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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXVIII)




Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVIII)
23 [124] – Il colcos per Trotsky
24 [125] – La falsa collettivizzazione
25 [126] – Rivincita dell’egoismo rurale
26 [127] – Il peggior compromesso
27 [128] – Origine della forma colcos
28 [129] – Diritti del colcosiano
29 [130] – Spettanze del colcosiano
30 [131] – Rapporto tra colcos e Stato
31 [132] – Magro bilancio agrario russo
32 [133] – La composizione sociale
33 [134] – Dotazione di terra agraria
34 [135] – Produzione di cereali
35 [136] – Peso del sistema colcosiano
36 [137] – Le due facce del colcos
37 [138] – La tragedia del bestiame
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Notes
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVIII)

23 – Il colcos per Trotsky

Abbiamo detto della struttura del colcos come aspetto qualitativo, ma prima di passare a quello quantitativo, riferiremo il parere di Trotsky sulla natura del colcos e la figura sociale della popolazione colcosiana.

Noi tendiamo a stabilire questo confronto tra: l’agricoltura russa del tempo zarista in cui vi erano forme feudali, borghesi di grande produzione, contadine di piccola produzione, e patriarcali, quella successa alla rivoluzione di ottobre, in cui vi erano forme di grande e media produzione capitalista (kulak) e le altre minori – e quella attuale, in cui vi sono forme di produzione collettiva-particellare (colcos) e di grande produzione statizzata (sovcos); di passaggio avendo confrontata questa con quella che Bucharin ipotizzava: grande impresa capitalistica affittuaria dello Stato. Da queste varie forme di produzione deriva la valutazione della scomposizione in classi della società, sulla trama dei cinque punti classici di Lenin. Nella forma Bucharin avremmo visto: Stato redditiero fondiario (gestito dal proletariato urbano) – classe di imprenditori agrari capitalisti – classe di puri salariati agrari (braccianti).

Non si tratta di idealizzare il «piano» Bucharin, del resto troppo audace in termini di determinismo economico, ma di provare che il sistema attuale non vale meglio di esso; è più di esso vicino al «privatismo» agrario; dunque più lontano dal socialismo.

Ci interessa Trotsky perché egli considera che sia più avanti di Bucharin il sistema dei colcos, uscito vincitore dalla «liquidazione» dei capitalisti agrari. In effetti questi aspiravano non solo al possesso di masse di capitale, ma anche alla proprietà terriera, che Stalin stette fino al 1927 per mollare in parte, e mai Bucharin propose di far lasciare dallo Stato, che invece, nel suo obiettivo, avrebbe confiscato il capitale accumulato dai kulak; e oggi non può confiscare quello accumulato dai colcosiani in piccole partite, ma in massa rilevante, a spese della popolazione industriale e senza ferire quella agraria.

24 – La falsa collettivizzazione

Ecco le gravi parole di Trotsky:
«Quando la politica di fronte al contadino si orientava verso il contadino ricco [Stalin-Bucharin] si supponeva che la trasformazione socialista dell’agricoltura, sulle basi della NEP, si sarebbe fatta in decine di anni tramite la cooperazione […] Abbracciando uno dopo l’altro i campi dell’accumulazione delle scorte, della vendita, del credito la cooperazione avrebbe dovuto alla fine socializzare la produzione».
(Notiamo che si tratta di traduzioni da dozzina: ristabiliamo il senso del pensiero marxista di Trotsky: realizzata nelle mani del kulak la prima accumulazione del capitale scorte, del capitale mercantile dato dal diritto ai prodotti sul mercato, del capitale monetario atto ad allargare gli investimenti, a tali capitali accumulati avrebbero acceduto col sostegno dello Stato politico socialista i gruppi di contadini portatori della forza lavoro, agendo in cooperative sulla terra unitaria non più parcellata, e si sarebbero poste le condizioni di una socializzazione di tutto il capitale agente nell’agricoltura. Per noi sono due ben distinti tempi: a) statizzazione; b) socializzazione: ma di ciò più oltre anche in rapporto all’economia di Trotsky, circa l’industria).
«Il tuttoTrotsky seguita – si chiamava piano di cooperazione di Lenin»[261].

(Questo passo merita altra nostra inclusione: la struttura bifronte del colcos, con la sua faccia parcellare e l’altra faccia unitaria, ma più padronale che associativa rispetto al lavoratore ibridato, non è stata mai prevista da Lenin, ed è uno dei mille falsi stalinisti a porne l’origine nello scritto sulla «cooperazione» del gennaio 1923, da noi prima studiato. Lenin parla della concessione di «premi dello Stato sovietico alle cooperative di contadini» e facilitazioni, crediti, privilegi, prezzi di favore per il loro prodotto, rispetto a quello dei parcellari: mai parla di dare come premi dei «godimenti» di tipo populista. Dice tra l’altro:
«La NEP a questo riguardo [la poca cultura dei contadini] rappresenta un progresso, nel senso che si adatta al livello del contadino più comune, non esige da questi niente di superiore. Ma per ottenere a mezzo della NEP che assolutamente tutta la popolazione partecipi alle cooperative, per questo è necessaria un’intera epoca storica. Se tutto va per il meglio, noi possiamo attraversare quest'epoca in uno o due decenni»[262].
Sono i venti anni di Lenin, di cui si è tanto detto, di «buoni rapporti con i contadini», semplice prologo della vera trasformazione socialista internazionale).

25 – Rivincita dell’egoismo rurale

Prosegua Trotsky, nella qualità di valoroso storico marxista.
«La realtà seguì, lo sappiamo, una via del tutto diversa, anzi opposta, quella della espropriazione forzata e della collettivizzazione integrale. Non fu più questione di socializzazione progressiva delle diverse funzioni economiche via via che le risorse materiali e culturali l’avessero resa possibile. La collettivizzazione si fece come se si trattasse di stabilire immediatamente il regime comunista nell’agricoltura. Ciò ebbe come conseguenza, oltre alla distruzione di più della metà del patrimonio di bestiame, un fatto ancor più grave: l’indifferenza completa dei lavoratori colcosiani per i beni socializzati e per i risultati del loro lavoro. Il governo operò una ritirata disordinata. I contadini ebbero di nuovo pollame, maiali, montoni, vacche a titolo privato. Ricevettero piccoli lotti di terra vicino alla loro casa. Il film della collettivizzazione venne girato a rovescio. Con questo ristabilimento delle imprese individuali il governo accettava un compromesso, pagando in qualche modo uno scotto alle tendenze individualiste del contadino. I colcos sussistevano; per conseguenza questa ritirata poteva sembrare a prima vista secondaria. In verità, sarebbe difficile sopravvalutarne la portata. Se si lascia da parte l’aristocrazia del colcos [che se la passa in modo privilegiato, vuol dire Trotsky] i bisogni quotidiani del contadino medio sono per il momento soddisfatti in una misura più grande dal suo lavoro ‹per sé›, che dalla sua partecipazione al colcos. Capita spesso che il reddito dell’appezzamento individuale sia due o tre volte più elevato del salario nell’impresa collettiva. Questo fatto, testimoniato dalla stampa sovietica, fa risaltare con vigore, da una parte, la dissipazione assolutamente barbara della forza lavoro di decine di milioni di uomini, e più ancora di donne, nelle colture nane, e dall’altra il rendimento molto basso del lavoro nei colcos»[263].

Quanto diremo a proposito dei dati quantitativi sta a provare che il rendimento complessivo resta basso in entrambe le facce del rurale Giano sovietico: e la sua faccia contadinesca bene somiglia a quella di guerra dei templi romani: la campagna è il nerbo delle fanterie imperiali.

Qualitativamente Trotsky, che aveva pure detto che la guerra al kulak era deterministicamente imposta, più che dagli ukase di Stalin, dalla necessità di cibare il ventre sociale, viene nella nostra tesi. L’anima – e lo stomaco – privati del membro dei colcos battono del doppio o del triplo quelli di cooperatore, di lavoratore associato. La sua evoluzione cammina proprio al contrario di quella vista da Lenin, che voleva, in un decorso storico, strapparlo anima e corpo dalla vile autoservitù della gleba, la peggiore di tutte, perché si riveste dello stupido istinto padronale, proprietario. Il colcosiano psicologicamente sta alla quota del nostro contadino meridionale piccolo proprietario legato alla gleba dalle tradizioni secolari – o domani dal programma, parlando con rispetto alla faccia vostra, del partito comunista italiano. Egli si ritira compiaciuto nel microregno della sua condanna a vita, e dichiara: sto ’n cima allu mio; poggio i piedi nella breve cerchia della mia parcella, di cui sono padrone e schiavo. Non arrivo a capire che cosa voglia dire che qui cambio dieci ore di schiena spezzata in un chilo di pane, mentre fuori «dallu mio», tra i miei compagni, cambierei due ore in due chili.

26 – Il peggior compromesso

Il compromesso di Stalin, di cui pensiamo avere a sufficienza disonorata la chiassosa vanteria di avere sterzato a sinistra defenestrando i kulak e sostituendo così il «socialismo» al capitalismo nelle campagne, è assai peggiore del compromesso di Bucharin coi kulak capitalisti. Il vantaggio non era solo quello, punto centrale di tutto questo nostro studio, di non mettere fuori posto i termini che non sono parole ma forze motrici della rivoluzione non tradita. Il marxista può ben dire: Questa forma che esiste nella realtà di oggi, e non è ancora al momento di sparire, è capitalismo di Stato industriale, è capitalismo anche privato agrario, e nulla ha a che vedere con la forma socialista, con l’economia socialista. Da ciò non resta il socialismo, polo magnetico positivo della rivoluzione mondiale, disonorato né pugnalato: ma lo è senza rimedio quando a quelle forme antiche si concede a ludibrio la dichiarazione di essere socialismo. La controrivoluzione russa sta tutta in ciò.

Anche Lenin fece un compromesso con i socialisti rivoluzionari, ed in un senso più largo col populismo contadino, battuto in breccia da mezzo secolo di lotta dottrinale e «terminologica». Riconobbe che il programma antimarxista degli essere era un ponte da cui si doveva passare, e li accettò nel potere! Ma dopo poco tempo la storia ne volle lo sterminio; e si poté andare oltre.

Il compromesso «alla Lenin» è plausibile quando si tratta di sbrogliare la successione storica di una rivoluzione borghese. Il suo tempo si chiude nei campi storici in cui si tratta solo di svolgere la rivoluzione anti-borghese, come nell’Europa dell’ovest. Ivi si tratta lo stesso di stritolare i partiti piccolo-borghesi opportunisti, più pericolosi di quelli grandi-borghesi e fascisti; solo che la via dell’offerta (o subita) alleanza con essi, mancando del tutto di motivi economico-sociali, non conduce a sterminarli ma ad essere, noi comunisti, sterminati da loro, ovvero a degenerare, come dopo Lenin è avvenuto, fino alla loro spregevole funzione.

Il compromesso coi kulak che Bucharin studiava, lui che molti dei compromessi geniali di Lenin non aveva capiti (pace coi tedeschi, appoggio alle nazionalità oppresse, uso degli specialisti borghesi ad alto compenso, ecc.) era un compromesso alla Lenin. Accumulato e concentrato che avesse nelle campagne lo sminuzzato capitale agrario di esercizio, di commercio e di finanza, il kulak sarebbe stato buttato via come avvenne per gli esserre, ma con un’utilità dieci volte maggiore perché lo schema storico-economico di una agricoltura ad imprese capitaliste private di largo respiro forma una base al socialismo molto più solida che lo schema di un godimento privato alla dimensione di azienda-famiglia.

Questo compromesso poteva finire come quelli di Lenin. Il compromesso di Stalin, oltre al nefasto di uccidere il potenziale della parola, e dell’aspirazione, socialista, ha l’altro di non avere prospettiva di poter distruggere, in avvenire, la forma spuria con cui si è compromesso: l’individualismo – e peggio il familiarismo – rurale che Lenin e Trotsky con noi maledicono.

Il colcos è una forma statica, non evolvente se non nel senso di un maggior prepotere delle cupidigie egoiste ed ereditarie, in cui il capitale dell’impresa cooperativa si accumula non per preparare la classica esplosione di Marx, ma per fare da formaggio sui maccheroni alla bassa, antisociale microricchezza paesana. Domani lo Stato non trova in esso un capo solo da stringere in pugno per socializzare la macchina produttiva, e magari una testa sola da far cadere; ma un invertebrato dai cento, mille gangli vitali, impossibili a raggiungere tutti.

Il compromesso coi kulak aveva un contenuto di logica marxista. Il compromesso coi colcosiani – senza bisogno di burocrazie che vi speculassero – fu la vera capitolazione della gloria bolscevica.

27 – Origine della forma colcos

La conduzione in comune della terra ha in Russia le antichissime origini di cui a suo tempo abbiamo parlato[264]. Il «mir» è una collettività di contadini servi, in quanto nel loro complesso devono tributo di lavoro o di derrate al signore feudale, al monarca, allo Stato, o a enti religiosi. Già nel mir vi è la doppia forma di conduzione: ogni famiglia ha una sua piccola usadba, appezzamento ad orto, su cui si trova l’izba, la casa del contadino con le scorte vive e morte; la terra comune viene periodicamente spartita in appezzamenti lavorati da una singola famiglia, chiamati campi, su cui poteva lavorare e raccogliere, pagando un tributo in denaro, obrok, o in lavoro servile in terra altrui, barščina. Con la riforma del 1861 fu ammesso il riscatto dei servi, tendendo fino da allora ad una stabile lottizzazione delle terre comuni. Ma i contadini pagarono ai signori prezzi enormi, che li rovinarono totalmente, e in parte si ridussero a salariati industriali o braccianti senza terra, mentre in parte sopravvissero le forme collettive antiche, e mentre si formavano i contadini ricchi. Nel 1906 la più audace riforma di Stolypin neppure riuscì a stabilire su tutta la terra agraria un regime di aziende singole, sostituendo una partizione di stabili possessi all’antica pratica del nadiel, o periodica partizione di terre collettive. Ma si ritiene che alla vigilia della grande guerra solo un quarto della forma collettiva di gestione era stata liquidata. Dopo la rivoluzione di Ottobre, malgrado l’anarchica invasione dei contadini nelle terre tolte a nobili e borghesi, restarono ancora notevoli esempi di aziende collettive derivate da quelle antichissime, e che erano le generatrici degli odierni colcos.

Prima di vedere quale è il rapporto tra la conduzione familiare e quella cooperativa nel colcos odierno, regolato da statuti promulgati nel 1925, nel 1930 e infine nel 1935, in relazione alle costituzione 1936, è bene accennare ai tre tipi di tali forme esistenti, in limitata misura, nel tempo del comunismo militare e della NEP: 1918–1925.

La «società di coltivazione collettiva» è una forma in cui un gruppo di coltivatori apporta solo una parte delle sue terre, e vi apporta la sua opera e il suo capitale scorte, conservando però la singola proprietà sul capitale apportato sia ai fini della ripartizione dei prodotti, sia a quelli di un ritiro del membro dalla società. Tale forma di lavoro in comune è temporanea e quindi è la meno collettivizzata e la più labile.

La «comune agricola» deve invece considerarsi la forma più spinta, anche rispetto al moderno colcos, che ha preso origine dalla terza forma, o «artel», nome della corporazione contadina del medioevo, col quale nome, scambiato a piacere con quello di colcos, lo statuto ufficiale designa la stessa forma attuale.

Nella «comune», pur essendo teoricamente possibile il recesso di un socio, tutto viene conferito senza lasciare residui di godimento singolo: terra, capitale, lavoro. I prodotti sono anche comuni e distribuiti in parti eguali, mentre quanto eccede il fabbisogno di consumo va ad incrementare l’azienda. Era a questo tipo che sempre si rivolsero gli sguardi di Lenin. Come nel moderno sovcos, nella comune si abita e si mangia in comune; è radicalmente vietata ogni forma non solo di proprietà ma anche di uso singolo della terra, ed ogni prestazione salariata del lavoro. Nello statuto del 1925 era detto che «la comune agricola ha lo scopo di elevare il benessere materiale e spirituale dei propri soci attraverso: a) l’organizzazione e la conduzione in comune da parte dei membri della economia agricola; b) la distribuzione fatta in misura eguale tra i membri stessi di tutti i prodotti del proprio lavoro; c) il soddisfacimento in comune dei loro bisogni». Si può dunque dire che la tramontata forma della comune agricola attua una completa economia comunista interna. Il sovcos ne differisce in quanto non solo la terra, ma tutto il capitale è proprietà non del sovcos come associazione, ma dello Stato centrale. A questo carattere avanzato ne risponde uno arretrato: i prodotti vanno allo Stato e il lavoratore riceve un salario.

28 – Diritti del colcosiano

Secondo lo statuto 1935 dell’artel-colcos, forma intermedia che ha poi assorbito le due estreme, Comune e Società di coltivazione, ricordiamo quali sono le dotazioni personali-familiari permesse al membro. Casa di abitazione (in proprietà ereditaria). Un appezzamento che varia da un quarto di ettaro ad un mezzo, e in caso di terre meno fertili al massimo di un ettaro. Secondo lo statuto modello sono anche privata proprietà «di ogni casa colcosiana» i capi seguenti:
«tre bovini tra cui una mucca, una scrofa con porcellini, fino a dieci tra pecore e montoni, una quantità illimitata di pollame e conigli, e fino a venti alveari».

Per alcune regioni le leggi allargano questi diritti, dice lo statuto. Giusta un articolo di Pavlovskij nel n. 1–2 della rivista «Cultura sovietica», 1946, si parla di una vacca con tre vitelli e di due scrofe con figli, ma per le regioni a grande sviluppo dell’allevamento si arriva a 8–10 vacche, 100–105 pecore, 10 cavalli, 8 cammelli…

Vedremo l’importanza delle cifre. Dal punto di vista giuridico vi è qualche divergenza nelle dizioni, o forse nelle traduzioni. In sostanza si tratta di un vero diritto di proprietà privata sopra: la casa, il piccolo appezzamento, il capitale scorte dato dal piccolo inventario di utensili e dagli animali. Lo statuto applica la parola proprietà a tutte queste dotazioni, talvolta riferite alla «casa colcosiana», talvolta ai «membri dell’artel». La Costituzione parla di proprietà personale per la casa e l’impresa impiantata sull’appezzamento, e per questo stesso di «godimento personale» o «usufrutto personale».

Ma come per tutto il territorio che lo Stato attribuisce ad un dato colcos si parla di «godimento gratuito», non sottoposto a termine cioè perpetuo, lo stesso va detto del «godimento» del colcosiano sul suo appezzamento. La Costituzione infatti all’articolo 10 tutela il diritto di successione ereditaria (che per definizione è perpetuo) per i seguenti beni: proprietà personale sui proventi del proprio lavoro e sui propri risparmi, sulla casa di abitazione e sull’impresa familiare ausiliaria, sugli oggetti di uso domestico e personale, ecc.

Una vecchia idea è che «il socialismo non distrugge la proprietà personale». Ma è una formula sciocca. La dottrina marxista non si inscrive nel «diritto», perché la teoria del diritto si inscrive in essa, ne è un semplice capitolo. Se tuttavia si potesse dare una formula giuridica dell’economia socialista, essa suonerebbe così: La società è immediatamente proprietaria di ogni provento del lavoro erogato da ciascun suo componente, che su esso non esercita diritto alcuno.

Ma, restando pure nei termini della scienza del giure corrente, noi affermiamo la verità di questa equazione: godimento gratuito e perpetuo uguale a proprietà piena. Questa è una verità anche dell’economia, e non è solo per noi marxisti che il diritto nasce sull’economia. La somma delle rendite future di un bene a disposizione perpetua, riportate ad oggi (col pieno rispetto della borghese teoria dell’interesse composto), è uguale all’intero valore del capitale messo a frutto. Solo il calcolo di un usufrutto a termine futuro fissato dà una cifra inferiore a quella del valore capitale del bene, e la differenza si chiama dai giuristi: nuda proprietà. Questa verità in matematica si esprime così: l’integrale degli infiniti frutti futuri di un capitale, ciascuno ridotto al suo valore attuale, è uguale al capitale stesso.

Ne sorge che tutto il valore di terra, scorte ed altro che è dato in uso senza limiti alla famiglia colcosiana, è proprietà, ed è economia privata; e tutto il suo campo, che si tratta di stabilire, è sottratto non solo al campo socialista, ma anche a quello capitalista di Stato.

È poi al di sotto del capitalismo privato, nella serie storica dei modi di produzione, perché vi gioca lavoro non associato e non salariato (tale forma il colcosiano la eroga sulla terra cooperativa) e resta all’altezza del secondo grado di Lenin: piccola economia contadina mercantile.

29 – Spettanze del colcosiano

Si tratta ora di vedere qual è il rapporto di lavoro del colcosiano come lavoratore associato, fuori del suo campicello e del tempo in cui lo accudisce. Secondo lo Statuto, al suo ingresso nel colcos, o alla formazione del colcos dal concorso di multiple aziende singole antiche, avviene l’apporto della terra, e tutti i confini tra i campi privati sono per sempre cancellati, salvo la zona che ogni elemento-famiglia (nel termine tradizionale ogni dvor) conserva attorno alla sua casa. Quanto alle scorte che ciascun aderente possedeva prima, dal 50 al 70 per cento gli sono accreditate come sua quota contributiva nei libri aziendali, mentre il resto viene a fondo perduto versato al capitale indivisibile del colcos. A tale fondo comune ciascun aderente versa una tassa di iscrizione di 20 o 40 rubli (1935). Al colcos può aderire ogni individuo atto al lavoro, uomo o donna. Non è chiaro come vi aderiscono i figli di colcosiani, se all’atto del matrimonio, o di maggiore età, e se pagano quota; e come ricevono una nuova casa e campo; risulta l’urgente richiesta di case colcosiane negli ultimi anni. Il membro del colcos ne può uscire, e ritirare il suo capitale personale, ma non l’appezzamento di terra. In casi gravi vi è la espulsione.

Per il lavoro in comune tutti i membri del colcos vengono raggruppati in brigate, adibite a dati cicli di lavoro, d’intorno a 50 persone, e con date specializzazioni tecniche.

Il lavoro da ciascuno prestato viene misurato in trudoden o giornate di lavoro il cui valore varia secondo la capacità tecnica e il rendimento generale della produzione varianti parimenti da azienda ad azienda. L’annotazione è fatta dal «brigadiere» sui libretti individuali. Naturalmente gioca, come nell’industria russa, il sistema dei premi, in percento sui trudoden dell’anno, ai più zelanti. Sono ammessi nell’anno anticipi in denaro o generi.

Prima del conto finale fra rata del colcos e dei lavoratori, si soddisfano i prelievi per terzi. Allo Stato si debbono importanti aliquote dei vari prodotti, del grano in primo luogo, pagati ad un prezzo ufficiale più basso del mercato.
«Tali consegne obbligatorie del colcos allo Stato costituiscono – dice il citato autore russo – la forma più importante di tassazione dell’azienda agricola contadina».
Fino all’anteguerra la percentuale delle consegne si valutava in anni di buona produzione tra il 12 e il 15 per cento del raccolto. Di più si versano allo Stato le anticipazioni di sementi, e i noli alle stazioni di macchine e trattori, spesso anche stimati in quote di prodotto lordo. Si provvede quindi alle trattenute per normali scorte di sementi e per fondi di assistenza e previdenza. Quindi l’assemblea del colcos stabilisce quale parte del prodotto rimasto sarà venduta sul mercato, per far fronte alle spese aziendali. Dal netto ricavo di queste vendite obbligate e libere si ricava il reddito monetario. Di questo il 20 per cento circa va a nuovo investimento in capitale. Il resto del denaro viene distribuito ai soci dell’artel in ragione dei trudoden accreditati a ciascuno. Anche la parte in natura della produzione non venduta viene spartita allo stesso modo.

Quanto dunque il colcosiano ricava dal suo lavoro associato riveste una forma che ha del salario, in quanto la misura base è il tempo di lavoro prestato per un dato tipo di attività tecnica, ed ha del dividendo su un profitto, che è quello realizzato dall’azienda cooperativa di cui ognuno è socio sotto due profili: l’apporto iniziale di un capitale scorte e di una quota sottoscritta; e l’apporto di tempo di lavoro.

30 – Rapporto tra colcos e Stato

Se quindi come parcellista della sua ussadba il colcosiano è socialmente un piccolo proprietario conduttore diretto, come socio dell’artel egli è nello stesso tempo un lavoratore salariato ed un azionista di impresa che riceve profitto.

Sotto questa seconda forma, il colcos, che è imprenditore collettivo, sarebbe anche un proprietario fondiario (uguale a goditore perpetuo) se davvero non pagasse una rendita allo Stato, padrone di tutta la terra agraria. Ma noi abbiamo visto ora come lo Stato percepisca dall’azienda colcos versamenti così notevoli, che hanno il carattere di una forte imposta. Poiché nei paesi borghesi i proprietari fondiari privati pagano un’imposta allo Stato, bisogna dire che il colcos, oltre ad essere un imprenditore capitalista collettivo, è anche un proprietario fondiario collettivo. Se l’imposta assurgesse a valori molto alti, tali da chiamarla rendita, allora si potrebbe dire che il colcos è affittuario dello Stato e gli paga una rendita per la terra di proprietà pubblica.

Ma nel rapporto tra economia contadina, in cui il colcos rappresenta una cassa della massa rurale, e apparato statale centrale (se mettiamo da parte il solito fantasma della burocrazia classe sfruttatrice), dobbiamo contrapporre agli oneri dei colcos a favore dello Stato con le consegne obbligatorie gli altri dello Stato verso i colcos per le opere pubbliche non solo ma per mille servizi, di trasporti e di energia, di stampa, scuola, biblioteche, assistenze innumerevoli statali, e così via; il sicuro risultato sarà che lo Stato in tutto il rapporto, se non è in passivo, è tutt’al più remunerato da un’imposta a molto modico tasso, che il contadino associato paga per tutta la tutela statale.

Lo Stato, che era in teoria la forza politica della classe operaia industriale, con la sua funzione presiede ad un trasporto di valore, e di plusvalore, dalla classe operaia delle città a quella contadina-proprietaria (due volte proprietaria in forma individuale ed in forma associazionistica), così come lo Stato borghese sovrintende al trasporto di plusvalore dalla classe proletaria a quella capitalistica e proprietaria-fondiaria.

Uno Stato ispirato da interessi contadini sovrastanti quelli proletari è il naturale alleato di classe degli Stati capitalistici storici di tutto mondo, anche da quando il suo capitale industriale appariva chiuso in un compartimento stagno rispetto al capitale finanziario internazionale.

Delle tre classi della società borghese-modello di Marx, quella operaia seguita ad essere la classe sfruttata, e quella capitalistica è rappresentata dallo Stato amministrativo, non come collegio dei suoi funzionari di alto rango, ma come canale emulatore per le forze del capitalismo borghese estero. La classe dei proprietari fondiari ha preso una forma non minoritaria ma «populista» ed ha la figura di un consorzio di consorzi contadini cui rifluisce un’alta rendita fondiaria tagliata sul plusvalore che eroga il proletariato dominato e sfruttato[265].

31 – Magro bilancio agrario russo

Al rumoroso iter dell’industria sovietica, che coi suoi ritmi di incremento sbalorditivi – come abbiamo dimostrato nel «Dialogato coi Morti» – ha siglato la sua natura di capitalismo manifatturiero giovane, iniziale e prorompente sulle spalle di un proletariato sottoremunerato, corrisponde un passo storico ed economico zoppicante della campagna russa. Completiamo in questa sede il quadro dato nella Terza Giornata, Basso pomeriggio del «Dialogato» a grandi tratti di insieme[266].

Consideriamo, nel ciclo che sta fra la prima guerra mondiale ed oggi, il decorso dei dati quantitativi relativi alla superficie geografica ed agraria, alla popolazione, ed infine alla produzione agricola. Ed assumiamo, nel farlo, le cifre fornite dalle fonti sovietiche durante tali anni.

Giungeremo ad una conclusione facile ed evidente: nessun progresso, né di massa, né di rendimento, nella produzione agraria. E ciò malgrado che capitali imponenti siano stati investiti nelle campagne, praticamente a fondo perduto. In tale dramma si ripete quello della moderna civiltà borghese, che mentre ha elevato la soddisfazione dei nuovi bisogni, da essa stessa suscitati, di manufatti e servizi di varietà infinita, non ha saputo e potuto smuovere in modo apprezzabile dai livelli millenari l’alimentazione in ordine alle necessità prime vitali, e ciò mentre vaste parti dell’umanità stanno ancora al di sotto dei minimi vitali, naturali, di cibo. Nel che sta la condanna centrale che Marx dettava contro di essa.

Come superficie geografica si equivalgono il 1913 e il 1957; l’impero degli zar e l’Unione Sovietica si accampano – satelliti a parte – sulle stesse frontiere, che chiudono 22,4 milioni di chilometri quadrati. Le cifre stancano, e adotteremo il modello Italia, concreto per il lettore: «settantaquattro e mezzo» Italie.

Nell’intervallo di 44 anni la superficie territoriale è scesa, poi è risalita. Tra le due guerre mondiali, per la perdita di Polonia, Stati Baltici, e qualche altra zona, aveva oltre un milione di kmq. in meno, che valeva più di tre Italie. Ma la superficie controllata era scesa di molto negli anni della guerra civile, dal 1917 al 1924, del che va tenuto conto per i confronti con quegli anni di depressione economica e carestie in serie.

In questo spazio la popolazione era nel 1913 di 159 milioni; oggi la si è censita in 200 milioni (1955) mentre tutti la ritenevano giunta a 220.

Con tale cifra ufficiale la Russia vale quattro e mezzo Italie odierne.

La densità di popolazione in Russia era nel 1913 di 7,1 abitanti per chilometro quadrato. Oggi è di 8,9. La densità di popolazione italiana è oggi di 162 abitanti per kmq., 18 volte più grande.

Ora ci preme stabilire che la popolazione russa, e con essa la densità, in 42 anni sono cresciute del 25,8 per cento. Ciò esprime un incremento medio annuo dello 0,55 per cento. Ma negli ultimi anni, a detta di Chruščëv, si sarebbe avuto un aumento di 16,3 milioni in cinque anni. Se la popolazione 1955 era di 200 milioni, quella 1950 era di 183,7: l’aumento vale l’8,9 per cento, e per ogni anno l’1,7. Tale cifra incredibile è doppia circa di quella della ben prolifica nostra Italia. Un certo mistero resta sul totale della popolazione russa, come denunziata dagli stessi sovietici. Dai 159 milioni del 1913 si scese nel 1926 a soli 147 – effetto della prima guerra e della rivoluzione. Nel 1938 si era a 171; indubbiamente la seconda guerra mondiale determinò altro decremento, e con la successiva ripresa si giunse nel 1952 a 180,5, dato che al XIX congresso del partito fu annunziato l’aumento di 9,5 milioni, dal 1938. Ma tale cifra non va d’accordo coi 183,7 del 1950, dedotti sopra!

32 – La composizione sociale

Se le alte fonti cadono in tali contrasti, ancor meno ci sarà da fidarsi sulla partizione annunciata tra popolazione urbana e rurale. Al 1913 la prima sarebbe stata di soli 28 milioni, contro 131 della campagna. Alla depressione del 1926 troviamo 26 nelle città e 121 nelle campagne. Nel 1938, gli urbani salgono a 56, i rurali scendono a 115. Infine la situazione all’aprile 1956 sarebbe di 87 milioni di popolazione urbana, contro 113 di rurale. Da qui la vantata evoluzione della società russa da agraria a industriale: ma che di meglio può vantare la genesi di una società capitalista? Col suo mostro più orrido: l’inurbamento?

Le stesse fonti sovietiche hanno dato una statistica per classi. Nel 1913 vi sarebbero stati 17 per cento di operai e impiegati, 66,7 di contadini, 16,3 di possidenti e commercianti: è una statistica di popolazione «attiva» a parte i non attivi dei nuclei familiari. Nel 1928 i borghesi sono 4,6 per cento, i contadini individuali sono 74,9 e solo 2,9 quelli in cooperative, 17,6 gli operai e impiegati. L’aumento dei contadini non sembra corrispondere a quello noto delle aziende, da 18 a 25 milioni, per effetto della rivoluzione.

Oggi la Russia avrebbe questa composizione sociale: operai e impiegati 58,3 per cento, contadini associati 41,2, ancora liberi appena mezzo (0,5) per cento.

Oggi ci sono, lo sappiamo, due sole classi! Come popolazione attiva gli operai e impiegati sono saliti dal 17 al 58 per cento, i contadini scesi dal 67 al 42 circa.

Ritenendo per un momento che queste cifre date in grandi discorsi politici e pubblicazioni di chiara propaganda siano giuste, si rilevi solo che, nel 1913, 67 contadini lavoravano al cibo di 100 abitanti ed oggi ve ne lavorano solo 42. Nel 1913 i contadini erano super-sfruttati, e i 33 non contadini, in verità molto eterogenei, mangiavano discretamente il loro prodotto; oggi i 42 contadini producono per cento abitanti, ma mangiano un’alta aliquota del prodotto, e i 58 non contadini, che sarebbe grazia considerare omogenei, mangiano poco.

Solo questa spiegazione può aderire al fatto grave che la produzione agricola non è cresciuta in misura nettamente maggiore della popolazione consumante.

Quale la composizione contadina nelle nazioni moderne borghesi? Secondo i dati dell’annuario 1955 dell’ONU sulla popolazione attiva, quella dedita all’agricoltura è in Italia il 39,4 per cento, negli Stati Uniti il 12 per cento, in Gran Bretagna il 5 per cento, in Germania il 23 per cento.

Ne deve fare della strada la Russia col suo 42 per cento attuale di contadini, per poter «emulare» l’industrializzazione occidentale, ossia per divenire tutta e veramente capitalista!

Ma ogni volta che i canterini del Cremlino sfoggiano eloquenza nel magnificare i passi che avrebbero fatto nella direzione della conquista «del socialismo», essi non fanno che portarci prove storiche possenti della natura squisitamente capitalista del loro cammino e del loro compito. Essi vogliono mostrare una vittoria nella drastica – e ben esagerata – decurtazione della popolazione contadina, che in 27 anni, dal 1928 al 1955, vantano di avere ribattuta dal 78 al 42 per cento della totale, e ciò grazie alla grande trovata della proprietà socialista colcosiana. Ma quale sintomo più chiaro del grandeggiare di una società capitalista, morbo storico dell’economia delle campagne?

Ai fini del nostro studio per le prossime riunioni sull’economia occidentale ed americana, ci pervengono i dati tratti da un lavoro di S. Kuzness, dell’Ufficio Nazionale di ricerche economiche di New York, 1946. Si tratta della variazione dell’aliquota di popolazione agraria negli Stati Uniti dal 1870 al 1940. Ecco la serie decennale della percentuale contadina americana: 51,6, 48,8, 42,5, 37,7, 30,7, 26,7, 21,3, 16,9. Oggi, lo abbiamo detto or ora, 12,5.

Nella foga di emulare il capitalismo i russi sono arrivati al grado capitalista americano, data 1890!

33 – Dotazione di terra agraria

L’enorme Russia ha poca popolazione, ma ha anche una gran parte del suo territorio non adatta a produrre cibo per essa. La superficie agraria, esclusi i boschi, è oggi (dati 1954 dell’annuario ufficiale sovietico) di soli 6 478 000 kmq. ossia del 29 per cento di quella territoriale (22,4 milioni di kmq.). Si possono aggiungere le foreste immense, per circa il 43 per cento della superficie totale, ma solo 5 850 000 kmq. di questa, ossia il 26,2 per cento, accessibili all’uomo, non diremo al coltivatore.

Sulla superficie della pur montuosissima Italia, di 301 mila kmq., quella agraria unita alla forestale raggiunge il 92,2 per cento: agraria 73,2 (22 milioni di ettari), forestale 19 (5 milioni 710 mila ettari).

La Russia è settantacinque Italie, ma semina (prati compresi) soltanto 224,7 milioni di ettari contro i 18,3 italiani; dunque, solo 12 volte di più. La superficie agraria, senza le foreste, è solo 29 volte di più. Ma in essa figurano le «terre vergini», che in Europa non ci sono più.

Sul rapporto influisce la fittezza della popolazione. Possiamo dire che un ettaro seminato deve nutrire in Italia 2,6 persone, mentre in Russia solo una persona. Evidentemente, dato che proporzione non diversa dei consumatori lavora nell’agricoltura, vi provvede il maggiore potenziale produttivo della terra.

Se prendiamo tutta la superficie agraria, ogni ettaro deve nutrire in Italia 2,2 persone, in Russia 0,37 persone; ma molto più forte è la differenza di fecondità degli alberati nei due casi, oltre quella dei terreni a scampia, minore la rata di terre a riposo e maggesi, ecc.; nullo per noi il gioco di terra vergine.

Stabilita tale ben nota bassa resa dell’agricoltura russa, vediamo il decorso storico della superficie seminata, e di quella parte che lo è a cereali.

Secondo i due estremi della serie che seguiamo, sotto lo zar nel 1913 si seminavano 105 milioni di ettari, di cui 94,4 a cereali. Oggi, ossia al 1955, anno descritto al XX congresso come di grande slancio agrario, se ne seminano 186 milioni di ettari, di cui 126,4 a cereali.

L’aumento è stato dunque del 77 per cento nella superficie a semina, e del solo 34 per cento nella superficie a cereali.

Dobbiamo ricordare che la popolazione è aumentata intanto del 25,8 per cento, se sono giusti i 200 milioni che hanno sostituito i 220. Dunque si è segnato il passo.

34 – Produzione di cereali

Sappiamo bene quale è la risposta, specie quella data da Chruščëv al XX congresso: è aumentato il rendimento del raccolto per ettaro, e quindi la produzione di cereali, e grano in ispecie, è cresciuta. Sono molto dubbi i dati relativi al piano quinquennale 1950–55 che mentre doveva dare un aumento del 60–70 per cento di tale produzione – il che si è tornato da Bulganin a ripromettere per il sesto piano – cominciò con un indietreggiamento, per riprendere dietro «misure straordinarie» negli ultimi due anni. In effetti si trattò di buone stagioni e si hanno forti dubbi sulla cifra 1956.

Messi insieme i dati ufficiali si avrebbe questa serie, dal 1950 al 1955. Milioni di quintali di cereali: 1160, 1125, 1310, 1170, 1450, 1500.

Prima di commenti, forniamo un piccolo specchio il quale riproduce solo in parte le variazioni. Di solito queste sono abilmente dissimulate per i periodi disastrosi, e specie per quello successivo alla seconda guerra, in cui la strapotente burocrazia ha perduto di mano anche i metri statistici. Noi non sappiamo che dire, per gli anni 1942, 1943, 1944, delle cifre di popolazione, di coltura e di raccolto, e, ad esempio, per la seconda rovinosa calata del patrimonio zootecnico. Ecco lo specchietto sintetico.

anni Territorio miln. kmq. Popolaz. miln. abit. Superfice seminata miln. ha. Sup. a cereali miln. ha. Raccolto cereali miln. q.li Cereali per abit q.li Incr. annuo 1913–55 95 %
1913 22,3 159 105,0 94,4 801 5,0 100
1928 21,2 154 113,0 92,2 733 4,8 94,5
1937 21,2 171 135,3 104,5 1203 7,0 139,6
1940 21,2 175 150,4 110,6 1188 6,8 134,8
1950 22,4 184 146,3 102,9 1160 6,3 125,1
1955 22,4 200 185,9 126,4 1500 7,5 148,8

Come considerazione bruta, con tali cifre il rapporto tra oggi e il tempo zarista dà bensì un incremento totale dell’87 per cento, che però tenuto conto dell’aumento di popolazione scende al 50, che darebbe il medio 1,0 per cento annuo.

Un tale passo è stato all’incirca tenuto, nello stesso spazio, anche dall’agricoltura italiana, che non può stendersi su terre vergini ed ha una tecnica diretta a colture più intensive ed evolute.

Storicamente deve notarsi che non abbiamo il dato di due abissi, anzi di tre: quelli del 1920, del 1932 e del 1945.

Dalla tabella vediamo che si è avuta una netta discesa della produzione per abitante, oltre che dopo la rivoluzione, anche per effetto della seconda guerra mondiale, sebbene nel 1950 si fosse già nella ripresa. La maggiore quota asserita per il 1954 e 1955 viene dagli stessi sovietici attribuita alla messa a coltura di nuove terre vergini, per 33 milioni di ettari (Chruščëv), mentre lo stesso ritmo si prevede per il 1956.

Dunque tutto l’aumento di superficie seminata a cereali, e quello del raccolto di cereali, va attribuito alle nuove terre conquistate alla coltura, e non ai vantaggi della riforma sociale agraria svolta, nella forma colcosiana, dal 1928 al 1955. Si tratta, come è noto, di uno sfruttamento una tantum di energia geochimica insita nella terra intatta dall’uomo.

Ma sulla storia dell’agricoltura russa vanno fatti altri rilievi.

Nel tempo zarista la popolazione consumava pochi cereali meno ricchi, segale, miglio, e si esportava il frumento. Dopo la rivoluzione i contadini hanno conquistato il grano e solo in piccola parte lo hanno ceduto alle città, prima per forza, poi a prezzi commerciali. Con la riforma colcosiana il consumo diretto di grano, e più ancora di alimenti pregiati, scompare dalla statistica perché avviene nella gestione domestica, mentre è tutto in evidenza quello consumato dagli operai delle città. Noi ne deduciamo una verifica molto semplice, ossia cerchiamo quale sia il consumo per abitante urbano e proletario, dividendo tutta la quantità di raccolto non più per la totale popolazione, ma per quella denunziata come urbana. Avremo un indice superiore al vero, è certo, ma la sua variazione nel tempo varrà ad indicare come la riforma colcosiana si rifletta sulle condizioni della classe proletaria, nella nostra tesi classe sfruttata e dominata da un potere di compromesso tra classe contadina interna e classe borghese mondiale, culminato nella II guerra.

Nel 1913 abbiamo 801 milioni di quintali e 28 milioni di popolazione cittadina con un indice di 28,5.

Nel 1928, preludio della «collettivizzazione agraria», otteniamo che 733 milioni di quintali stanno in rapporto a 29 milioni di abitanti delle città (18,8 per cento) con l’indice di 25,3.

Il rapporto città-campagna si flette di poco a favore di quest’ultima. Inizia coi piani quinquennali «la costruzione del socialismo in un solo paese».

Nel 1940 il raccolto è 1188 milioni di quintali, ma gli urbani sono 61 milioni: l’indice scende a 19,5. Rispetto al 1913, su una produzione di cereali aumentata del 50 per cento, la popolazione rurale è rimasta invariata (131,1 milioni), quella cittadina è cresciuta di 2,2 volte.

Nel 1955, la popolazione urbana ci è data di 87 milioni: l’indice cala, coi 1500 milioni di quintali del raccolto, a 17,2. Perde sul 1940 l’11,8 per cento. Rispetto al 1913, all’87 per cento in più di cereali corrispondono una popolazione rurale diminuita del 13,7 per cento e una popolazione cittadina più che triplicata.

Vuoi al 1940 come ancor più al 1955, il rapporto città-campagna quanto a cereali si altera notevolmente. «Costruzione del socialismo» nell’URSS (che altro non è se non industrializzazione capitalistica) e ricostruzione postbellica fregano con progressione costante il proletariato urbano a tutto vantaggio della classe colcosiana[267].

Fittizia dunque, per la classe operaia, la salita in tabella da 6,8 a 7,5, ossia del 10,3 per cento di aumento, vantata da Chruščëv. La soggezione del proletariato urbano è aggravata. Alla puerile concezione che tanto è dovuto ai pasti degli omenoni politici e dei grandi burocrati, sostituiamo la spiegazione marxista che il premio consumo, l’orgia del plusvalore, va alla classe colcosiana: l’egualitarismo in città o in campagna è fregnaccia amarxista che non ci interessa.

35 – Peso del sistema colcosiano

È fatto pacifico che la forma colcos prevale in Russia largamente su ogni altra, antica e moderna; e si ammetta pure sulla fede delle statistiche di governo che la conduzione individuale è sparita e quella statale è minoritaria rispetto a quella cooperativa.

Un quesito più difficile che noi siamo a porci è il peso relativo dell’economia delle particelle familiari dei colcosiani, e di quella delle terre del colcos. Lo si può solo abbordare con larghe induzioni. La partizione della terra russa prima della rivoluzione era circa la seguente. I contadini avevano in conduzione circa 150 milioni di ettari, un quarto e più, a semina o meno. 110 milioni erano possessi privati borghesi, un quinto; 160 milioni appartenevano a chiese e conventi, tre decimi; altro quinto era demanio di stato e corona.

I dvor contadini andavano da meno di 5 ettari a circa 50 ettari, formando vari scaglioni sociali. Dei totali 540 milioni di ettari, erano a semina 105, e a cereali 94,4, nel 1913.

Nel 1928 il 96,2 per cento dei primi, e il 96,7 dei secondi, sono in mano a contadini individuali. I sovcos di stato hanno solo 1,5 per cento e 1,2 per cento, le forme cooperative 2,2 e 2,1 per cento.

Nel 1955 su 185,85 mil. di ha seminati i sovcos ne hanno il 15,8 per cento e i colcos l’83,3; parti minime agli individuali (?) e agli orti di fabbrica e simili. Sui 126,4 a cereali i colcos ne hanno l’84,4 per cento e i sovcos il 15,5.

L’agricoltura russa è dunque a conduzione di Stato per un sesto e a conduzione cooperativa parcellare per cinque sesti.

Quale è il senso dello sviluppo ce lo chiedemmo nel «Dialogato coi Morti»[268], per notizie americane su una futura statizzazione dei colcos (solo una rivoluzione vi potrebbe giungere, e non una nuova «riforma» dall’alto) e in base alla notizia di Chruščëv che i sovcos in due anni erano saliti da 14,5 milioni di ha. a 24,5. Con tale notizia confrontiamo i dati dell’annuario ufficiale sovietico. Ecco i dati dei sovcos: 1940, 13,26 – 1950, 15,93 – 1954, 19,98 – 1955, 29,37. Tale serie vale quella degli indici 100, 120, 151, 221. Per i colcos la serie[269] è: 122,22 – 126,91 -144,61 – 154,85. E quindi 100, 104, 118, 127. È chiaro che i sovcos tendono a crescere più dei colcos: nel 1940 i secondi avevano nove volte la terra dei primi; oggi, come abbiamo detto sopra, cinque volte soltanto.

Il fenomeno è di maggior rilievo per le terre a cereali. Tra il '54 e il '55 quelle dei colcos sono aumentate del 5,7 per cento, quelle dei sovcos del 77,4, e invece del 10,9 per cento rispetto ai colcos sono il 18,4 per cento.

Tale fenomeno si può spiegare in un modo solo: i colcos si preoccupano di allevare i propri polli e capretti, e il malcontento delle città che chiedono pane obbliga lo Stato a intensificare, con le grandi colture estensive motorizzate in gestione diretta, le famose «fabbriche di grano»[270].

Allo stato non siamo a tanto da dire quanto grano è prodotto dai sovcos e quanto dai colcos, e così per i cereali in generale.

36 – Le due facce del colcos

Concluderemo poco se confronteremo il potenziale particellare con quello cooperativo in base alla superficie di terra. È chiaro che i pezzetti dati in dotazione familiare sono di gran lunga i più fertili e attivi di tutte le zone dei colcos condotte a seminagione estensiva e a prati e pascoli. La statistica ci direbbe che su 154,85 milioni di ettari seminati dai colcos e dalle «economie personali ausiliarie dei colcosiani», la dotazione familiare ne copre solo 5,79, il 3,9 per cento. Per la superficie a cereali abbiamo addirittura l’1,5 per cento. Infatti il grano si può avere dallo stock cooperativo, e nel campicello si semina di meglio.

Ci si potrebbe opporre che la dottrina del dominio in Russia della coltura particellare trova smentita nelle cifre: cosa sono mai quei miseri 5,79 milioni di ettari, contro 185,85 seminati, o i milioni 1,64 a cereali contro 126,4 di tutta la Russia? Ma le cifre non sono pane per i denti di tutti.

Compulsiamo anzitutto altra statistica ufficiale, il censimento della terra alla data del l° novembre 1954. Questa statistica copre tutti i 22,4 milioni di kmq. del territorio, e di essi 12,8 sono a disposizione dello Stato, boscosi, sterili, steppe e tundre non assegnate. Sul restante di 947,3 milioni di ettari, ne hanno i sovcos 136,8, e i colcos 809,2; giusto sei volte tanto. Se si passa alle terre agrarie le cifre sono 88,7 e 396,6; rapporto 4,5. Per le terre arabili, comprese quelle in dotazione di riposo, 30,5 e 188,3; rapporto sempre sei. Infine per le terre seminate in coltivazione, 28,0 e 175,9; rapporto 6,3.

Secondo queste quattro categorie discendenti il rapporto nei colcos della terra in dotazione alle famiglie risulta: 7,5 a 801,7 – 0,9 per cento; 6,9 a 389,7 – 1,8 per cento; 6,3 a 182 – 3,5 per cento; 6,3 a 169,6 -3,71 per cento (semina effettiva),

Ufficialmente dunque è ben stabilito che la terra dei colcos e dei colcosiani per il 96,1 per cento è coltivata in comune e per il 3,9 per cento parcellarmente. Possiamo essere sicuri di questo? Possiamo essere certi che nessun colcosiano oltre al campicello di suo stretto controllo e piena proprietà, più assoluta che in regime occidentale e di diritto romano (non paga tasse, non subisce ipoteca per debiti), non si avventuri fuori facendosi dare qualche altro campo da gestire lui, sia pure a titolo passeggero o stagionale, come nella tradizione del nadiel? Che non convenga all’amministrazione del colcos lasciarglielo a titolo di affitto o di mezzadria, come un dì contro l’obrok o la barščina? Riteniamo che tanto si pratichi su larghissima scala, fermo restando che nel rilievo statistico quelle restano terre sociali gestite dal colcos unitario.

Sette milioni e mezzo di ettari di ottima terra sono sempre un terzo della superficie agraria italiana, che ospita venti milioni di contadini. I colcosiani russi quanti sono? Anche qui non si è molto espliciti.

Abbiamo ricavato qualche dato utile. Nel 1938 il piano di semine dei colcos copriva 11,5 milioni di ettari. Le famiglie colcosiane erano 18 milioni e mezzo, con la media composizione di 4,8 membri, sicché la popolazione colcosiana russa risultava di 89 milioni; il 52 per cento del totale, e l’ottanta per cento della popolazione contadina.

Giusta lo Statuto, dovevano avere per famiglia da un quarto a mezzo ettaro, e in certe regioni fino ad uno. La superficie delle usadba doveva risultare di 4,625 a 9,25 milioni di ettari. E, tenendo conto delle regioni speciali, non meno di 10–12 milioni di ettari, nel 1938. La statistica prima usata per il 1940 dà solo 4,5 milioni. Quale delle due è più verosimile: che venga fregato il colcosiano a dispetto dello statuto dell’artel che ne difende l’egoismo inesausto, o che siano fatte mentire le statistiche?

Abbiamo poi i recenti dati dell’aprile 1956. 149,06 milioni di ettari a semina nei colcos; 82 milioni di popolazione[271] in 19,7 milioni di famiglie: membri per ognuna, scesi a 4,2. La statistica ci dice che le dotazioni ai colcosiani coprono 5,79 milioni di ettari e sarebbero per ogni famiglia 0,30 ettari.

La nostra induzione è questa: non si sono rilevati gli appezzamenti privati, ma la superficie totale è stata desunta dal numero di essi, immaginando che passino di ben poco il minimo costituzionale di un quarto di ettaro. Ma non possono essere meno di venti milioni di ettari, un settimo della terra dei colcos.

37 – La tragedia del bestiame

L’indice cereali che sopra abbiamo seguito è quello che meno diffama la povera agricoltura sovietica. Nel suo discorso del settembre 1953 al Comitato Centrale Chruščëv dichiara che ve ne è abbastanza da esportarne (specie nei paesi satelliti in cambio di capitale e lavoro industriale!) e le sue lagne si rivolgono alle patate e ortaggi e soprattutto al bestiame, carne, latte, uova, ecc.

È l’indice bestiame che assai più dell’indice terra ci mostrerà l’alto potenziale della funzione parcellare rispetto a quella collettiva, nel colcos e in Russia, anche se lo prendiamo coi dati 1955 e non per il rovinoso 1953.

Nel 1953 infatti i bovini, e tra questi le vacche, stavano ancora bene al di sotto del numero del 1916, e solo suini ed ovini avevano passato di poco quella cifra. Restava la rovina dei cavalli: contro 38,2 milioni del 1916 erano nel 1953 15,3 milioni, meno della metà! Restavano quindi al livello del 1934, in cui si ebbe la moria delle bestie, al tempo della «fame di Stalin».

Diamo le cifre globali del 1956 rispetto al 1916. Bovini 67,1 milioni contro 58,4, di essi vacche 29,2 contro 28,8. Suini 52,2 contro 23,0. Pecore e capre 142,6 contro 96,3. Dei cavalli dal 1953 si tace, e si preferisce porre l’accento sul numero mirabolante delle trattrici meccaniche. Ma è noto come il vero indice di un progresso agricolo sia l’allevamento zootecnico. Nella non ricca Italia tra il 1911 e il 1954 la produzione di latte è raddoppiata, quella di carne aumentata di una volta e mezza, e così per uova, burro, formaggio.

Ma per la Russia va notato che tutte le statistiche partono non, come al solito, dal 1913 zarista, ma dal 1916, quando si tratta di bestiame. Non disponiamo di altri dati e speriamo che quello mancante venga dalla collaborazione dei lettori.

Evidentemente il patrimonio zootecnico 1913 era superiore all’attuale mentre oggi la popolazione è maggiore del 25,8 per cento! Non è solo il grave deperire dell’agricoltura russa che qui interessa, in quanto distrugge ogni apologia della vantata forma colcosiana della società rurale. Interessa, ai fini della dimostrazione che essa risente del carattere parcellare della coltura più che di quello grande-aziendale, il ripartire il patrimonio zootecnico tra aziende colcos e aziendine familiari.

Ebbene, sulle date cifre 1956 dei bovini, i colcosiani privati hanno il 42,9 per cento del bestiame dei colcos, il 34,4 di tutto quello del paese. Né aggiungiamo al parcellare, come sarebbe giusto, quello delle piccole stalle di operai e impiegati, che è altro 11,4 per cento, e quello delle «economie contadine individuali» per uno 0,2 per cento, sicché le tenute grandi, tra sovcos e colcos, non ne hanno che il 54 per cento.

Sulla cifra delle vacche da latte e riproduzione solo il 43 per cento è nella grande azienda e il 57 nella parcellare. I colcosiani ne hanno il 53,1 per cento del gruppo colcos, e il 41,7 per cento del totale.

Circa i suini, i colcosiani ne hanno il 39,2 per cento sui colcos, e il 28,8 del totale. Delle pecore il 22,0 e il 18,6 per cento (ciò si deve agli allevamenti di tipo industriale che alimentano, in paese così freddo, le fabbriche di lanerie: il solo caso in cui i sovcos costituiscono il 66 per cento del totale. Lana di Stato).

Delle capre solo il 17 per cento è nelle aziende grandi, e i colcosiani ne hanno il 78,7 per cento sui colcos e il 54,7 per cento del totale.

Per conigli, pollame ed api non abbiamo statistiche ma solo le lagnanze gravi del segretario Chruščëv nel 1953. Ma è notevole che egli, mentre incita i colcos aziende a produrre molto più di carne, latte ed uova, ripete ad ogni istante che per ottenere questo bisogna incoraggiare l’interesse dei colcosiani privati, che altrimenti saboterebbero il lavoro nel colcos. Egli a tal fine cita l’espressione di Lenin nel 1921 che tra il contadiname per la sua poca cultura e maturità di classe si deve nell’epoca di transizione far leva sull’interesse economico soggettivo, e non sull’entusiasmo. Questi dunque i risultati di 35 anni di socialismo colcosiano: che siamo sempre lì, con la natura asociale del piccolo produttore? Evidentemente Chruščëv ha qui detto il vero. La differenza è che lui parla di campagna socialista, e Lenin spiegava che era ancora molto meno che capitalista! Come oggi.

Comunque noi concludiamo che se cercassimo un indice integrale di vacche, maiali, capre, pecore, polli e conigli, che – trattori a parte – è l’indice del controllo del capitale agrario di esercizio, e per conseguenza della terra, e della migliore terra, troveremmo che l’indice della gestione particellare minima, ossia ridotta alla dimensione familiare (la minima rispetto al vecchio scaglionamento tra contadini ricchi medi e poveri) ammazza l’indice della gestione cooperativa – mentre anche questa puzza di privatismo antisocialista per lo «spirito di colcos» e per il contrasto di egoismi tra l’una e l’altra azienda.

Due sono le tesi che abbiamo messe in piedi. La campagna russa non è socialista ma individualista nel senso aziendale, e meno che capitalista. In relazione a tale fatto l’agricoltura russa è misera, e procede a rinculoni, peggio di quelle reazionarie di tutti i regimi capitalistici occidentali, con l’eccezione di ben poche zone del globo. Emulazione rurale bancarottiera.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 84–85. [⤒]

  2. «Sulla cooperazione», in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 430–431. [⤒]

  3. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 85. [⤒]

  4. In «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», cit., par. 29–33. [⤒]

  5. Si veda per il seguito la già citata «Appendice», più oltre. [⤒]

  6. «Dialogato coi Morti», cit., pagg. 59–80. Il bilancio agricolo cronicamente «magro» è stato poi, notoriamente, una delle cause determinanti della caduta di Chruščëv, ma la situazione è così poco mutata da allora, che oggi, 1975, l’URSS è costretta a chiedere grano all’amica-nemica America. Si calcola che il raccolto cerealicolo 1975 non abbia superato i 135 milioni tonn. contro i 215 previsti. [⤒]

  7. Si tenga presente che i dati della produzione di cereali per il 1950 e il 1955 sono stati clamorosamente sbugiardati al XXI Congresso dallo stesso Chruščëv che forniva per quegli anni rispettivamente 811 (e non 1160) e 1045 (e non 1500) milioni di quintali. Dunque nel 1950 la produzione era ferma al livello del 1913. La rata per abitante di 6,3 quintali, che si vantava aumentata del 26 per cento, in realtà con 4,4 quintali risulta diminuita del 12 per cento. Quanto al l955 i quintali per abitante sono 5,2, quanti nel 1913 (e non 6,3): ma per il proletario della città l’indice, già crollato a 17,2, si riduce ulteriormente a 12 perdendo sul 1940 il 38,5 per cento (e non l’11,8). [⤒]

  8. «Dialogato coi Morti (Il XX Congresso del P.C. russo)», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano. pagg. 63–66 (Giornata Terza, Basso pomeriggio). [⤒]

  9. Nella serie sono compresi i dati delle «Economie personali ausiliarie dei colcosiani» che incidono sul totale per il 3,9 %. [⤒]

  10. Il fenomeno è proseguito (e noi l’abbiamo commentato) in tutti gli anni successivi, mentre si verificava e via via cresceva quello della fagocitazione dei colcos più piccoli e poveri da parte di quelli più ricchi e dotati, e da un lato si moltiplicavano nelle città i «mercati colcosiani», dall’altro aumentava il contributo delle agenzie particellari all’allevamento del bestiame e quindi all’alimentazione delle città. [⤒]

  11. In questa cifra sono compresi gli artigiani cooperatori, inclusi i membri delle loro famiglie, che devono rappresentare una percentuale bassissima del totale. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 1, Gennaio 1957

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