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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXIV)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIV)
81 [182] – Pauroso inurbamento
82 [183] – Reddito e investimento
83 [184] – Ancora una sosta italiana
84 [185] – Reddito nazionale russo
85 [186] – Partizione dell’investito
86 [187] – Economia russa dell’abitazione
87 [188] – Costruzioni ultracostose
88 [189] – Più lusso che in America?
89 [190] – Il dramma dei «costi»
90 [191] – Politici ed «architetti»
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIV)

81 – Pauroso inurbamento

Nel suo discorso al XX congresso Chruščëv ha detto sull’edilizia per abitazioni cose gravissime, per deplorare che disponendo di stanziamenti enormi molti ministeri e dipartimenti non realizzano i piani di costruzione di alloggi. E ha detto letteralmente (riferendosi anche all’altezza dei costi ed alla pessima organizzazione dell’industria edilizia): «Non si può tollerare questa situazione scandalosa» (n. 7, pag. 24, dell’edizione italiana del bollettino dell’Ufficio comunista di informazione dei partiti).

Nella sola Mosca a suo dire si sono negli anni del quinto piano (1951–55) costruite case di abitazione per 4 305 000 metri quadrati, ossia il 2,78 per cento che in tutta la Russia, mentre la popolazione è il 2,4 per cento con le cifre sempre oscillanti di 5 e di 205 milioni (notare che pochi giorni addietro «l’Unità» sulla fede dell’annuario dell’ONU ultimo, ma certo per imbeccata da Mosca, rilanciava i famosi 220 milioni di popolazione bruscamente decurtati or è un anno!)

Non è tuttavia la rata di Mosca su tutta la Russia che interessa, ma l’insufficienza delle costruzioni dove la popolazione aumenta a ritmo ben più alto, mentre come in tutti i paesi capitalistici il territorio si spopola a vantaggio delle sinistre metropoli.

Il riferimento di Chruščëv è grave in quanto non considera la massa di case esistenti, ma confronta il loro incremento nel quinquennio con quello della popolazione. Egli riferisce che, mentre si attuava nel quinquennio quel volume di costruzioni di case nuove, che con la nostra riduzione rappresentano 236 000 vani, la popolazione di Mosca aumentava di 300 mila abitanti «contando solo quelli che vi si sono trasferiti da altre regioni». Chi riflettesse poco troverebbe elevato l’indice in quanto quei sopravvenuti sarebbero stati alloggiati alla media di 1,3 persone per vano, che è soddisfacentissima. Ma con questo non si terrebbe conto che all’immigrazione va aggiunto il naturale incremento demografico, che risulta in Russia dell’uno e mezzo per cento annuo, e in cinque anni su cinque milioni di moscoviti ne allinea non meno di altri 375 mila, che uniti ai 300 mila venuti di fuori fanno ben 675 mila, da pigiare in 239 mila nuovi vani alla media di 2,86 individui per stanza. Questa è di per sé scandalosa, ma nasconde ben altre sperequazioni se ci domandiamo come si divide tra i vari strati economici, con indiscutibile vantaggio per l’inurbato rispetto all’antico cittadino.

In Italia nel 1955 a Roma i nuovi vani sono stati 115 000; e nel quinquennio 327 000, ossia molto più di quelli di Mosca, che ha una popolazione tripla. Roma in tutto il quinquennio è aumentata di circa 150 000 abitanti, di cui circa la metà è immigrazione, un quarto di Mosca.

Anche a Roma malgrado la costruzione febbrile di case (da signori) l’indice medio non migliora: è di 1,45 persone per vano contro 1,4 del 1931.

La popolazione di Roma è circa il 2,5 per cento dell’italiana, le case costruite nel 1955 sono state il 7,2 per cento di tutta la nazione.

Ne segue che Chruščëv trova utile seguire le tracce di Fanfani, e reclamare che si raddoppi l’intensità della costruzione di case: «il volume della costruzione di alloggi nelle città dovrà essere quasi raddoppiato». Roma è un buon modello per l’emulazione. Di più «si può fare a meno nelle città, dato il forte incremento di popolazione, di reclutare mano d’opera nelle località esterne, e si può soddisfare il bisogno di mano d’opera nelle città con la loro popolazione». Con questo Chruščëv mostra il proposito lodevole di «riuscire a far cessare l’afflusso di popolazione nelle grandi città da altre regioni».

Ma se in Russia non esiste disoccupazione, come mai si propone la stessa via sciocca, di impiegare la popolazione stipata nelle città a costruire alloggi? Secondo Chruščëv «nelle grandi città non vengono costruite nuove aziende industriali», ed inoltre non si reclutano nuovi operai perché «nelle aziende esistenti si sviluppa rapidamente la tecnica, si perfeziona la produzione, si eleva ininterrottamente la produttività del lavoro». E dunque, come i borghesi, non si riduce il tempo di lavoro, ma si scacciano operai.

Tutti questi possono essere intenti lodevoli, ma quello che è sicuro è che, nella mente dei grandi uomini che dirigono «il socialismo», le idee sul rapporto tra lavoro e sua remunerazione, tra alloggio e mantenimento vitale della popolazione delle città e di fuori, sono spaventosamente confuse.

82 – Reddito e investimento

Nel premettere allo studio dell’economia edilizia in Russia un confronto coi dati di altre nazioni, abbiamo citato i rapporti, tratti per lo più dagli annuari statistici dell’ONU che, come ora visto, fanno testo anche per i russi, tra la spesa per l’abitazione (housing degli inglesi) e la spesa totale negli investimenti, ed anche tra la prima ed il totale reddito nazionale. Seguendo tali cifre nell’accezione dell’economia corrente abbiamo tante volte fatto riserva sul criterio, per noi non scientifico, di trattare come grandezze della stessa specie tre grandezze ben distinte e che potremo qui elencare per chiarezza:

1) Investimento di parte del reddito consumabile (per noi marxisti un’operazione la cui possibilità appartiene solo alla classe capitalistica, e quindi agli enti che dispongono di capitale in massa: società, cartelli, Stati) in capitale circolante differenziale rispetto a quello del ciclo precedente; e quindi acquisto di materie prime incrementali, ingaggio di mano d’opera incrementale.

2) Investimento di altra parte del reddito consumabile in maggiori capitali fissi, ossia in nuove macchine, attrezzi, impianti e fabbricati di stabilimenti di produzione e di intraprese, industriali ed agrarie, investimento che lasciamo ai borghesi chiamare incremento della ricchezza, del patrimonio «nazionale», ma che incrementa solo il potere della classe o forza capitalistica dominante, che per noi resta fuori dal processo di accumulazione del capitale attivo. Questo solo (somma del costante e del variabile) è l’investimento che riappare ciclicamente in incremento del prodotto disponibile sul mercato, la forma 1.

3) Investimento in opere, impianti, manufatti che non fanno diretta parte di organizzazioni produttive, come sono ad esempio le case, la cui funzionalità non dipende (salvo la manutenzione e l’ammortamento di cui va sempre fatta riserva) da erogazione permanente di lavoro vivo. Queste opere non generano profitto da plusvalore, e la loro utilità sociale indiscutibile prende nella società mercantile forma di rendita immobiliare, che lo Stato può incamerare senza con questo uscire dalla forma capitalistica. La somma del valore delle case e delle opere pubbliche non sedi di impresa (esempio una strada non a pedaggio) rientrino pure nel patrimonio e nella ricchezza «nazionale» – noi designereremmo questo investimento di terzo grado come investimento in patrimonio immobiliare, privato o statale che sia non importa teoricamente.

Tanto nelle statistiche occidentali quanto nelle russe questi tre gruppi non sono distinti, e distinguerli è possibile, a suo luogo e tempo, solo applicando il metodo di ricerca e di presentazione di Marx.

In questo sviluppo l’esame insiste sui mutamenti quantitativi e sul confronto tra le economie che si pretendono opposte e fondate su «due sistemi», che invece tutta l’indagine fa risalire ad un sistema unico, destinato a cadere sotto i colpi di critica unica, rivoluzionaria.

Ripartendo dall’investimento nelle case di abitazione, che è per noi del terzo tipo, abbiamo avuto i dati per tre paesi europei: Italia, Germania, Gran Bretagna; per gli Stati Uniti; e si tratta di indicare quelli della Russia.

Un primo rapporto è tra la spesa per case e il totale del reddito nazionale, ossia la totale spesa dei privati e degli enti per tutte le necessità di consumo e di investimento in beni non consumati. Li ricordiamo: Germania 1952, il 5 per cento; Gran Bretagna 1952, il 3,1 per cento; Italia 1952, il 3,6 per cento. Nel 1955 siamo saliti al 6,1 davvero enorme, e nel piano Vanoni si dovrebbe stare sul 3,8 nel decennio e finire nel 1964 col 3,5, al che provvederà non la pianificazione, ma una sicura crisi. Negli Stati Uniti, nel 1952 e nel 1965, il 5 per cento.

Secondo rapporto: tra spesa case e investimento totale. Germania 1952, il 21,2 per cento; Gran Bretagna 1952, il 23,7; Italia 1952, il 17,3. Nel 1955 il 24 per cento. Per gli Stati Uniti il rapporto case-investimento è stato nel 1952 del 23,6 e nel 1956 del 24,0.

Un terzo rapporto, assai male definibile nelle statistiche nazionali, è quello tra la spesa per le abitazioni e la totale spesa per edilizia generale ed opere pubbliche «immobiliari». Sarebbe nel 1952 in Germania 52,1, in Gran Bretagna 52,3, in Italia 48,5 per il 1952, 53 se stimato con larghezza (vedi il precedente paragrafo 79), 51 forse nel Piano Vanoni, in cui come dicemmo non lo si legge agevolmente.

Queste cifre, al momento di cercarle per la Russia, ci conducono a stabilire un rapporto, che nella polemica internazionale è fieramente discusso come esageratissimo in Russia: quello tra investimento e reddito nazionale, il cui complementare è quello tra consumo e reddito, da cui dipende il tenore di vita della popolazione. I russi hanno sempre vantato l’aumento continuo del reddito nazionale e Bulganin al XX congresso ha detto che se ne consuma il 75 per cento.

83 – Ancora una sosta italiana

La rata di investimento secondo le già date cifre risulta, nel 1952, per la Germania il 23,6, per la Gran Bretagna il 13,1 (paese tipico della quasi completa accumulazione), per l’Italia il 20,8 che nel 1955 sale al 25 come rata di investimento lordo sul reddito nazionale netto, e che per Vanoni dovrebbe essere, come rata di investimento netto, solo il 18 per cento nel decennio, avanzando dal 14,3 del 1954 al 19,3 del 1964.

Tali aumenti dell’investimento netto corrispondono a quelli, che già citammo, dell’investimento lordo (esso comprende le spese per «rinnovi», ossia per impianti che riportano a nuovo – ammortizzano – l’efficienza di quelli già esistenti logorati dall’uso o superati) dal 20,5 al 25 per cento del reddito. Per ottenere tanto, il rapporto del netto al lordo dovrebbe variare dal 70 al 77 circa per cento.

A questo punto torna utile un cenno alle cifre testé pubblicate del famoso «bilancio economico nazionale» per il 1956. Su questo democristiani apologizzano, socialcomunisti funebrizzano: ma che ci importa, se entrambi sono d’accordo nel fatto che il proletariato debba gioire, quando fa premio attivo il bilancio nazionale? Ossia il contrario impudente di quello che Marx tuonava sulla faccia borghese di Gladstone?

Nel 1956 il reddito nazionale lordo è stato di miliardi 13 878, che depurati di miliardi 1210 di ammortamenti o rinnovi danno il reddito netto di 12 668. Rispetto al 1955 si è avuto un aumento del 7,2 per cento, che però espresso in valore reale si riduce al 4,1 per cento, restando al di sotto del 5 per cento voluto dal Piano Vanoni, come i quotidiani hanno detto.

Tra il 1954 e il 1955 l’aumento era stato di circa il 9 per cento in termini reali. Coi valori monetari 1954 il reddito netto nei tre anni sarebbe stato di miliardi 10 796, 11 630, 12 260 circa. Ora Vanoni partiva da 10 450 al 1954 e i suoi traguardi per i due anni successivi erano 10 973 e 11 521, che risultano nettamente superati, anche se con minore slancio nel secondo anno di piano.

Quanto agli investimenti, nel 1956 quello lordo è stato di 3130 miliardi, e togliendo gli ammortamenti restano 1920 miliardi. La serie dell’investimento netto nei tre anni è stata: 1467, 1820, 1920. Riducendo al valore monetario 1954 si ha la serie reale: 1467, 1790, 1842. Dunque una quasi stazionarietà dell’investimento capitale a danno del consumo. Gli italiani hanno mangiato e non «risparmiato», e sia il ministro del tesoro sia la confederazione del lavoro anelano a che essi digiunino. Ma che altro esigeva da loro l’appeso a Piazzale Loreto?!

Vanoni partiva da un investimento 1954 esatto o poco maggiore del reale, ossia 1500 miliardi. I suoi obiettivi per i due anni successivi erano 1590 e 1730: dunque la realtà è stata migliore del piano, di 200 miliardi nel 1955 e solo di 90 nel 1956.

A noi qui non interessa che il rapporto investimenti-reddito.

Il rapporto tra investimento netto e reddito netto è risultato del 13,5 nel 1954, del 15,4 nel 1955, del 15,1 nel 1956. Dunque si ripiega invece di avanzare verso il 18 di Vanoni, le cui tappe erano, giusta le tabelle del piano: 14,3; 14,5; 15,0. Comunque si è tuttora in linea con le previsioni.

Se indichiamo il rapporto dell’investimento lordo al reddito netto, allora la scala è stata 23,0, 24,9, 24,8. Infine il rapporto dell’investimento lordo al reddito lordo (ambo di ammortamenti) è stato 21,1; 22,8; 22,6 (Vanoni valutava l’investimento lordo del 1954 nel 20,5 del reddito lordo, prefiggendosi nel piano di portarlo al 25).

Durante la compilazione del Piano si ebbe un reddito maggiore dello stimato, ed un ancor maggiore investimento dei capitalisti italiani, per far piacere… ai comunisti.

Osserviamo, a chiusura di questa nuova parentesi, che le cifre adoperate dalle statistiche ONU si riferiscono a rapporti tra investimenti lordi e redditi nazionali netti, sempre insistendo sul fatto che i confronti internazionali in materia sono molto incerti.

84 – Reddito nazionale russo

Ancora una volta deve essere anteposta l’esposizione quantitativa alla discussione critica, poiché ancora più controversa è la definizione del «reddito» collettivo del «popolo» in un’economia di capitalismo di Stato industriale. La nostra tesi è che la stessa critica vale per le economie occidentali e per la Russia, checché ne pensino gli economisti dell’ONU che classificano il mondo in tre tipi di economie. Primo: economie dell’intrapresa privata. Secondo: economie centralmente pianificate. Terzo: economie di produzione primaria, o in parole povere economie in cui i ladroni di alto bordo sono invitati a predare materie prime: gomme, petroli ed altro. Qui è tutta l’Asia e l’Africa, meno il privato Giappone e la pianificata Cina, e anche Sud America, Australia e Nuova Zelanda, ormai senza riguardo a colore di bandiere metropolitane o di pelli bianche…

Prendendo il reddito nazionale russo per quello dichiarato nelle solite fonti ufficiali e congressuali, e negli «storici discorsi», ci sarà facile confrontarlo con le cifre già qui esposte diffusamente degli investimenti di Stato e di piano «nell’economia nazionale», rispetto alle quali abbiamo già esaminato la rata elevatissima di lavori dati «in appalto» e la rata di quelli di «costruzione e montaggio», volendo pervenire ora alla rata destinata alle case di abitazione che abbiamo esposto in termini fisici e dobbiamo trattare in termini economici.

Rimandando alla serie degli investimenti per anno e per piano quinquennale già riportata, dobbiamo indicare i dati relativi al reddito nazionale; sarà poi facile dedurre il rapporto tra investimento e reddito, e mostrare come esso sia altissimo, con totale smentita alla tesi Bulganin, che d’altra parte trova comodo dire: «in regime socialista tutto il reddito nazionale appartiene al popolo», per non soffermarsi troppo sul problema della quota del reddito destinata al consumo. In effetti la tesi marxista che tutto il valore che si aggiunge nella produzione è dato dal lavoro umano, deve accompagnarsi con l’altra che si parla di reddito quando il valore prodotto passa da chi lo ha generato col suo lavoro al membro di altra classe sociale che ne gode grazie al sistema di rapporti di produzione. In economia socialista vi è lavoro e vi è consumo, ma non vi sono «redditi». Né individuali, né nazionali.

Le notizie che abbiamo sullo sviluppo del reddito nazionale, che dobbiamo ritenere date in rubli del tempo in cui si produsse, le sintetizziamo in queste cifre, espresse da miliardi di rubli. 1928, 24,4; 1929, 29,0; 1930, 35,0; 1932, 45,1; 1933, 48,5 (in altro discorso di Staun 50,0); 1938, 105,0. Da questa data non si parla più di cifra monetaria del reddito ma solo di rapporti. Dal 1940 al 1951 e al 1955 si sarebbe avuto lo sviluppo per indici: 100, 184, 276. Nel corso degli anni del quinto piano (1950 a 1955) si sarebbe avuto il rapporto da 100 a 168. Ed infine si presume per il sesto piano, 1955–1960, il rapporto 100 a 160.

Elaborate un poco le dette cifre, e supposto, molto ottimisticamente, che dai 105 miliardi del 1938 si sia passati negli altri due anni antebellici a 115 e 125, avremmo questa serie per gli ultimi anni, in cifre all’ingrosso: 1950, 210 miliardi di rubli; 1951, 230; 1952, 260; 1953, 295; 1954, 330; 1955, 370; e, previsti per il 1960, miliardi di rubli 590.

Se il rublo fosse uguale al quarto di un dollaro, sul che grava forte dubbio – e come vedremo soprattutto in materia di costruzioni e di case – i 370 miliardi attuali sarebbero 93 miliardi di dollari, che stanno contro i 306 americani del 1955. Il reddito per abitante sarebbe di 450 dollari in Russia, di 1850 in America, e in Russia nel 1960 arriverebbe a circa 650, tenuto conto della popolazione (280 mila e 400 mila lire italiane rispettivamente).

Sempre mantenendo tali cifre, contro il reddito nazionale russo di 93 miliardi di dollari quello italiano 1955 sarebbe di 21 miliardi. Il reddito per abitante italiano nel 1955 vale 270 mila lire, e 430 dollari; sarebbe in pratica pari al russo se valesse quel dubbio rapporto: quattro rubli per dollaro 155 lire per rublo.

Ma basterebbe questo a mettere molto giù il medio tenore di vita russo. Infatti sappiamo che la cifra totale dell’investimento russo va da 91 miliardi di rubli nel 1950 a 150 nel 1955. Se sarà mantenuta la promessa di 990 miliardi di investimento nel sesto piano, si dovrà avere nel 1960 un investimento di 250 miliardi di rubli.

Queste cifre, tutte russe ed ufficiali, messe in rapporto con la serie di quelle di pari fonte per il reddito nazionale, danno la seguente percentuale di investimenti rispetto al reddito: 1950, 43,4 per cento; 1951, 44,3; 1952, 43,9; 1953, 40,4; 1954, 42,4; 1955, 40,4. La previsione 1960 risulta 42,3.

Quindi del reddito russo annunziato se ne investe il 40 per cento e più, ossia tra 40 e 44, e la popolazione non ne consuma i tre quarti, ma meno del 60 per cento, dal 56 al 59 per cento.

Abbiamo visto che negli altri paesi il rapporto è molto minore, e non raggiunge il 25 per cento. Negli Stati Uniti supera di poco il 20 per cento, ed in Gran Bretagna è ancora molto più basso.

In Italia, ben lo sappiamo, si fa un gran lavoro per portarlo nel 1964 al 25 per cento, mentre nel 1956 è stato del 25 per cento appunto.

Ora consumando il 57 per cento di 280 mila lire se ne hanno 160 mila per il russo, e per l’italiano il 75 per cento su 270 mila gliene lascia 200 mila. Salvo il rapporto di potere valutario, che è molto peggio per il russo.

85 – Partizione dell’investito

Ritorniamo su questo argomento pure avendone già detto per l’industria e l’agricoltura, ed avendo indicato quali incertezze sorgano da ogni lato. In questo caso si tratta di pervenire alla parte che riguarda le costruzioni, l’edilizia generale e quella per abitazione, campo nel quale si annida il grosso imbroglio economico ed una forma che non è certo molto diversa da quelle nostrane.

La «World Economic Survey», rassegna economica mondiale delle Nazioni Unite, anno 1955, porge un prospetto degli investimenti che stanno a base del sesto piano quinquennale, ed elenca le cifre molte delle quali abbiamo già date traendole dai tante volte citati discorsi del XX congresso. La tabella riguarda i ben noti 594 miliardi del V piano, e i 990 del VI, e quindi riguarda gli investimenti del governo centrale ai quali si aggiungono quelli di altri enti, come finora, tra altri minori, i colcos. Sappiamo che nel V piano i 594 miliardi statali sono divenuti 625 nel conto globale.

È certo che durante gli anni del VI piano, a partire da questo che è il secondo, anche l’investimento verrà fortemente decentrato, giusta il recente indirizzo centrifugo e regionalista che si intende dare all’economia e che racchiude in sé un’altra notevole tappa verso la «confessione» di identità del sistema russo con tutti gli altri.

La più grande parte del piano russo è per l’industria: ben 353 miliardi nel V piano, ossia il 59,4 per cento, e 600 nel sesto ossia il 60,6.

Di questi le industrie leggere ed alimentari, ossia che producono beni di consumo immediato, rappresentano nell’uno e nell’altro piano il 6 per cento. Per il sesto piano è stata poi indicata per la grande industria la cifra di 400 miliardi, due terzi di quella generale, e 40,4 per cento del piano, ma non è chiaro se contenga tutta l’industria pesante.

Bulganin ha detto che più di 400 miliardi varino investiti nei seguenti settori: costruzione di centrali elettriche, imprese della metallurgia ferrosa e non ferrosa, e chimiche, petrolio e carbone, materiali da costruzione ed industria forestale. L’annuario ONU fa l’ipotesi che il resto oltre l’industria leggera, in 141 miliardi, sia coperto dall’engineering, ossia dalle opere di ingegneria, i nostri lavori pubblici, ma sembra ritenere che gli edifici pubblici e privati figurino più oltre.

120 miliardi come già sappiamo saranno investiti nell’agricoltura, a cui se ne aggiungerebbero 100 dei colcos.

200 miliardi vanno sotto la voce: servizi culturali e sociali, di cui è data questa specificazione: abitazioni, edifici di utilità pubblica, scuole, università, istituti scientifici, ospedali ed impianti sanitari, teatri, asili infantili ed altre istituzioni. Non vediamo quindi qui le case di abitazione valutate a parte. Restano ben 70 miliardi sui 990, ossia il 7,1 per cento, sotto l’indicazione vaga di «altri settori».

Nel precedente V piano l’agricoltura ha preso 64 miliardi, ossia il 10,8 per cento che oggi si porta al 12,1 per reagire alle notissime e confessate deficienze. I servizi culturali e sociali sono a 120 miliardi, e nei due piani al 20,2 per cento. Il resto a destinazione varia era nel quinto piano 57 miliardi, ben il 9,6 per cento.

Disponiamo di un altro specchio circa le sole percentuali, ma per i singoli anni 1950, 1952 (manca il 1951), 1953 e 1954, ossia 4 su 5 anni del quinto piano. Le rate dell’industria pesante sono state 55, 61, 56, 55. Quelle della leggera 5, 5, 6, 9. Le percentuali investite nell’agricoltura 10, 8, 8, 9. Nei trasporti, che qui figurano a parte, 14, 12, 13, 12. Nelle abitazioni, che ci sono date a sé, 12, 12, 13, e 16. Come investimenti diversi figurano le rate per cento 16, 14, 17, 15 nei detti anni. L’annuario vi annota le opere pubbliche e dell’amministrazione, come sopra.

Possiamo ritenere che il 16 per cento di tutto l’investimento sia stato destinato alle case di abitazione nel 1955 e sappiamo che una rata non inferiore si dichiara di voler raggiungere nel sesto piano. Comunque sapendo gli investimenti anno per anno per la quantità globale 625, che sono dal 1951 al 1955: 102, 114, 119, 140, 150, possiamo spartire i corrispondenti 594 statali come segue: 97, 109, 113, 113, 142. Sapendo le percentuali e ponendo quella 1951 pari al 12 del 1950 e del 1952, si hanno i seguenti investimenti nelle case per 5 anni: miliardi 12,2, 13,7, 14,3, 18,2, 24,0. Sono in tutto 82,4 miliardi nel quinquennio.

86 – Economia russa dell’abitazione

Lo Stato dunque avrebbe investito nella costruzione di case nel quinto piano quinquennale la somma di 82,4 miliardi di rubli. Tale cifra trova conferma in quella data da Chruščëv di 100 miliardi, con questa espressione: «fondi investiti da parte dello Stato nella costruzione alloggi».

Infatti noi sappiamo che lo Stato ha costruito direttamente per 105 milioni di mq., che per noi valgono 5 800 000 stanze, ma oltre a ciò ha finanziato 39 milioni di mq. costruiti da privati, a parte 10 milioni di aziende ed altri servizi, e 2,3 dei colcos e per i loro «intellettuali».

Non sappiamo la rata del finanziamento ma la supponiamo non inferiore ai due terzi del costo (tutto il mondo è paese! quando lo Stato finanzia è regola «farci uscire tutto»). Possiamo quindi portare i 105 milioni di mq. a 131, rapporto che è circa quello che porta gli 82,4 miliardi a 100.

Se quindi su 594 miliardi di investimenti ne sono andati alle case 100, il rapporto percentuale è del 16,9 per cento, e quindi inferiore a quelli europei ed americani che abbiamo citati e che stanno tra 20 e 24 per cento.

Avendo Chruščëv annunziato che si deve raddoppiare, e dato il rapporto da 105 a 200 in milioni di mq., possiamo portare i 100 miliardi a 191 per il sesto piano, e porli in rapporto ai 990 totali; avremo che le case rappresenterebbero nel prossimo quinquennio il 19,3 dell’investimento, ossia un ritmo del tutto… vanoniano.

Invero la cosa si urta in qualche difficoltà se notiamo che tutto deve uscire, con moltissima altra roba non di carattere residenziale, dai 200 miliardi dei servizi sociali e culturali; ed anche qui si ripete in modo stucchevole la cantonata di tutti i piani italfanfa-vanoniani: dare troppo peso alla casa in rapporto all’altra edilizia.

Se poi cerchiamo il rapporto tra spesa case e reddito nazionale, possiamo averlo dalle cifre 1955, che sono in miliardi 24 e 370, col rapporto del 6,5 per cento, che è veramente forte, se si pensa al quasi 4 italiano e al 5 americano! E se si pensa che crescerebbe molto nel sesto piano.

Più difficile è trovare il rapporto tra edilizia per abitazione e costruzioni in generale, che per l’occidente gira attorno al 50 per cento.

Ripreso il nostro specchio di partizione dell’investimento abbiamo per il quinto piano tutti i 120 miliardi che (lasciando poco margine) comprendono le case. Per quadrare il conto dobbiamo attingere ai 353 miliardi dell’industria, in quanto riguardino non macchine e scorte ma costruzione degli stabilimenti, supponiamo 100 miliardi; e ai 64 dell’agricoltura per opere fisse e fabbricati, siano altri 30. Se ne prendano anche 40 dai 57 di altro settore e si va a 300 miliardi e dunque la metà. Una volta ancora: nulla di nuovo.

Fatta a Bulganin proprio la stessa operazione praticata a Vanoni!

87 – Costruzioni ultracostose

Il peso della macchinosa industria delle case di abitazione tende dunque in Russia ad «emulare» quello dei paesi in cui imperversa la mania della casa propria, intelligentemente incoraggiata dagli operatori del capitale e dagli economisti al servizio del capitale. Si tende alla saldatura casa-famiglia che è, come abbiamo sviluppato nella riunione di Ravenna[291] l’equivalente urbano ed industriale della formula colcosiana nelle campagne, basata sulla strettissima relazione famiglia-parcella di terra; famiglia-azienda minima; famiglia-casetta.

In Russia è indiscutibile che la scarsezza di case è enorme per un’economia basata sullo sviluppo industriale e mercantile, e che gli strati miseri della popolazione imparano adesso o da pochi anni che cosa sia una casa di struttura stabile. Ma tutto sta ad indicare che il pullulare dei cantieri edilizi non è indirizzato a munire di case questi strati primitivi e poco esigenti, ma ad arruffianare strati piccolo-borghesi, e un’aristocrazia operaia, o di spioni degli operai, a modi di vita esistenziali e snobisti, copiati dall’andazzo del mondo capitalista occidentale. Deduciamo questo dall’entità della spesa per le case e dalle stesse rampogne date nei congressi dai capi, che pure dispongono di case in città e di «dacie» o ville di campagna in cui sono entrati tutti i lenocinii dell’insipida e triviale edilizia borghese contemporanea. Questa ha il suo tempio non presso il focolare della cucina o nella stanza degli antenati, ma sui monumenti della stanza da bagno tra rivestimenti di vetro cangiante e lucori di sempre più strane robinetterie cromate.

Abbiamo stabilito più sopra che 131 milioni di metri quadri di abitazioni, pari a 7 200 000 stanze medie, sono costati 82,4 miliardi di rubli. Questa divisione vi apparirà un poco macchinosa, non lo negate, ma togliete sei zeri per parte ed avrete un poco più di 7 stanze per 82 300 rubli. Il risultato esatto è 11 400 rubli ogni stanza. Se davvero il rublo valesse 155 lire come risulta dalla parità al quarto di dollaro, il costo di un vano o stanza risulta di 1 750 000 lire!

Sapete che nel Piano Vanoni si calcola 500 mila lire: dunque in Russia una stanza costa tre volte e mezzo più che in Italia. Ma mezzo milione è già il prezzo di costruzione di una casa civile, e il Piano Vanoni partì sette anni fa con 300 mila a vano per le case operaie. Aggiungete che nelle previsioni italiane si deve al costo di costruzione aggiungere il valore del suolo che si espropria a privati, sia pure in zone non vicine al centro della città. Il «socialismo» non si sarebbe nemmeno liberato della più esosa di tutte le speculazioni borghesi, che è quella sui terreni da edificazione.

Un milione e tre quarti per stanza è cifra che fa stropicciare gli occhi ed il lettore potrebbe diffidare dei nostri passaggi e riduzioni, tra milioni di metri e miliardi di rubli, sicché è il caso di rassicurarlo. Prescindiamo dalla relazione tra un vano e 18 metri quadri, e consideriamo di quattro metri, ossia in oggi molto larga, l’altezza del piano, ossia delle stanze delle case considerate. I 131 milioni di metri quadri costruiti in cinque anni divengono 524 milioni di metri cubi di fabbricati, e volendo tenere conto dei volumi di scale ed androni con altrettanta larghezza, 600 milioni di metri cubi. Questi sono costati 82 400 milioni di rubli, come ben sappiamo, ed il costo unitario è ora espresso da 137 rubli per ogni metro cubo. Col solito cambio sarebbero 21 300 lire. Se interpellate un buon muratore saprete che questo è tre volte il costo di una casa di lusso in Italia, che si fa bene con 7100 lire per metro cubo, come si dice, «vuoto per pieno».

Non vi sono dubbi dunque sull’esattezza dei nostri piccoli computi, e non resta che ammettere una delle due cose: o il valore del rublo, il suo potere di acquisto riferito a tutta la gamma dei generi di prima necessità, è enormemente inferiore al quarto di dollaro – o in Russia il costo della costruzione di case si eleva di tre volte al di sopra di quello che a parità di condizioni raggiunge negli altri paesi.

Se ammettete la prima cosa, avviene che il tenore di vita, prima considerato quasi pari a quello italiano, scende alla terza parte – se ammettete la seconda ne segue che nella costruzione di case in Russia negli «appalti» da noi già illustrati ed ufficialmente annunziati (Annuario sovietico ufficiale, discorso di Bulganin) le misteriose «organizzazioni» e i loro poco definibili e identificabili «operatori» fanno sugli affari un premio del duecento per cento almeno, a danno dello Stato, e quindi dei lavoratori dell’industria.

Noi non ci dedichiamo in questo punto ad illustrare quale sia la soluzione giusta col mezzo dei prezzi degli altri generi, che va decifrato tra prezzi dei magazzini di Stato e prezzi del minuto commercio, ma arrischiamo una risposta media. Il reale potere di acquisto del rublo è oggi di un ottavo di dollaro, pari a circa ottanta lire italiane; la costruzione edilizia si paga una volta e tre quarti il costo nei paesi occidentali, ossia con un extraprofitto del 75 per cento.

88 – Più lusso che in America?

Vogliamo illuminarci con un altro confronto. Dai dati americani che abbiamo riferiti risulta che nel 1952 si sono costruiti 1 milione 100 000 dwellings ossia appartamenti per abitazione. La spesa per l’abitazione è stata in quell’anno 13 bilioni, o miliardi, di dollari. Dunque un’abitazione americana costa in media 11 700 dollari. Tale somma corrisponde a 7 250 000 lire. A quante stanze dobbiamo far corrispondere una casa americana media? Non abbiamo a disposizione statistiche ma per chi conosca le piante delle case e delle villette americane con tutti gli accessori fino al garage, non sembrerà esagerato mettere anche dieci vani. Il costo medio di una stanza (che qui comprende il terreno) risulta di 725 000 lire, e se è certamente superiore a quello italiano di 500 000 lire è bene inferiore al russo di 1 750 000 lire, trovato col rapporto di un quarto tra rublo e dollaro.

Col rapporto più giusto di un ottavo, la casa russa costa 875 mila lire contro 725 mila di quella americana per ogni stanza, o se volete 1400 dollari contro 1170, il 20 per cento di più. Ma il tono della casa media edificata oggi in Russia è più verosimile adeguarlo a quello, già stupidamente pretenzioso, della casa italiana, e non a quello americano per classe media e anche per proletariato qualificato: esponemmo che 37 milioni di famiglie statunitensi su 50 al massimo hanno la macchina, 45 milioni il frigorifero, 38,8 milioni di case il televisore!

D’altra parte nel 1956, anno che ha segnato il massimo delle costruzioni, con l’investimento di 16 miliardi di dollari, le abitazioni sono state ben 1 700 000. Il costo di un’abitazione scende a 9400 dollari, pari a 5 800 000 lire. Potremmo indurne la diminuzione ulteriore del costo del vano medio ma troviamo più logico ammettere che la campagna per la casa a tutti abbia con l’ultima ondata provveduto le famiglie meno agiate, e che la media di stanze per abitazione sia stata di otto anziché dieci, con lo stesso costo unitario prima stabilito. Che vergogna se l’America riduce i costi e l’URSS, che parla tanto di farlo, li vede crescere!

Non si capisce se i dirigenti russi lottino a favore o contro questa forma di emulazione, che risponde ad un ignobile scimmiottamento, degno non di un nemico che ogni tanto minaccia di ribattere missile su missile, ma di un popolo rincoglionito quanto quello italiano, che lascia impiantare le basi dei missili d’America, e raccatta per le città spezzati di dollari per farsi televisori di seconda mano e frigoriferi risibili sotto un sole ed un clima che conservano tutto fresco a cielo aperto, salvo la fierezza e il coraggio di non lasciarsi affittare donne e coscienze.

Abbiamo sentito Chruščëv tuonare contro la «situazione scandalosa» e veramente crediamo che quello immobiliare a Mosca sia uno scandalo ben peggiore di quello liberatore e vaticanesco di Roma.

Ma vi sono altri suoi detti del XX congresso che vanno richiamati. Ad un certo punto egli ha detto:
«Per migliorare la vita della famiglia sovietica bisogna aumentare la produzione di macchine utensili che agevolino i lavori domestici: lavatrici, elettrodomestici, macchine da cucire, utensili da cucina perfezionati, diminuendo al tempo stesso il costo di tali prodotti».

Evidentemente l’oratore si è a tal punto morso le labbra per questa smaccata apologia del peggiore bigottismo domestico piccolo-borghese: home, sweet home, casa, dolce casa, una emulazione perfetta della volgarità e della ipocrisia dei filibustieri ritinti discesi dal Mayflower. Avranno certo ricostruito la nave con i bagni e water-closets a siphonic, anche se senza macchina a vapore, mentre or sono tre secoli si vuotavano i pitali a mare…

Chruščëv ripensa alle leniniane mense in comune, ed invoca un miglioramento della preparazione del cibo collettivo: «organizzare l’alimentazione pubblica in modo che per la massa dei lavoratori sia più vantaggioso servirsi delle mense e delle tavole calde che acquistare prodotti alimentari e preparare i cibi in casa». Egli vuole «esonerare milioni di donne da molti lavori domestici…», ma noi crediamo che siano meno borghesi le donne americane, che la risolvono facendo lavare i piatti al marito. Povero comunismo! Avesse capitolato solo davanti ai conti economici sarebbe niente; ha rinculato davanti al problema dell’eguaglianza sessuale, come davanti a quello dei culti religiosi, problemi che con la forza rivoluzionaria nelle mani il partito marxista risolve senza bisogno di calcoli pianificati, con poche volate di sberle, perfino senza effusione di sangue.

Ma è il dramma delle cifre che turba i sonni ai dirigenti di Mosca, i quali con i recenti radicali mutamenti nell’organizzazione produttiva non fanno che ammettere ogni giorno più di stare perdendo crassamente la «folle sfida» dell’emulazione.

89 – Il dramma dei «costi»

Costituiscono una vera geremiade le ammissioni di non riuscire ad elevare la produttività del lavoro e ridurre i costi di produzione. Un marxista non se ne può meravigliare. Quando la rivoluzione proletaria si pone un problema alla maniera borghese lo risolve peggio della borghesia. Immaginiamo che i vittoriosi fabbricanti e banchieri di Francia si fossero dati a ricostituire la Tavola Rotonda di Re Artù, la cavalleria di Carlo Magno, e i suoi monasteri-falansteri, invece di dare sfogo alle nuove forme di produzione; sarebbe stata la fame epidemica.

I pretesi bolscevichi hanno posto il problema in termini di mercantilismo e hanno così rinunziato alle risorse che sole fanno dell’economia comunista una forma di più alto rendimento, che economicamente chiede l’ossigeno della rivoluzione internazionale. Affondati nell’equazione borghese dei costi e dei prezzi, questa tenaglia si chiude stringendoli alla gola.

Il socialismo pone la questione del rendimento del lavoro con la dottrina della compressione audace del tempo di lavoro, e all’indomani della vittoria rivoluzionaria non potrà che dare un colpo formidabile in questo senso, sulla classica via dell’intervento dispotico del «Manifesto». Con questo aumenterà come risultato immediato i costi, anche espressi in tempo di lavoro, è certo, ma risponderà col dare molti tratti di corda ai consumi cretini, anzitutto dei non proletari e delle classi medie (gli intellettuali hanno come prima cosa bisogno di un regime non drogato, asciutto e spartano), e risolutamente degli stessi lavoratori che la rivoluzione deve spingere a costumi opposti a quelli della precedente decadenza. I rivoluzionari che avevano disperse le sedi sontuose di Versailles ebbero il coraggio di esibire il sanculottismo e di vestire le donne, degne furie rivoluzionarie, di una tunica rude e succinta.

Col passo attuale che prende le consegne da Mosca e dai suoi rappresentanti esteri, pur di mimetizzarsi emulativamente sulle mode e gli stili del cinema di oltre Atlantico, insegneranno agli operai ad indossare lo smoking al momento della rivoluzione, che per loro significa ingresso nel governo delle classi operaie, Palmiro e Pietro nel cilindro di Benito, Thorez e simili insetti profumati di Coty, Gallacher al baciamano di Elisabetta.

90 – Politici ed «architetti»

Di urbanistica e di costruzioni i vari Chruščëv parlano del tutto ad orecchio, come in tutto il capitalismo decadente la classe «politica» si compone di orecchianti, foraggiatori compiacenti di pretesi esperti.

«Abbiamo condannato nella costruzione i metodi artigiani e gli inutili dispendi… Non possiamo ammettere che milioni di rubli vengano sperperati per decorazioni assurde per compiacere il cattivo gusto di certi architetti… Le abitazioni devono essere quanto più comode è possibile, gli edifici devono essere solidi, economici, belli… Bisogna porre l’organizzazione della costruzione delle abitazioni su basi industriali… aumentare la produzione di materiali da costruzione, di case prefabbricate».

Bulganin dirà che a questi scopi, e soprattutto per imparare a ridurre i costi, nel che tutte le previsioni dei piani hanno fatto bancarotta, sono stati spediti in occidente gli ingegneri e gli architetti sovietici!

Ma nei loro viaggi questi signori non sentiranno che ripetere gli stessi abusati slogans del discorso Chruščëv: industrializzare, standardizzare, imporre a chi non sa che farsene e le subisce per pura viltà e cafonismo comodità a schema fisso fabbricate e propagandate in serie.

Scambiare la ciarlataneria della moderna architettura ed urbanistica per un’intelligente ricerca di ottenere il massimo scopo umano e sociale col minimo mezzo e spesa, è veramente una spassosa bevuta degli emulatori. La speculazione appaltatrice e mercantile, che non ha mai tanto diguazzato come quando lo Stato finanzia dentro e fuori le frontiere, lavora a distanziare i costi dai prezzi con forti investimenti in spese di pubblicità e in corruzione di uffici (coda passiva ultima delle società fradice, e non forza nuova sociale) al solo scopo di esaltare il profitto, e dove troviamo presso l’appaltatore il prezzo alto, che lo Stato coglione (ma non tale in linea di posizione di classe) chiama «costo» perché è lui a pagare, vi è una sola spiegazione della differenza: l’esaltazione del profitto che finora si è chiamato di impresa oggi si può meglio chiamare di operazione economica, perché i soldi da spendere lo Stato pianificatore li tira fuori e li arrischia lui stesso.

Solo il fluire più o meno sotterraneo di un profitto di capitale può spiegare che la casa russa costi il doppio che altrove, anche rispetto a case estere non solo migliori, più belle, più solide, ma anche fatte con sfoggio di capricci degli architetti, senza uso di prefabbricati commerciali, e con metodi «artigiani».

Nella produzione delle merci il sistema artigiano è stato sommerso, e lo doveva, dalla produzione in massa e in serie capitalista. Ma quando il capitalismo cadrà si uscirà dalla piattitudine sinistra del prodotto moderno. La casa non è esattamente una merce, non fosse che per il fatto che non è trasferibile qua e là ma radicata nel suolo naturale. Il suo romanzo, che non possiamo qui scrivere, ha capitoli originali.

I russi, imbevuti fino alla cima dei capelli dal malcostume capitalista dell’industria internazionale delle costruzioni in appalto e delle abitazioni, che traversa l’epoca di maggiore degenerazione di tutta la storia di questa attività umana, pestano l’acqua nel mortaio a cercare in questo andazzo borghese il metodo per ridurre i costi, e non vedono che esso è solo il metodo per esaltare scandalosamente il profitto e l’extra-profitto del capitale, che tra loro si mostra, se le cifre non ci hanno mentito, non solo presente, ma più virulento che ovunque.



Notes:
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  1. Quella «saldatura stretta fra l’istituto economico e il demografico, l’azienda e la famiglia, binomio di base su cui sono costruite tutte le impalcature sociali del mondo privatistico» che induce a «saldare questo molecolarismo ultraframmentato ai due cementi della reazione antisocialista più tremenda: religione-pretismo e patriottismo-esercito» (in «Programma comunista», nr. 3/1957). [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 9, Maggio 1957

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