoca, ossia una fase di capitalismo «alla Giolitti», presentata come ideale per la società italiana, questa non sarebbe che una richiesta di ringiovanimento dell’economia e del potere capitalistico, esprimendo la tendenza ad allontanare più che sia possibile non solo la rivoluzione, ma ogni azione autonoma della classe lavoratrice in Italia.

63 – Sequenze del film sovietico

Nel 1919 Lenin pone con mano ferrea il caposaldo della descrizione realistica del quadro economico russo. Nel 1921 esso ci sarà dato completo nel classico scritto sull’Imposta in Natura, sulla Nuova Politica Economica.

Sarà allora chiaro che al settore del capitalismo di «primo tipo» – espressione più chiara di quella di «vecchio capitalismo» – si affiancano molti altri settori ancora inferiori, e soprattutto circa l’economia agraria, tema che va a fondo sviluppato, sebbene non ci sia certo nuovo.

Senza comprendere tale quadro non si possono decifrare i movimenti delle forze sociali e gli svolgimenti che, con i noti riflessi di lotte politiche e crisi nel partito e del partito, condussero alla presente lamentabile rovina.

Ma la serie incessante dei falsi che le note fonti sovietiche di propaganda, sotto Stalin e dopo, hanno lanciato in circolazione costringe a ricostruire l’unità di visione di Lenin attingendo ad altre sue manifestazioni in tema sociale, pure nel periodo che, ricordiamolo ancora, vedeva in primo piano i compiti politico-militari della difesa del potere.

Non sarà inutile, al fine di mettere in evidenza l’abisso che separa l’idea che Lenin, con ogni marxista, ha dei rapporti economici, ed umani nel più ampio senso, propri di una società socialista, e le blasfeme definizioni dei russi d’oggi circa le loro forme di attività urbana e rurale, ricordare una iniziativa presa nel pieno della guerra civile e della disgregazione industriale e ferroviaria, quella dei «sabati comunisti». Essa partì da una circolare di Lenin sul lavoro alla maniera rivoluzionaria. Si chiedevano ore di lavoro straordinario e non retribuito nelle fabbriche, per il pomeriggio dei sabati, che ebbero il destino, per la semivacanza, di essere chiamati inglesi, comunisti, e poi col solito spirito di imitazione anche fascisti.

Il sabato comunista era però in tal modo non di maggior riposo, ma di maggior lavoro, senza maggior salario. Non si trattava di una misura economica risolvente, ma di una misura di propaganda politica; ad essa non erano tenuti tutti i lavoratori, della fabbrica o estranei, ma i soli membri del partito, anche addetti a funzioni «intellettuali».

Con un entusiasmo riboccante di semplice freschezza Lenin riporta alcune cronache fedeli ed ingenue dei sabati: la riparazione di gruppi di vagoni merci e di altro materiale rotabile, il quasi romanzato racconto dello spostamento di una pesante caldaia rimasta in luogo che la rendeva inutilizzata…

Lenin paragona l’eroismo di questi volontari lavoratori che per motivi di principio vincono la stanchezza dei muscoli per lo sforzo, e la generale denutrizione di quei tempi, a quella dei reparti in armi che tengono incrollabili i fronti della guerra civile.

Lenin muove da considerazioni generali. I filistei della II Internazionale ostentano di ammettere la lotta di classe come via alla soppressione delle classi. Ma questa non significa solo sopprimere la proprietà dei fondiari e dei capitalisti; ben anche ogni proprietà, ogni differenza tra città e compagna, ogni differenza tra le persone che compiono opera manuale ed intellettuale.

I «sabati» sono per Lenin non solo un simbolo ma un inizio del comunismo. E solo i comunisti del partito possono arrivare a tanto. Perché
«il comunismo significa una produttività del lavoro superiore a quella capitalistica, una produttività di operai liberi, coscienti e uniti, che si servono della tecnica più progredita […] perché ci troviamo in uno stadio in cui, come è detto in modo assolutamente giusto nel programma del nostro partito, si compiono soltanto i primi passi verso la transizione dal capitalismo al comunismo»[185].

Dunque, come sempre, primi passi e nemmeno verso il comunismo, ma verso la transizione ad esso. Altro che vantare, come conquistato socialismo, lavoro salariato o lavoro parcellare di famiglia rurale che mangia i suoi conigli!

«Il comunismo comincia là dove semplici operai si preoccupano con abnegazione, a costo di un duro lavoro, dell’aumento della produttività […], di prodotti che non sono destinati ai lavoratori stessi, e alle persone a loro prossime, ma a quelle lontane, cioè alla società nel suo complesso…».

E stabilito questo concetto che identifica il comunismo come una spontanea «offerta di sopralavoro alla società», in cambio della liberazione di classe dalla schiavitù del salario e dell’orario, Lenin una volta ancora si riporta a Marx. E noi ad entrambi.

«Carlo Marx deride nel Capitale la pomposità e la magniloquenza della Magna Charta democratico-borghese sulla libertà e i diritti dell’uomo, tutta la retorica sulla libertà, sull’eguaglianza e sulla fraternità in generale, che abbaglia i piccoli borghesi ed i filistei di tutti i paesi, inclusi i vili eroi contemporanei della vile Internazionale di Berna [la futura «due e mezzo»; ben degna delle attuali puttanesche manovre che saldano in Italia i tre partiti, nel cui foro interiore ben si centra il centrista tipo, Nenni]. Marx oppone a queste pompose proclamazioni di diritti la semplice, modesta, fattiva, quotidiana impostazione del problema da parte del proletariato: limitazione della giornata lavorativa!»[186].

Siamo dunque ben sicuri di non averla scoperta noi, la formula drastica che riassume tanto scientificamente quanto drammaticamente la rivendicazione proletaria comunista e rivoluzionaria: morte al maledetto lavoro pagato e necessario, largo al sopralavoro regalato senza nulla ricevere né chiedere, nella gioia di lottare per i fratelli della propria classe, e domani per la società senza classi, buona nutrice anche ai figli a riposo.

Sul volto ignobile dei tenitori orientali dei campi di lavoro forzato e degli ergastoli consacrati alla feroce deità della progressione geometrica nella produzione, emulatrice del parimenti negriero capitalismo dell’Ovest.



Notes:
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  1. Riunione tenuta l’8–9 sett. 1956 sul tema «L’economia capitalistica in Occidente e il corso storico del suo svolgimento», e illustrata nel nr. 19 dello stesso anno de «Il programma comunista». Il «quadro» rielaborato è riprodotto al paragrafo 13 del resoconto della riunione di Torino, 19–20 maggio 1956, pubblicato più oltre nel presente volume col titolo «La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea». [⤒]

  2. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  3. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 148. [⤒]

  4. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  5. La frase di Engels citata più sopra figura nell’«Abbozzo di una critica dell’economia politica», 1844 (cfr. A. Ruge e K. Marx, «Annali franco-tedeschi», cit., pagg. 174–175). [⤒]

  6. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  7. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  8. «La grande iniziativa», giugno 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 390. [⤒]

  9. «La grande iniziativa», giugno 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 390–391. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 20, Ottobre 1956

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