LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXVI)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVI)
98 [199] – Crisi della casa nel 1956 e 1957!
99 [200] – Dati russi recenti
100 [201] – L’abitazione rurale
101 [202] – Confronto città-campagna
102 [203] – Altri indici dell’ultimo anno
103 [204] – Orgia di mercantile miseria
104 [205] – Mistero del tenor di vita
105 [206] – Nel tempio-stato, l’idolo d’oro
106 [207] – Reddito e bilancio
107 [208] – Il gobbo fisco sovietico
108 [209] – Dal mazzo delle democratiche ubbie
|< >|
Notes
Source


Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVI)

98 – Crisi della casa nel 1956 e 1957!

Prima di lasciare l’argomento della casa (è stato per noi un «argomento campione», o, in altre parole, una prova di Wassermann della sifilide economica borghese) è bene registrare le cifre del 1956, primo anno del nuovo piano quinquennale, come sono state date dalla pubblicazione «Notizie Sovietiche» nel n. 3 del 1957.

Notiamo subito che la fonte filosovietica dichiara che «il piano di costruzione degli alloggi non è stato adempiuto interamente». Un’analoga lamentela viene dall’America, e ascoltiamo la nota rivista «Fortune» dell’aprile, che si pone la domanda: è l’industria della costruzione delle case una forma per sua natura crescente? E risponde che, dopo lo sviluppo incredibile della decade postbellica, gli ultimi due anni, e il primo trimestre di questo, hanno dato inizio a un ripiegamento; e la causa è più profonda che la difficoltà di anticipare il massiccio investimento di capitale nell’housing. Nei due anni il reddito nazionale è salito del 9 per cento, l’occupazione del 6 per cento, mentre l’inizio (starting) di nuove costruzioni è sceso del 25 per cento, coi dati del trimestre ultimo. Nella decade postbellica dodici milioni di nuove abitazioni hanno assicurato oltre dodici milioni di posti fissi di lavoro (il quinto del totale!), mentre aggiungevano più di cento milioni di dollari al prodotto lordo nazionale. La crisi si inizia in un momento in cui, a dire della rivista, non ci si può consolare con l’alta dotazione di abitazioni. Dato il crescere della popolazione e il degrado delle vecchie case, lo «standard» degli alloggi in America, messo in relazione al reddito nazionale, «è più basso che nel 1929».

La dura constatazione è aggravata dal fatto che la crisi investe le case di minor costo, in questi ultimi anni. Indicammo come costo medio della casa nel 1956 (v. paragrafo 88) 9400 dollari, contro 11 700 circa nel 1952, e ne deducemmo che il trascorso grande sviluppo della massa di case costruite si accompagnò con l’orientamento della produzione verso la casa meno costosa e vasta. Oggi il movimento si presenta invertito: troviamo infatti queste cifre, un poco diverse da quelle della fonte precedente («The Economist»): 12 300 nel 1954, 13 700 nel 1955, probabili dollari 15 500 nel 1957. Il modesto acquirente ha ceduto, oggi. Possono essere stati variamente considerati spazio, lavori e impianti accessori alla casa vera e propria, ma quello che importa è la direzione del movimento: sappiamo poi che negli ultimi due anni ha giocato un sempre più accentuato decrescere di potere di acquisto del dollaro.

Non possiamo diffonderci di più sulla questione della casa in America, ma va notata la strana analogia tra le dichiarazioni delle due fonti: «Fortune» deplora la disorganizzazione e il disordine dell’industria delle case; «Notizie Sovietiche» scrive
«In relazione al frazionamento dei fondi in numerosi cantieri, è aumentato il numero delle costruzioni incompiute».

99 – Dati russi recenti

Ma è il caso di ritornare alle case russe, richiamandoci ai dati che abbiamo già riferiti nei nostri paragrafi 79 e 80. Ci viene oggi detto che
«nel 1956 le organizzazioni statali e cooperative ed anche la popolazione urbana [leggi: i privati], a proprie spese con l’ausilio del finanziamento statale, hanno costruito case di abitazione con una superficie globale di 36 milioni di metri quadri».

Coi rapporti da noi introdotti si tratta di due milioni di vani e di mezzo milione di abitazioni urbane, ossia circa 2,5 per ogni mille abitanti, contro l’indice 10 che si raggiunge in Germania ed in America – sebbene ovunque in diminuzione, e sebbene la casa russa si possa mediamente considerarla meno di 4 vani e quindi 72 mq., il che aumenterebbe i numeri ma non i valori, dato che le case europee ed americane sono molto più grandi. Dai dati di «Fortune» si possono dedurre, senza il garage (molti per snob ne chiedono – dice un architetto – uno da due macchine, pur non avendo da metterci che la tondeuse dell’erba!) e altro, da 983 a 1230 piedi quadrati, ossia da 92,5 a 115 metri quadri, per le sole stanze di alloggio e soggiorno.

Vediamo perché, proprio come in America, i 36 milioni di mq. rappresentino un indietreggiamento, circa della stessa misura che è data laggiù: 25 per cento.

Ricordiamo, restando ai milioni di metri quadri, i dati russi. Nel IV piano, totale costruzioni urbane 70 milioni; nel V 154 milioni, con aumento del 120 per cento nel quinquennio, e del 17 per cento annuo.

Nel V piano dei 154 milioni sono 105 (Chruščëv) quelli statali diretti, che si diceva di portare nel VI a 205, dei quali 29 sarebbero stati fatti nel 1956.

Conservando la proporzione ai vani urbani totali, questi devono crescere da 154 a 305 milioni. L’incremento nel quinquennio era previsto del 95 per cento (contro 120 dell’altro piano), e vi corrisponde un passo annuo del 14,5 per cento, col quale appunto nel primo anno contro i 105 milioni statali ne vanno fatti 29 milioni. Con le cooperative e i privati dovevano essere 43 milioni, pure avendo scontata la discesa dal passo del 17 per cento a quello del 14,5.

Ci si annuncia oggi che al posto dei 43 milioni preventivati se ne sono fatti nelle città, nell’anno testé decorso, solo 36 milioni, e non siamo noi che li abbiamo contati. Si è dunque rimasti al di sotto del programma pel 20 per cento, dato che l’incremento annuo è stato dell’11,8 al posto del promesso 14,5. Nel quinquennio si avrebbe non più il 95, ma il 74 per cento di incremento, salvo ulteriore ripiegamento, come in America attendono.

Sembra che in questa questione vi sia una differenza tra i «due sistemi», dato che in America cresce di continuo il debito degli occupatori di case ed il tasso a cui scontano i loro «mortgages» (ipoteche), che tra alcuni anni raggiungeranno cifre astronomiche e assai intriganti per la dottrina economica ufficiale.

È facile prevedere che una crisi di disoccupazione e di rarefazione del credito rovinerà i possessori di case per famiglia. Man mano, se essi vorranno mangiare, dovranno vendere le macchine, i televisori, e infine le case, che andranno a vil prezzo in bocca al creditore. Ricchezza borghese genera miseria.

Ma a noi pare diverso il malessere indiscutibile dei «ceti medi» anche in Russia, con il quale gli economisti inglesi spiegano oggi le recenti «riforme» nella gestione centrale dell’economia pianificata chiamandola una «managerial revolution»!

Quando la casa è tanto trasmissibile in eredità quanto vendibile (la seconda cosa non è per la casa colcosiana) la conferma che vigono le leggi dell’accumulazione del capitale che ne vietano ogni imbelle «democratizzazione», sia etichettata socialista che liberale, si avrà quando esse costringeranno, nel corso di questa crisi, che nel prossimo decennio riteniamo prenderà gli stessi aspetti in tutti i paesi, gli illusi proprietari dell’home a mangiarsela, se vorranno campare.

100 – L’abitazione rurale

La recente notizia russa contiene un dato importante, e lo dà con queste parole:
«Inoltre nelle campagne i colcosiani e i tecnici rurali hanno costruito durante lo scorso anno circa 700 mila case di abitazione».

La cifra è imponente, per quanto sia difficile conoscere la dimensione media di ciò che qui si intende per «casa» (nella piccola coltura contadina di tutti i paesi sono sinonimi «casa» e «stanza», perché poco la casa ha evoluto dalla primitiva capanna-baracca).

Avremmo 700 mila abitazioni rurali contro sole 500 mila urbane da noi calcolate, e nulla dice il fatto che tale numero crescerebbe se supponessimo case di meno stanze e stanze di meno area.

Ciò non muterebbe tuttavia le nostre deduzioni sul ritmo delle costruzioni «civili», dato che le abitazioni rurali sono costruite con investimento di denaro proprio della famiglia colcosiana, ed infatti ne restano di proprietà, anche ammesso che vi possa essere un credito a lunga scadenza della cassa del colcos alla famiglia associata, per integrare la spesa di costruzione. Tale spesa, infatti, che non troviamo mai indicata nei testi compulsati finora, non figura negli investimenti statali e nei piani quinquennali (se non negli accenni ad ulteriori investimenti dei colcos e dei colcosiani, cifre estranee a quelle di Stato, e da aggiungere al volume delle cifre del piano centrale). Resta quindi fermo quanto dedotto sul decrescere del ritmo delle costruzioni urbane.

Non meno fermo resta il confronto con gli altri paesi, in quanto abbiamo sempre usato le statistiche delle case urbane e non contadine. Ad esempio in America (annuari dell’ONU, ecc.) sono distinte le case urbane e le rurali, e tra queste le «farms» ossia agricole, e «non farms», mentre alle cifre di cui ci siamo serviti per le statistiche delle costruzioni è aggiunta la nota: «non farm dwellings units» (unità abitative non agricole), e altre colonne con cifre di anche maggiore peso riguardano le categorie di fabbricati industriali, commerciale di altre destinazioni, nel che difetta invece la statistica italiana, come mostrammo.

Per la Russia si può confrontare la cifra data di 700 mila «case» con altra che fu data tra i risultati del V piano quinquennale in un comunicato sovietico, riportato in «Notizie Sovietiche» n. 13 del 1956, ma non riferita da Chruščëv al XX congresso. Si tratta della cifra di 2,3 milioni di case «per i colcosiani e gli intellettuali rurali (?)» che segue l’elenco delle note cifre date invece in unità di milioni di mq. Ove tale cifra si legga in mq. potrebbe essere riferita alle poche case per gli intellettuali (oggi meglio designati come tecnici agricoli) e forse erette col contributo dello Stato; ma se si tratta di tutta la popolazione contadina, si può riferire la cifra alla mal definita unità casa, e naturalmente assumerebbe un ordine di grandezza molte volte superiore; per lo meno 20 volte. Incerti delle statistiche!

È indubitabile che al colcosiano, nella sua multipla figura di cooperatore nella grande gestione del colcos, che riceve un primo salario orario e poi un dividendo sui profitti dell’impresa, e di possessore della piccola azienda, sono state date vaste possibilità di migliorare le condizioni dell’alloggio familiare, destinandovi i margini di lavoro e denaro che gli restano oltre la sussistenza messa a sua disposizione prima in natura e poi in moneta, nei due momenti del beneficio cooperativo e familiare-individuale. Un vero potente settore di investimento e di accumulazione di ricchezza, che ha preso il carattere di una maggiore dotazione edilizia nella campagna russa e, sotto forma di innumeri piccole casette da coloni, integra l’edilizia colcosiana dei fabbricati da fattoria: depositi, stalle da allevamento, manufatti di ogni natura per l’esercizio della coltivazione.

Siamo di fronte ad una serie di fatti che tutti concludono a vantaggio del piccolo contadino, ibridato col cooperatore, e contro il salariato dello Stato capitalista, industriale o agrario (sovcos).

101 – Confronto città-campagna

Le stesse cifre di fonte sovietica, alle quali sole ci atteniamo in questa nostra disamina (subendo le conseguenze che derivano molto frequentemente dalla loro incompatibilità concreta, sia pur dovuta in parte alle traduzioni di propaganda) conducono a stabilire queste relazioni:

1) La popolazione urbana aumenta relativamente ed assolutamente, mentre la popolazione rurale diminuisce relativamente in modo drastico, e secondo le cifre ufficiali (che qui abbiamo mostrato troppo tendenziose) anche in assoluto.

2) Non è facile stabilire paragoni tra il reddito (così lo chiamano essi) delle due classi, ma è chiaro che il gioco degli indici monetari e reali favorisce il contadino che è due volte venditore e compratore di merci, contro il salariato che deve tutto comprare e vende solo a tasso obbligato la sua forza lavoro. Le stesse cifre ufficiali devono ammettere che nelle campagne il reddito misurabile in moneta è superiore a quello delle città, sebbene solo il primo vada ancora sommato con altro reddito in natura, non misurabile.

3) Il lavoratore urbano deve pagare la sua casa di abitazione, e dispone di una rata minima di essa, dato che le case di nuova costruzione procedono a ritmo che appena supera quello di aumento della popolazione industriale (vedi caso di Mosca al nostro paragr. 81). Ci si dice che il costo della casa e connessi si tiene sul 7–8 per cento del guadagno totale: è un indice non dissimile da quelli borghesi (una volta di più). Il massimo sarebbe per ogni metro quadro usufruito 1 rublo e 32 copechi al mese: 206 lire italiane al cambio 156 («Notizie Sovietiche» n. 2–1957); vorrebbe dire per una delle nostre stanze 3700 lire al mese, e sarebbe enorme, se il cambio non fosse ben diverso. L’idiota blocco nostrano delle pigioni («in Russia non aumentano da 25 anni»!) fa molto meglio.

Anche in relazione ai precedenti casi di impiego della moneta russa, ci consentiamo di includere uno specchio di prezzi reali di generi di prima necessità, e lasciamo al lettore di esercitarsi un poco per dedurne un’equivalenza che per noi vale poco più di cinquanta lire per rublo. La fonte è al solito l’annuario russo governativo. Carni e pollami, 15 rubli al kg.; pesce, 6; burro, 35; olii vegetali e altri grassi, 12; uova (uno), 1 rublo; farina e prodotti di grano, 3 rubli il kg; patate, 1,5; ortaggi, 2; frutta, 4,3.

Tutto ciò è indicato come effetto del ribasso generale dei prezzi di Stato, che avrebbe elevato il valore del rublo.

Una casa di una stanza dunque costerebbe per noi non 3700 ma 1200 lire al mese, e quel lavoratore dovrebbe guadagnare 15 mila lire al mese, che non è molto, ma tali da essere espresse da rubli 309.

A quanto è stato solennemente annunziato, al principio del 1957 è stato stabilito il «minimo retribuito» di 300 rubli al mese! Come «conquista».

Dunque il limite di casa per l’operaio russo, se tutto va bene, è di avere una sola stanza per lui e una famiglia di non attivi, al tenore di vita italiano. Ma in Italia la situazione degli alloggi urbani lascia ad ogni 3 abitanti 2 stanze, e alla media famiglia di 4 persone oltre due stanze e mezza. L’operaio russo delle città ha uno spazio vitale di alloggio grandemente inferiore.

4) Nella descritta situazione, mentre la costruzione di case urbane rallenta nel tempo dagli incrementi del 17 a quelli del 14,5, e dell’ 11,7 mantenuto, la costruzione di case per i contadini aumenterebbe (abbiamo indicato le ragioni che ci fanno usare il condizionale) di 2,3 milioni di case, e sia pure di stanze, in cinque anni, e quindi dalla media di 460 mila all’anno a 700 mila nel 1956, secondo la recente indicazione. Si tratta di un aumento di circa il 50 per cento, che sarebbe maggiore se il confronto tenesse conto del numero della popolazione tra città e campagna indicato al punto 1.

Mentre l’ammannimento di case all’operaio rallenta del 42 per cento, quello di case ai contadini accelera del 50 per cento. Si trasformano simili cifre in parole col dire che si tratta di due classi non alleate ma nemiche e che quella operaia è la classe sconfitta. Non abbiamo detto che il rurale imbelle sfrutta l’urbano, perché è terminologia che può dar luogo ad equivoco scientifico – ma non politico e sociale. Classe mantenuta può voler dire altro che classe dominante (Marx, «Manifesto»)?

102 – Altri indici dell’ultimo anno

L’ordine che seguiamo non è forse impeccabile, ma è il caso di esaminare alcune altre delle ufficiali, cifre consuntive del 1956.

Naturalmente si mena scalpore del fatto che, mentre l’incremento della produzione industriale totale è disceso in America nettamente, riducendosi ad appena il 2 per cento, quello sovietico è stato «quasi» dell’11 per cento.

L’indice del 1955, o meglio l’aumento nel 1955 rispetto al 1954, era stato secondo i dati del XX congresso del 12,3 per cento. Va riconosciuto che la diminuzione era attesa. Per il V piano quinquennale si era pianificato il 70 per cento che vale annualmente 11,2, e si era realizzato l’85, che vale il 13,1 annuo. Col 12,3 del 1954–55 si sentiva già la pesantezza. Si pianificò per il VI piano (le cifre le abbiamo ripetute cento volte) solo il 65 per cento, contentandosi del ritmo del 10,5 per cento annuo. Si è verificata la lieve flessione, ma un poco più forte: quasi 11 per cento.

Tale andamento dell’industria è stato al solito «antimalenkoviano». I mezzi di produzione sono stati prodotti con l’11 per cento in più senza quasi, e i mezzi di consumo col solo 9 per cento. Petrolio, gas ed elettricità fanno premio, carbone e ferro hanno perduto maggior terreno.

Sono invece dati indici agricoli buoni, e alquanto inattesi. Sappiamo che il raccolto dei cereali lungo il V piano invece di crescere del pianificato 55–65 per cento crebbe, con andamento difficile, solo del 29 per cento, tanto che si previde per il successivo quinquennio di elevarlo del solo 20 per cento.

Invece il prodotto 1956 del grano – non di tutti i cereali – sarebbe in un solo anno salito del 20 per cento, «e ha superato in misura notevole quelli di tutti gli anni precedenti». Questa frase in apparenza apologetica può significare solo questo; che nel 1955, sebbene il raccolto dei cereali fosse cresciuto del 23 per cento (da 1220 a 1500 milioni di quintali) per effetto di una favorevole stagione, il raccolto del frumento deve essere stato basso, anche rispetto a qualcuna delle precedenti annate. Si inneggiava infatti al granoturco per le bestie.

La serie di tutti i cereali era stata, dal 1950 al 1955, la seguente: 1160, 1125,1310, 1170, 1220, 1500, come abbiamo molte volte ripetuto, per mostrare come ben due volte si era trattato di indietreggiamento. Quali le cifre corrispondenti del frumento, che non è il solo cereale di cui in Russia si fa pane?

Si può stabilire che per molti anni il raccolto del frumento si tenne in cifre basse e perfino sotto l’anteguerra. Nel 1913 fu 816 milioni di q.li, nel 1927 era di meno, 775 milioni. Malenkov ci raccontò che tra il 1940 e il 1952 crebbe del 48 per cento: ma tra quali cifre? Nel comunicato relativo al V piano si riferì solo che tra gli anni del IV e quelli del V il raccolto granario «medio», ossia per ettaro, era salito solo del 18 per cento.

Col V piano si era stabilito di farlo salire dal 55 al 65 per cento, e ripetiamo che quello dei cereali salì del 29 soltanto, a 1500 milioni di quintali. È possibile che quello del grano sia salito meno (18 contro 29), rimasto stazionario, o disceso, anche fino all’anno 1955. Non è quindi possibile credere alla serietà di una ripresa agraria se non si pubblicano due elementi: quali le cifre del raccolto del solo grano negli anni dal 1950 al 1955 – e, d’altra parte, contro i 1500 milioni di quintali dati da tutti i cereali nel fertile 1955, quanti se ne sono raccolti nel 1956. Non crederemo mai che se ne siano raccolti 1800, quanti se ne aspettavano a dire di Bulganin nel 1960.

Gli aumenti del 1956 sarebbero stati anche notevoli per varie derrate alimentari. Latticini, 28 per cento; olio, 31; burro, 27; latte, 32 nei colcos, e solo 10 nei sovcos, altro punto di vantaggio per il contadino, che pure può poppare in segreto sotto la sua vacca.

Le dette cifre meritano di essere conciliate con quelle scoraggianti degli anni decorsi, e resta da provare che siano un avvio agli aumenti di circa il doppio che il VI piano ha promesso per carne, latte e simili, argomenti che abbiamo già trattati, e che resteranno chimera.

Vi è un dato che risulta decisivo. Si dichiara che negli investimenti di capitale da parte dello Stato si è rimasti del 6 per cento al di sotto dell’obiettivo, e questo non può non essere in relazione all’odierna «riforma gigante» del Soviet supremo, che investe soprattutto la centralizzazione statale dell’investimento. Durante il V piano gli investimenti in capitale dello Stato aumentarono del 92 per cento, il che dà come è noto il 14 per cento annuo. Tra il 1954 e il 1955 si ebbe l’aumento del solo 6,8 per cento, con strana brusca caduta del 17,7 per cento tra il 1953 e il 1954. Ciò indusse a frenare le promesse per il VI piano, come abbiamo avuto occasione di ben svolgere: si scese al 68 per cento nel quinquennio, che rappresenta l’11 per cento annuo. Non si è dunque ottenuto che il solo 5 per cento, se si è rimasti del 6 per cento al di sotto dell’obiettivo!

Siamo noi in presenza di «volontaristiche» manovre riformatrici, o della deterministica dimostrazione che si tratta di capitalismo normale che rallenta, alternando, come sempre e dovunque, folli avanzate a sinistri rinculi?

103 – Orgia di mercantile miseria

Un’ultima nota della recente comunicazione sul 1956 dobbiamo rilevare: il reddito nazionale (dulcis in fundo) si dice salito del 12 per cento. Nella nostra precedente esposizione abbiamo dedotto dalle cifre ufficiali che nel 1955 il reddito nazionale sovietico sarebbe ammontato a 370 miliardi di rubli. Questa cifra era da noi dedotta da cifre relative ufficiali, come quella dell’aumento del 68 per cento avutosi nel V piano e di quello del 60 previsto per il VI, aumenti cui al solito corrispondono annualmente l’11 ed il 10 per cento annuo circa. Appare strano che il reddito sia salito del 12 per cento, ossia più del previsto, proprio quando la produzione è cresciuta meno del previsto. Tuttavia la diminuzione denunziata dell’investimento avrebbe potuto far aumentare la parte consumata del reddito che influisce sul tenore di vita. Secondo quei precedenti dati il reddito del 1955 di presunti 370 miliardi di rubli avrebbe avuto destinazione ad investimento per 155 e quindi a 215 per il consumo, dal che facemmo le note deduzioni sul basso tenor di vita russo medio rispetto agli altri paesi.

Possiamo ora tener conto di altri dati. Più sopra dicemmo che l’equivalenza del rublo in lire, che si cita in pubblicazioni filosovietiche di 155, è molto minore, e dai prezzi dei generi di consumo si desume di poco più di 50 lire. Ora in data 15 maggio 1957 la stampa italiana ha pubblicato che con la data 1 aprile la banca del commercio estero dell’URSS, unilateralmente, ossia senza il bisogno di consensi degli altri paesi, ha rettificata l’equivalenza rublo-dollaro, che aveva stabilita da tempo in quattro rubli, a ben dieci rubli per dollaro, ossia facendo scendere al 40 per cento il valore del rublo, che in lire italiane verrebbe a corrispondere a 62, invece che a 156. Tutto ciò collima con le nostre precedenti estimazioni sia a proposito del costo della costruzione e uso di case che dei prezzi dei generi, anche volendo tener conto che nei dati del 1955 e del 1956 il rublo avesse maggior potere di acquisto che oggi all’inizio del 1957.

Nell’annuario per il 1955 dello Stato russo vi è un’altra indicazione che è il caso di utilizzare, sul volume del commercio interno al dettaglio.

Le cifre che sono fornite salgono ad un massimo di 550 miliardi di rubli per l’anno 1955, i cui dati in generale riporta il detto ultimo annuario.

Il commercio russo per il consumo è gestito dallo Stato per il 63 per cento, mentre il 28 per cento è gestito dalle cooperative, e il restante 9 per cento è costituito dalle vendite dirette dei piccoli produttori, il cosiddetto «mercato colcosiano». Del commercio statale e cooperativo i generi alimentari costituivano nel 1955 il 55 per cento, mentre nel 1940 avevano costituito il 63 per cento, in modo che il 37 per cento di allora, di altre merci di consumo (non alimentari), sarebbe nei quindici anni salito al 45.

È anche interessante uno specchio del commercio nel tempo. Da 50 miliardi di rubli nel 1932 si passò a 204 nel 1940, a 409 nel 1950, a 502 nel 1955 (escluso il mercato colcosiano). Qui si risponde alla ovvia domanda sul valore reale e non monetario di questa massa di merci vendute. Dal 1940 le dette cifre monetarie variano come gli indici 100, 200, 245. La variazione dei prezzi si afferma essere stata 100, 186, 138, ossia sarebbero saliti durante la guerra e il dopoguerra e discesi durante il V piano. Quindi il volume reale del commercio ha avuto l’andamento 100, 108, 209, mentre fatto il calcolo correttamente, come il lettore attento può verificare, si avrebbe solo 100, 108, 178. La guerra quindi avrebbe reso stazionario per dieci anni il commercio-consumo, che nel quinquennio ultimo sarebbe cresciuto da 108 a 178 ossia del 65 per cento, solito concorde indice del passo del V piano.

Per il VI si presume di andare da 502 a 830 miliardi, guadagnando ancora il 65 per cento. Ma come questa vicenda si incrocia con la mutevole valutazione del rublo? Si potrebbe dire che questa si dà di autorità secondo le convenienze del commercio statale con l’estero; ma noi abbiamo visto che le cifre dei costi della casa e della vita parlano in senso opposto.

Ciò stabilito tolleri il lettore un ultimo confronto, che affidiamo al suo senso critico. Notiamo anzitutto che, a parte la cifra data per il «mercato colcosiano», resta fuori da tutte le stime il valore della massa di merci consumate dai colcosiani in natura, che è difficile a calcolare, ma comunque aumenta il medio tenor di vita «di tutto il popolo» secondo la solita ipocrisia economica emulativa e mondiale.

Ci resta dubbio come si consumino 550 miliardi quando il reddito nazionale è stato indicato, sia pure implicitamente, di 370 e quello consumato, dedotti gli investimenti, si riduce a 215 soltanto.

È molto strano che con due terzi del commercio in mano allo Stato (socialista!) le merci siano commerciate due volte per mangiarle una sola! Questo è, rispetto a quello borghese, supermercantilismo.

104 – Mistero del tenor di vita

Per fare un finale confronto fra il tenore di vita in Russia e quello nei paesi occidentali, accetteremo la cifra di 550 miliardi di rubli per le merci consumate nell’anno 1955. Se dividessimo questa cifra per 205 milioni di abitanti il consumo pro-capite sarebbe di 2683 rubli.

Una simile ricerca per l’America sarebbe data dalla divisione di 260 miliardi di dollari per 170 milioni di abitanti, e si avrebbe un consumo di 1529 dollari pro-capite.

Infine per l’Italia dal reddito netto consumabile 1955 di 10 200 miliardi, in ragione di 48 milioni di abitanti, sono 212 500 lire. Facile il confronto con gli Stati Uniti: 330 dollari al posto dei 1529: come ben sappiamo siamo consumatori cinque volte più leggeri.

Se applicassimo al russo abitante il rapporto della banca per il commercio estero in 10 rubli a dollaro, gli resterebbero 270 dollari, e ancora una volta saremmo al di sotto del livello italiano.

Se invece (vedi paragrafo 84) partiamo – sempre usando le cifre ufficiali dello Stato russo – dal reddito «nazionale», e ne deduciamo il pesante investimento, vediamo il consumatore russo scendere ben al di sotto di quello italiano, e ciò perfino se ammettiamo che nel corso del 1955 valesse il dubbio rapporto di quattro rubli a dollaro.

Un tentativo di conciliare la contraddizione fra i dati può essere quello di attribuire l’eccesso di acquisti sul reddito ufficialmente calcolato proprio alla massa dei colcosiani (e in genere dei micro-produttori), che sono dei cripto-redditieri. Data la finzione che in Russia abbiano un «reddito» solo quelli che pigliano un «salario» (ossia proprio quelli che, se si impara su Marx e non su Keynes-Malthus, non hanno reddito di sorta!), la differenza tra 550 miliardi di acquisti agli spacci e 215 di reddito consumabile «registrato» diamola alla massa agraria degli aziendali-familiari e a una certa massa artigiana o borsanerista delle città, e inoltre all’altra schiera nera degli «operatori economici» invisibili, soprattutto delle industrie di appalto; i 215 miliardi sono il reddito dei salariati dello Stato (e bassi impiegati), che calcoliamo, con le famiglie a loro carico, e dopo adatta mitigazione delle assurdità ufficiali, a metà della popolazione totale (vedi la nostra ricerca demografica dei paragrafi 44 e sgg.). La Russia risulterà un paese, come mostrammo, più industriale oggi dell’Italia, e il reddito pro-capite della classe operaia sarà di 215 miliardi di rubli per 100 milioni di abitanti e quindi 2150 rubli, meno lontano dai 2700 che vengono fuori dalla statistica del commercio.

Non importa molto se quei 2150 rubli valgono 215 dollari, e 135 mila lire, o alquanto di più. Ammettiamo fra tanto dubbio una equivalenza dell’ottavo di dollaro: saranno 270 dollari e 170 mila lire.

L’importanza è altrove. Avendo un maggior grado di industrializzazione, la Russia remunera l’operaio, il proletario, meno che l’Italia media, e quindi molto meno che l’Italia industriale, per tacere degli altri paesi.

La differenza tra 550 e 215, ossia 335 miliardi di rubli, in larga parte (ossia dovendo soltanto toglierne il valore reale della forza di lavoro spesa dalla metà rurale della popolazione nella terra di casa sua e in simili rapporti) e quindi non meno della metà di tutto il consumo, di tutti i 550 miliardi di incassi degli spacci, ha, nella teoria di Marx, un nome semplice e noto: plusvalore.

Valga il rublo quel che vuole al cambio della banca dei predatori mondiali; è il «socialismo» misurato con questi ignobili, inafferrabili rubli che non vale neanche il canchero che lo freghi.

105 – Nel tempio-stato, l’idolo d’oro

Fino a pochi anni addietro, ed in virtù delle teorie «aggiunte» da Stalin a Marx, l’argomento principe per contrapporre il «sistema socialista» a quello capitalista era che tutto il flusso della ricchezza e della moneta, o quasi tutto, rifluiva nella cassa unica dello Stato.

La nostra rassegna di fatti economici – quanto alla difesa di mai tradite né migliorate dottrine esse si difendono da sé; i loro baluardi da un secolo non vacillano per l’urto dei filistei – si avvia alla fine, con la constatazione che anche la divisa «tutto allo Stato» è caduta sotto la sorte risibile dell’arricchimento e dell’aggiornamento - ossia vaga a brandelli nella miseria e nella notte.

Ma anche un’economia tutta ficcata nello Stato è economia capitalista, anzi ne è – sì, o signori, nelle immutabili tavole - la suprema espressione. Non sarà il caso di ricordare che, semmai, l’economia socialista si definisce economia senza Stato; e lo Stato socialista verrà, ma per sbrigare faccende di guerra sociale e di liquidazione senza scrupoli dei residui lasciati nell’uomo dal capitalismo sociale e politico.

Nei paesi capitalistici una frazione notevole dell’economia fluisce ormai attraverso la macchina amministrativa dello Stato, e del resto nelle più antiche forme di produzione vi furono stadi in cui vi passò in forme più rilevanti, ed anche in rapporti più alti, se teniamo fuori dal confronto i settori di economia naturale e non mercantile. I lavori di costruzione ad esempio, come Marx illustra nella sua prima stesura del testo del «Capitale», di recente pubblicata dai russi sui manoscritti di un secolo addietro (Quaderni del 1857–58), furono quasi in totale affidati allo Stato nelle economie classiche (Roma) e nelle più antiche orientali (Egitto, Assiria…)[298].

Se ci poniamo il problema per gli Stati Uniti troveremo che su 73 miliardi di dollari del solito reddito nazionale, nel 1939, lo Stato spese 9 miliardi, ossia circa il 12 per cento, e se ci riferiamo al prodotto lordo nazionale di 91 miliardi il 10 per cento.

Nel 1955 invece la spesa dello Stato è stata ben 67 miliardi, contro 325 del reddito netto e 412 del prodotto lordo, salendo al 20,6 e al 16,3 per cento.

Ciò significa che mentre la «economia», all’ingrosso, nel periodo di 16 anni diventava oltre quattro volte più elefantesca, il suo settore statale si gonfiava quasi otto volte. Noi marxisti del 1857–1957, invece di dire: Che passi sta facendo il socialismo in America!, ci limitiamo a fregarci le mani e dire: Spicciati, che si avvicina il giorno in cui devi schiattare, capitalismo!

Che – solito metodo di noi «aprioristi», «dogmatici», e sordi alle lezioni della storia – nella povera Italietta?

Nel 1955 sul prodotto lordo nazionale di 13 mila miliardi, e netto di 11 circa, lo Stato ha speso duemila miliardi e un quarto di lire, ossia il 17 e il 21 per cento di tutto. In socialismo battiamo l’America! E figuriamoci appena una benefica crisi ci dà il ministero Pietro-Palmiro, a sfonda-Pantalone.

Il confronto storico italiano? Eh noi, grazie a Benito, già nel 1939 eravamo in pieno socialismo. Contro 150 miliardi di reddito nazionale netto lo Stato ne spese oltre 40, ossia il 27 per cento! Di tal socialismo siamo non degeneri figli, essendo scesi solo al 21 e più per cento di oggi, contro il 20 americano.

Ed ora alla Russia. Le spese del bilancio statale sono state in miliardi di rubli dal 1950 al 1954 di: 413, 430 (?), 460, 514, 560.

La cifra che ci deve indicare l’economia generale è dubbia per le ben note ragioni dei redditi in natura e dei redditi nascosti. Se prendiamo la nostra elaborazione dalle dichiarazioni congressuali sul reddito nazionale, che abbiamo date nel paragrafo 84, abbiamo 210, 230, 260, 295, 330, e restiamo un poco intrigati perché lo Stato spende di più del «reddito nazionale». Il fenomeno esige riflessione. Sarebbe questo il «socialismo»?

106 – Reddito e bilancio

Non sempre è facile fissare le idee economico-sociali. L’atmosfera è densa di cortine fumogene. In questo caso sono sparse da entrambe le basi nemiche.

È chiaro che i russi intendono per reddito nazionale quello che chiamano reddito della popolazione. Quindi vi figurano, come abbiamo più sopra mostrato, tutti i salari e gli stipendi che pagano la fabbrica di Stato, il sovcos, gli uffici della pubblica amministrazione, e così via. Ma i «profitti delle aziende», siccome si afferma che non li consuma nessun privato, ma o sono versati allo Stato o sono reinvestiti (col permesso del piano generale) nella stessa azienda, si sostiene ufficialmente che non figurano nel reddito nazionale. Se tanto fosse vero, allora non si dovrebbero neanche sottrarre, ad esempio, dai 370 miliardi di reddito nazionale del 1955 i 155 miliardi di investimenti, come sopra abbiamo fatto. Tuttavia se così fosse diverrebbe un’altra la contestazione da fare ai filo-sovietici: lo scarto tra i 550 miliardi di commercio per il consumo e i 370 di reddito nazionale si ridurrebbe alla cifra cospicua di 180 miliardi e diminuirebbe il rapporto fra reddito consumato e reddito totale prodotto, oggetto di violenta polemica tra occidentali ed orientali, e sia pure. La rata di 155 su 550 sarebbe sempre più alta che in occidente: il 28,2 per cento.

La statistica ufficiale, esagerata indubbiamente quando esalta la trasformazione della Russia in paese industriale, denunzia 48 milioni di operai ed impiegati nel 1955, come sappiamo. Solo ora nel 1957 si assume di avere assicurato il salario di 300 rubli al mese e 3600 annui: il fondo salari sarebbe 173 miliardi, e quindi resta a notevole distanza sia da un reddito nazionale consumabile di 215 miliardi, quale dedotto sopra, sia – e ovviamente assai più – da uno di 370 miliardi; e di fronte a 550 miliardi consumati lo sarebbero col fondo salari solo 173, e poniamo pure, col gioco degli alti salari e stipendi ad una piccola minoranza, 200. Saliamo con la forza lavoro interna colcosiana a 275; siamo sempre a metà di forza lavoro compensata contro 550 di consumo mercantile, il che vuol dire che la metà è plusvalore, come sopra per l’altra via e con le solite riserve sulle cifre russe, ma sempre con vantaggio della nostra tesi, si è dedotto.

Tornando al bilancio statale, le sue alte spese derivano da queste partite, prendendo il 1952 per cui si hanno dati completi: finanziamento dell’economia nazionale, 39 per cento; provvedimenti sociali e culturali, 27 per cento; spese militari, 24 per cento; amministrazione statale, 4 per cento; servizio debito pubblico, 2 per cento; altre, 4 per cento.

Le entrate che provvedono a queste spese sono – queste per il 1954, essendo il bilancio russo dato per comprensibili ragioni sempre in pareggio – imposte indirette, 41 per cento; imposte dirette, 8 per cento; prelievo sui profitti, 16 per cento; prestiti, 3 per cento; altre, 32 per cento.

Dunque l’industria di Stato, a parte quanto poi riceve per nuovi investimenti in conto della nazione, versa allo Stato parte dei suoi profitti, coprendo in tal modo il 16 per cento sui bilanci. Secondo la fonte di cui ci stiamo servendo (discorso del ministro delle finanze Zverev nell’aprile 1955) le aziende statali nel 1954 ebbero profitti per 123 miliardi di rubli: lo Stato ne ritirò 92,6 come detto, ossia il 75 per cento, e il restante 25 per cento figura come «auto-finanziamento» ossia va a ulteriore capitale dell’azienda, e quindi in teoria sempre allo Stato industriale e azionista unico delle fabbriche e imprese.

Il prelievo dello Stato sui profitti era finora in continuo aumento: dal 1949 in poi 49, 56, 61, 70, 72, 75 per cento. Dal 1957 tout va changer!

Possiamo arguire che i 118 miliardi di profitti dell’industria statale si possano aggiungere al reddito nazionale dei privati. In questa balorda definizione il salariato è un privato, mentre nel marxismo privato è colui che vive del lavoro altrui: il lavoratore non è privato che usando la parola grammaticalmente quale participio passato, e quindi al passivo: il privato all’attivo (in barba anche alla grammatica) è il piccolo e grande borghese. E lo Stato-datore di lavoro.

Con la detta aggiunta il reddito nazionale aumenta per il 1954 a 330 più 118 miliardi, ossia 448 miliardi, e si comincia ad avvicinare al bilancio statale di 570 miliardi.

107 – Il gobbo fisco sovietico

Sarebbe anche plausibile ritenere che il reddito della popolazione sia dato depurato dalle imposte, almeno dalle imposte dirette che sono quelle (ma che specie di socialismo!) sul reddito privato, e possiamo aggiungere altri 46 miliardi portando il reddito nazionale a 494. Potremmo anche supporre che non si sia fatta figurare nella statistica del «reddito popolare» la spesa che fa lo Stato per la propria amministrazione, ossia il reddito della famosissima burocrazia, spesa che è stata nel 1950 di 13,8 miliardi, nel 1952 di 20,8, e nel 1953 prevista di 24,3 (come si era fatto l’anno prima) e non riferita di quanto nel fatto, mentre del 1954 non si è pubblicato né preventivo né consuntivo. In ragione proporzionale sarebbero almeno 25 miliardi; anche i 10 miliardi di interessi privati passivi sul debito pubblico andrebbero aggiunti al reddito del «popolo», ed ovviamente i 16 che lo Stato si è in quell’anno fatti prestare, e che da qualche parte sono usciti (tra cui confische dei salari statali). Tuttavia per pareggiare bilancio dello Stato-padrone e reddito della nazione bisogna attingere un poco alle altre partite di imposte indirette e spese incognite.

La conclusione cui abbiamo condotto il lettore è che in Russia lo Stato maneggia non il 20, non il 25, ma il 100 per cento del reddito nazionale, che in realtà per il paragone con gli altri paesi borghesi vale: lavoro pagato più profitti.

La dimensione infatti del bilancio nazionale, di oltre seicento miliardi di rubli nel 1955, trova rispondenza nell’ordine di grandezza del totale commercio dei beni acquistati dai consumatori, nel volume degli affari.

Se il reddito nazionale accertato in Russia non rappresenta che in parte minore lavoro umano vivo pagato, e se la parte in eccesso cresce sempre quando alla massima cifra incontrata finora di 370 miliardi di rubli si aggiungano i «profitti dello Stato» e le sue varie confische – nel che non fa che seguire le orme di tutti i suoi predecessori storici – bisogna anche ritenere che la parte di economia che resta fuori dallo Stato è poca rispetto all’occidente (con rammarico di tutti fuorché dei veri proletari) ma all’opposto la parte di economia che resta fuori dalle misurazioni statistiche è maggiore che altrove. Le ragioni sono due: l’ampio posto fatto all’economia bloccata al tipo naturale nei colcos (e anche in altre sfere) con un consumo non mercantile del produttore, che risulta non misurabile, e la parte che è lasciata al contrabbando delle merci e dei profitti. Questa è enorme, come mostrano tutte le fasi di guerra e di emergenza in cui lo Stato capitalista si mette a fare e dettare tutto lui. Quando lo Stato ha proclamato che tutto il reddito consumabile deve passare per le sue casse e le sue calcolatrici, una parte sempre più alta del consumo si attua per vie illegali, non tanto di acquisto della merce quanto di guadagno di denaro.

Certo che se il socialismo fosse la pigiata dell’economia dentro lo Stato esso condurrebbe a questo, o alla fucilazione in permanenza: ma il socialismo è l’opposto, è l’economia portata fuori dal mercato, e dalla circolazione di moneta. E i suoi passi avanti si misurano con questo solo metro, dando fuoco alle statistiche e gettando dalla finestra le calcolatrici.

Tutte le contorsioni della statistica russa non danno che la misura del suo triviale rinnegamento.

Ormai la maggioranza dei lavoratori è stata abituata a tutti i pasti, ma è certo che nei primi tempi questa storia delle fortissime imposte in Russia è stata mal digerita. In verità la cosa più strana è che la digerisca il codazzo schifoso di piccoli borghesi, di bottegai, di intellettuali, di poveri cafoni da tutti fregati, che purtroppo sta dietro a stalinisti e post-stalinisti, e in cui immenso è l’orrore dell’agente del fisco. dell’esattore dei tributi.

108 – Dal mazzo delle democratiche ubbie

Secondo il misero bagaglio degli agitatori di folle che, in modo del tutto parallelo ai demagoghi che oggi ovunque parlano per il Cremlino, hanno cercato di trarsi dietro i ceti e le folle «popolari», un vecchio luogo comune è questo, in materia di imposta. Le imposte dirette sono quelle con cui lo Stato interviene a prendere per sé e per i servizi sociali che deve gestire parte del reddito che ogni cittadino incassa in moneta. E si intendeva reddito di proprietà, reddito di impresa, ossia di industria, di commercio. Ha fatto sempre parte dei luoghi comuni dei socialisti democratici e se vi pare dei democratici socialisti e dei democratici sociali, da un buon secolo, la «rivendicazione»: niente imposta diretta sul salario! E con questo si era coerenti ad un teorema economico che il marxismo contiene: il salario non è reddito! I redditi sono le varie parti in cui il plusvalore si ripartisce: rendita, profitto, interesse commerciale e bancario. Pur avendo il plusvalore giustamente, tramite l’imposta, provveduto a darci il servizio di strade, ferrovie, vigili del fuoco…, birri, preti e parlamentari.

La croce era invece gridata contro l’imposta indiretta, in quanto la stessa si fa pagare dal consumatore, aggiungendola al prezzo a cui le merci gli sono vendute. Tale imposta la paga quindi chiunque consumi; consumi dal reddito o dal magro salario importa poco.

Due quindi le magnifiche grida della democrazia filopopolare e filoproletaria (per quelli che non ne schifano l’amplesso lurido!). Non imposte indirette, sul pane del popolo, ma imposte dirette, e, soprattutto, imposte progressive sui redditi. Così si colpiscono gli alti profitti e gli alti redditieri. Simili stupide solfe sono ancora in voga nel festival della regia cremlinesca, che naturalmente caccia sotto i piedi il facile teorema di babbo Marx. I servizi dello Stato si dividono in quelli che aiutano l’umanità e in quelli che la fottono. Nell’uno e nell’altro caso, qualunque sia il sistema di imposta, la spesa di tali servizi è pagata dal plusvalore e grava sulla classe lavoratrice.

Non è dunque come marxisti ma come democratici che trattiamo questi signori gettando loro sul grugno il fatto, per noi in sé ben spiegabile, che in Russia si paga un fottio di tasse, e di più che le dirette sono appena un sesto delle indirette. Facile sarebbe rispondere che, non essendoci più alti redditieri, lo Stato farebbe affare magro a tassare alti redditi, anche perché dovrebbe confessare ufficialmente che ne esistono, rovinando la propaganda.

Vogliamo solo deridere la pretesa degli agenti esteri del Cremlino di essere più in alto delle vecchie rancide panzane dell’economia democratica. Non avrebbe il diritto di dare tale risposta chi ne segue tutti i passi, affiancandola nella ricerca di esaltazione dell’investimento e nello stesso tempo di democratizzazione non solo della proprietà della terra e della casa, ma perfino del capitale industriale e commerciale.

Ma è forse possibile tenere per un momento in piedi anche qualche timido barlume di quella abbagliante folgorazione di menzogne che ci permise di disperdere il bigottismo della piccola economia, quando ogni giorno si sacrifica alla peggiore superstizione per le parole d’ordine democratiche, e anche peggio, in politica, in diritto, in morale, in filosofia?

Ha diritto di mantenere la critica al sistema borghese di imposta chi ha disertato da quella alla statolatria e al legalitarismo costituzionale, alla santità della famiglia e della persona, che tutto assomma, anche l’omaggio al peggiore pietismo e fideismo, oltre i quali un giorno era andata la stessa democrazia borghese laica?

Può forse balbettare marxismo in economia – del sistema fiscale russo diremo subito in breve – chi scrive genuflesso del galero messo in testa al cardinale polacco, e non esita davanti ad espressioni di questo calibro: «Rafforzare il prestigio della Chiesa ed estendere il magistero del clero»? Dopo di che hanno ragione i giornali benpensanti («Tempo» rivista):
«Se è vero che il marxismo non distrugge la religione, è altrettanto vero che la religione non distrugge il marxismo».
È un patto storico corso, ma non con il marxismo: tra due passeggiatrici della storia, religione e democrazia, di cui è la seconda che è degna della tessera della questura.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. «Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie», ed. Mosca 1953: cfr. la trad. it. «I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica», Firenze, 1968–1970. Si veda in particolare il capitolo su «le forme che precedono la produzione capitalistica» (in tedesco: «Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehn»). [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 11, Maggio 1957

[top] [home] [mail] [search]